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I guardiani dell'isola perduta
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I guardiani dell'isola perduta
Ebook433 pages5 hours

I guardiani dell'isola perduta

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About this ebook

Nell'abisso si nasconde un mistero che cambierà la storia 

Un grande thriller

Una scossa improvvisa giunge nella vita di Charles Fort, giornalista appassionato di misteri. Il suo amico Luca Bonanni è morto in un incidente stradale e proprio lui viene convocato dalle autorità per riconoscerne il corpo. Ma le sorprese che lo attendono non sono poche: la compagna di Bonanni, Selena, sospetta un’altra causa di morte e lo contatta per chiedergli aiuto. Ha con sé una valigia lasciata dall’uomo piena di oggetti provenienti da relitti inabissatisi nel Pacifico e che nessuno, in teoria, potrebbe aver recuperato. Le domande sono tante: cosa lega il contenuto della valigia alle ultime ricerche di Bonanni? Da cosa dipendevano i suoi timori negli ultimi giorni prima dell’incidente? E soprattutto, chi o cosa sono gli hermanos del mar che cercava lungo le coste messicane e poi nell’arcipelago delle Fiji? Per risolvere i tanti misteri, Charles Fort e Selena si spingeranno dall’altra parte del mondo, trovandosi alle soglie di una scoperta scioccante che unisce le ipotesi sull’esistenza di misteriose creature degli oceani agli affari di una spietata multinazionale...

Una cospirazione internazionale
Un mistero celato negli abissi

Hanno scritto di La mappa della città morta:

«Una storia di fantasia che attinge dalla realtà delle grandi esplorazioni.»
economiaitaliana.it

«Un libro d’avventura ricco di colpi di scena, da leggere tutto d’un fiato.»
Solo Libri

«La risposta italiana allo stile di grandi autori come James Rollins e Ken Follett.»
GraphoMania
Stefano Santarsiere
Nato nel 1974, vive e lavora a Bologna. Ha diretto il cortometraggio Scaffale 27, aggiudicandosi il primo premio nel contest Complete Your Fiction 2012. Ha pubblicato i romanzi L’arte di Khem, Ultimi quaranta secondi della storia del mondo, e con la Newton Compton La mappa della città morta.
LanguageItaliano
Release dateJan 26, 2017
ISBN9788822704870
I guardiani dell'isola perduta

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    Book preview

    I guardiani dell'isola perduta - Stefano Santarsiere

    PROLOGO

    417 mln bp¹, era Paleozoica, periodo Devoniano. Emisfero meridionale, Gondwana centro-orientale

    La pinna caudale oscillava lentamente facendo scivolare il corpo nell’acqua più bassa e calda.

    Il Sole era sorto e tramontato cinque volte da quando la creatura era partita verso la terraferma. Per tutto quel tempo, si era guardata dai titanici predatori che emergevano dalle profondità marine alla perenne ricerca di cibo. Nei periodi di oscurità aveva attraversato nugoli di esseri impalpabili che protendevano filamenti di una misteriosa fosforescenza e, quando l’alba iniziava a diffondere nel cielo il suo lucore metallico, si era difesa da tentacoli che la ghermivano, addentandoli con le forti mascelle.

    Ma in quel momento, dopo la lunghissima traversata, il suo cuore era sul punto di arrendersi.

    Un riflesso chiaro la raggiunse dall’alto e la creatura rallentò, ruotando stancamente un piccolo occhio. Risalì verso la superficie. Spinse la testa oltre il pelo dell’acqua e lasciò entrare l’aria, che gonfiò i minuscoli polmoni escludendo il filtraggio delle branchie. Il dorso argenteo luccicò nei raggi del mattino prima che tornasse a immergersi, nuotando sopra un fondale irto di scaglie e sporgenze bulbose, frutto di colate laviche non troppo antiche.

    Si trascinò fino alla costa e iniziò a nuotare in parallelo alla terraferma, mentre il suo corpo proiettava un’ombra solitaria al centro di una ragnatela di riflessi. In prossimità della riva il fondo roccioso fu sostituito da un tappeto di fango, percorso da animali dalla forma schiacciata e muniti di lunghe antenne, che si muovevano appena.

    Gli occhi della creatura individuarono l’anfratto giusto e le pinne diressero il corpo verso quel punto. Entrò in un’insenatura che s’inoltrava fra grandi scogli semisommersi e nuotò fin dove il mare terminava contro uno scalino di roccia bruna.

    Fu in quel punto che, annusando la parete, s’immerse e individuò una rientranza sicura, al riparo da qualunque predatore.

    Era uno spazio angusto, una cavità con un fondo di sabbia grossolana. Il luogo adatto dove chiamare a raccolta le forze che ancora la sostenevano e compiere l’ultimo atto della sua esistenza.

    Il più importante.

    Per un lungo intervallo restò a fluttuare nell’oscurità, in quella sorta di sifone dove l’acqua sciabordava a piccole ondate. Le branchie filtrarono ossigeno, le pareti della sacca riproduttiva si contrassero con estenuante lentezza.

    Il primo esemplare fu espulso con relativa facilità, una creatura in tutto e per tutto uguale alla madre ma di proporzioni ridotte. Il piccolo si agitò freneticamente in una nuvola rossastra e si strinse al corpo che l’aveva partorito. Il secondo e il terzo ebbero molte più difficoltà, poiché la creatura era allo stremo e il cuore batteva più debolmente.

    Restarono anch’essi accanto alla madre, come se temessero di perderla per sempre.

    L’ultimo impiegò un tempo infinito per venire al mondo. Quando il cuore le stava per cedere, la creatura riuscì a radunare le ultime energie e compiere lo sforzo decisivo. Il piccolo fu espulso nel medesimo istante in cui la madre fu scossa dallo spasmo finale. La mascella restò socchiusa, il corpo ormai inerte si adagiò su un lato.

    I quattro piccoli indugiarono a lungo, stretti sul ventre della madre, come in attesa di vederla rianimarsi. Infine, prima che il Sole tramontasse, tre di essi uscirono dalla cavità e nuotarono verso il mare aperto.

    Il quarto esemplare, quello nato per ultimo, restò nel rifugio per l’intera notte e il giorno successivo. Infine abbandonò quel luogo dove la madre non avrebbe mai potuto nutrirlo, affiorò sulla superficie e scrutò con occhi tondeggianti l’orizzonte, fissando quella linea di rocce brulle seguita dall’azzurro cupo delle acque. Respirò ossigeno allo stato gassoso e attese che un istinto ancora acerbo lo spingesse verso quelle profondità. Per un lungo intervallo i raggi virarono dapprima al rosa e poi al rosso sempre più intenso, finché avvenne qualcosa di nuovo.

    La piccola creatura si girò verso la terraferma. Vide un vasto arenile la cui sabbia rifletteva la luce. Più avanti l’arenile lasciava il posto a una rada foresta di alberi molto alti, privi di chiome, i cui tronchi erano coperti da rampicanti. E sullo sfondo si stagliava il profilo di un vulcano fumante.

    Il piccolo si avvicinò al gradino di roccia. Puntò una delle pinne laterali sulla pietra, poi l’altra. Restò immobile, incerto, a respirare quell’aria primordiale.

    Infine si lanciò oltre il gradino.

    Tre metri più in basso un flutto d’acqua penetrò con violenza nella cavità, smuovendo il materiale sul fondo. Un sottile velo di sabbia iniziò a depositarsi sul corpo della madre.

    Dieci giorni dopo ne fu del tutto ricoperta.

    1 bp o Before Present. Con questa sigla si intendono gli anni prima (del tempo) presente. Si tratta di una scala di datazione utilizzata in geologia, archeologia e altre discipline che analizzano eventi estremamente distanti nel tempo o epoche molto estese. La scala è utilizzabile al posto della più comune datazione a.C.-d.C.. Il punto di partenza del tempo presente è convenzionalmente fissato nel 1950, per cui, ad esempio, l’anno 2000 bp equivale all’anno 50 a.C.

    PARTE PRIMA

    Segnali dagli abissi

    1

    16 ottobre 2005, Oceano Pacifico occidentale

    90 miglia a sud delle isole Salomone

    Nave oceaonografica Pencil Sea

    Albert Pitzon chinò lo sguardo sotto la murata di babordo e vide le ombre saettare quasi in superficie.

    Un banco fitto e disciplinato di sardine puntava dritto a est.

    Lo seguì con gli occhi, fin quando non svanì nei riflessi scintillanti dell’oceano, e subito dopo raggiunse il ponte, inondato di una luce accecante ma spazzato da un vento da sud-est che scuriva le acque e sollevava creste di spuma.

    Stavano mappando una zona a sud delle isole Salomone, quasi ottocento miglia a est della costa australiana. La profondità media del fondale era di 3200 metri con punti contrassegnati da archi vulcanici sottomarini. Pitzon, l’oceanografo responsabile del team, dirigeva le batimetrie e attendeva che un plotter disegnasse con estenuante lentezza le mappe di profondità su grandi fogli.

    Entrò nella plancia e si piazzò di fianco al comandante, un sessantenne scorbutico e cotto dal sole, di nome Jimmy Vella. Si godé la vista della balconata ignorando i beccheggi del bastimento e poco dopo chiese a Vella di fermare i motori. Erano giunti al limite della zona già scandagliata, occorreva pianificare la direzione dei successivi tracciati. Stese la carta nautica sul tavolo, tracciò una rotta che procedeva a zig zag lungo un segmento largo un miglio e lungo dieci. In seguito avrebbe allungato il segmento per altre dieci miglia, poi avrebbe ordinato al comandante di tornare indietro e proseguire su un altro miglio di fascia oceanica in direzione ovest. Era un’attività complessa che sarebbe costata due settimane di lavoro per mappare circa duecento miglia quadrate di fondale.

    Un’ora dopo i tecnici attivarono il sonar, un potentissimo modello a scansione laterale messo a disposizione dalla società committente. Pitzon si sedette di fronte allo schermo del computer collegato allo strumento e indossò le cuffie dell’idrofono. Di fianco a lui si sistemò Robert Jacobson, il miglior geologo marino dell’agenzia e amico di lunga data dell’oceanografo. Era più anziano di Pitzon di cinque anni, ma soprattutto aveva un carattere tenace che lo rendeva il componente ideale di ogni missione.

    Gli occhi dei due tecnici furono attratti dai grafici dei suoni sottomarini, picchi di colore chiaro su uno sfondo blu scuro, simili ai disegni di un sismografo. Come sempre, il sonar si mescolò a vaghi, lontanissimi rumori oceanici: il respiro di correnti sottomarine, l’echeggiante richiamo di una megattera, indistinti scricchiolii di natura sconosciuta che all’orecchio di Pitzon risuonavano come l’eco del movimento di immense placche tettoniche.

    Infine, quel giorno per la prima volta, si udì anche qualcos’altro. Un accorato susseguirsi di fischi nasali a intensità variabile.

    Pitzon si voltò verso Jacobson, concentrato sullo schermo. I picchi di colore si erano fatti più frastagliati e i versi sembravano allontanarsi. Pitzon si accostò all’amico.

    «Delfini?».

    L’altro annuì. «A centinaia».

    «Strano. Cosa li spingerà a muoversi in così grande quantità?».

    Jacobson alzò le spalle e fissò di nuovo lo schermo. «Non so. Predatori?»

    «Forse».

    Il comandante Vella, che si rollava una sigaretta approfittando della pausa, osservò con aria divertita i due che conversavano con gli occhi incollati a quei ghirigori. «Dovrebbero avere alle calcagna decine di squali o di orche», disse a voce alta per farsi sentire oltre le cuffie.

    Pitzon sollevò lo sguardo. «Eh?»

    «Dicevo… se sono centinaia e vanno tutti nella stessa direzione, non è per i predatori».

    «E per cosa?»

    «Chi lo sa». Leccò la cartina per chiudere la sigaretta. «Sono pesci matti, seguono pensieri tutti loro».

    Mentre parlava accadde qualcosa. I lamenti dei delfini si erano dispersi nelle profondità marine sostituiti da altri rumori.

    Pitzon e Jacobson si ingobbirono per ascoltare quel suono con la massima attenzione.

    Era un’unica tonalità, a frequenza più bassa dei versi dei cetacei, che si alzò dal nulla e ricadde per tre volte consecutive. Quindi scomparve, per irrompere dopo mezzo minuto più forte di prima; crebbe di intensità raggiungendo un picco di volume e poi cadde di nuovo. La mano di Pitzon corse al computer per accertarsi che la registrazione fosse in azione. Vella si era acceso la sua sigaretta e non faceva più caso a quei due che ascoltavano e si sbirciavano con la coda dell’occhio. Il suono si levò e cadde in una nuova sequenza di tre. Pitzon afferrò il block notes e segnò le sequenze con delle stanghette. Due, poi tre, poi cinque separate da intervalli. Il volume dell’ultima sequenza risultò molto alto come se la fonte del segnale fosse a poca distanza dalla nave. I tecnici sollevarono le cuffie dalle orecchie per proteggersi i timpani. Nelle successive tre sequenze si fece più debole. Poi diventò quasi impercettibile e infine svanì, sostituito da altri suoni più spenti e lontani, richiami di grandi mammiferi marini.

    Jacobson e Pitzon rimasero in ascolto per diversi minuti. Vella fece in tempo a finire la sua sigaretta, fumarne un’altra e schiacciarne il mozzicone nel posacenere.

    Il suono non ricomparì.

    I due si tolsero le cuffie e Pitzon esclamò: «È andato nella stessa direzione dei delfini».

    2

    Avevano passato in rassegna una decina di ipotesi, esaminandole con l’intero team e scartandole una per una, a cominciare da quelle che includevano sottomarini o altri apparati tecnologici mobili, per la semplice ragione che l’ecoscandaglio li avrebbe rilevati. Ma su un punto i tecnici della Pencil Sea erano concordi. C’era uno schema. Sequenze e pause erano distribuite in modo razionale. E questo portava a un’altra conclusione: qualsiasi cosa propagasse quei segnali era dotata di intelligenza.

    Si trovavano tutti nella saletta allestita per le riunioni tecniche. Pitzon aveva disposto di lasciare l’idrofono acceso e dall’altoparlante installato in quella stanza giungevano vaghi ronzii.

    Oltre al responsabile del team e Jacobson, erano presenti Daniel Sonners, un irlandese di trentacinque anni, esperto di meccanica dei fluidi, il biologo marino Stephen Hume e il responsabile tecnico del sonar, l’ingegner Sean Phears. Il comandante Vella era in plancia con il suo secondo, mentre il resto dell’equipaggio se ne stava alla larga: quella gente sapeva riconoscere quando era il caso di lasciare i cervelloni del bastimento alle loro elucubrazioni.

    Erano le dieci di sera. Il tavolo ovale era cosparso di sacchetti semivuoti di patatine fritte e lattine di birra, oltre al computer portatile dove Phears aveva caricato il segnale per analizzarlo allo spettrogramma. L’aria era satura di fumo: Sonners si era preso la libertà di fumare diverse sigarette e Jacobson lo aveva subito imitato.

    Pitzon non ci badò. Non riusciva a togliersi dalle orecchie quel suono. La sua mente lo rievocava in sequenze di tre, un’eco che sorgeva dal profondo, raggiungeva un apice e poi precipitava, disperdendosi come frammenti in un immenso pozzo. L’oceanografo osservava Phears, che analizzava il suono con espressione seria e concentrata.

    Poi Hume disse la sua, dopo aver riflettuto per una buona mezz’ora sulle stampe dei tracciati del sonar.

    «Spingeva via i delfini».

    Pitzon tornò alla realtà. Notò che Phears aveva annuito impercettibilmente a quelle parole.

    «Nel senso che si spostava nella stessa direzione?», chiese.

    Il biologo scosse la testa. «Nel senso che li spingeva lontano da noi».

    Jacobson aggrottò la fronte, con l’ennesima sigaretta tra le dita. «Per quale scopo? Per predarli?».

    Hume fece un sospiro e incrociò le braccia. «Magari per il motivo opposto: per proteggerli».

    Stavolta Phears osservò il biologo per alcuni secondi, prima di mettersi le cuffie e concentrarsi nuovamente sui suoni.

    «Proteggerli da cosa?», disse Jacobson.

    «Da noi».

    Sonners, che seguiva il dialogo facendo oscillare il testone dall’uno all’altro, intervenne con voce arrochita dal fumo: «Ma non siamo qui per i delfini. E di certo non siamo pericolosi».

    «Osservate il tracciato delle sequenze e quello dei delfini». Hume girò le stampe per mostrarle ai colleghi. Il biologo aveva ritagliato i tracciati del suono e quelli dei delfini, poi li aveva sovrapposti. Batté con l’indice sulle linee e disse: «Seguono la stessa direzione».

    «Questo lo sappiamo», disse Jacobson.

    «Sì, ma guarda meglio, Robert. Le velocità dei due tracciati sembrano aumentare insieme, con una leggerissima differenza temporale. Il suono sconosciuto aumenta velocità, e subito dopo i delfini accelerano».

    Pitzon e Jacobson si guardarono. Sonners scuoteva il testone. «E quindi?»

    «Diamine, ragazzi», sbottò Hume. «Possibile che non ve ne rendiate conto?».

    Pitzon guardò il collega con occhi colmi di sorpresa.

    «È un inseguimento!».

    «Non proprio», disse il biologo. «Dopo che i delfini accelerano, il suono sconosciuto resta a velocità costante. Come se si accontentasse di allontanarli».

    Pitzon si alzò dalla sedia e si portò la mano sul mento.

    «Ribadisco», intervenne di nuovo Sonners. «Non vedo una ragione per cui qualcuno, o qualcosa, dovrebbe proteggere i delfini da questa nave».

    «Io sì, invece», ribatté il responsabile del team. «E credo che dovreste vederla anche voi». Quelle parole fecero cadere il silenzio nella sala. L’oceanografo richiamò l’attenzione di Phears, che per tutto il tempo aveva continuato le sue analisi sul suono. L’ingegnere si tolse le cuffie.

    «Allora, hai trovato qualcosa con quello spettrogramma?»

    «Parte da frequenze bassissime, sotto la soglia dell’udibile, e raggiunge un’acme sonora ben oltre i 25 kHz. Ho l’impressione che il segnale prosegua ininterrottamente anche durante gli intervalli in cui non lo percepiamo. Ma dovrei analizzare il file con un software più sofisticato».

    Pitzon assorbì quell’informazione, poi gli fece la domanda cui teneva maggiormente.

    «Sean, ricordami per favore quali sono le frequenze a cui lavora il nuovo sonar».

    «Da 100-150 kHz».

    Pitzon guardò Hume, in cerca di un’opinione tecnica, e il biologo alzò una spalla. «Sono frequenze sopportabili dai cetacei».

    «Voglio esserne sicuro». Si rivolse di nuovo a Phears. «Puoi mostrarmi i documenti tecnici?»

    «Sono in agenzia. Li prendiamo al ritorno».

    «Voglio vederli domattina, Sean. Fatteli inviare per email dagli acquirenti. Loro li avranno».

    L’ingegnere si morse le labbra. «Ci provo».

    «A proposito», intervenne Hume. «Tu sai chi sono questi spendaccioni? A noi non hanno detto niente».

    Si girarono tutti verso l’ingegnere, che reagì a quegli sguardi con aria allarmata. «Non hanno detto niente nemmeno a me, se è per questo. So soltanto che hanno fatto installare il sonar e hanno anticipato tre milioni di dollari all’agenzia per le mappature ad alta definizione. Il presidente non ha detto altro».

    A quel punto Pitzon si sedette. «Be’, non sarò certo io a ficcare il naso. A me bastano quei documenti e sia chiaro che non intendo riprendere il lavoro senza averli visionati. Devo essere sicuro che non ci siano rischi per i mammiferi marini».

    Un attimo dopo, si voltarono tutti verso l’altoparlante.

    Il suono era tornato.

    3

    Stavolta non si trattava di un arco sonoro che si alzava e ricadeva, com’era stato durante le batimetrie, ma di una curva di intensità crescente.

    Pitzon si alzò di scatto facendo ruzzolare la sedia.

    «Voglio vedere con i miei occhi», gridò uscendo dalla saletta.

    Gli altri tecnici lo seguirono e finirono tutti nella sala di comando, dove Pitzon azionò l’amplificatore e l’ecoscandaglio a bassa frequenza. Mentre il suono aumentava, simile a un motore che stava per raggiungere i pieni giri, sullo schermo apparve una sorta di nuvola. In breve l’immagine si trasformò, la nuvola sgranò in un insieme di puntini che si allargavano sullo schermo.

    L’ingegnere si schiarì la gola. «Mio Dio. Sono decine… forse centinaia!».

    Quando i puntini invasero tutto lo schermo, Pitzon schiacciò un pulsante azzurro e su un monitor apparve l’acqua scura intorno alla telecamera montata sotto la prua.

    Gli uomini trasalirono nel vedere dei grappoli luminosi oscillare sullo sfondo.

    Il suono raggiunse una nota isterica, invadendo la sala di comando, e nello stesso tempo i grappoli si ingrandirono e si separarono in sfere bianche che saettavano verso l’obiettivo della telecamera. Il suono si scompose in centinaia di richiami terribilmente simili a grida di gabbiani.

    Nella sala accorse Vella, attirato dal fracasso.

    E contemporaneamente iniziò la gragnuola.

    Una tempesta di colpi che si propagò sotto la carena. Da poppa a prua. Seguì una specie di boato che vibrò dall’esterno della nave come un colpo di cannone; gli uomini si piegarono d’istinto, proteggendosi la testa o aggrappandosi ai tavoli. Infine la tempesta cessò e i suoni svanirono in lontananza.

    Nei secondi che seguirono i tecnici si guardarono allibiti. Il bastimento non sembrava aver subìto danni seri, ma l’ecoscandaglio e la telecamera di prua avevano smesso di funzionare.

    Per rompere quel silenzio colmo di paura, Pitzon parlò per primo voltandosi verso Sean Phears.

    «Domani, Sean», disse con voce tremante. «Domani voglio i documenti tecnici del sonar».

    4

    Maggio 2007, Los Angeles. Centro congressi Marvin Harris

    La presentazione era terminata da cinque minuti e Madison non vedeva l’ora di tornare in albergo. Avvertiva un dolore alle tempie e le spalle rigide, come se avesse trascorso l’ultima ora a trasportare sacchi di sabbia invece che ad illustrare a una platea di appassionati le sue ipotesi scientifiche. Forse iniziava a sentire il peso di un intero mese di conferenze, in tre diversi Stati sulla costa occidentale.

    Il suo editore però si era raccomandato, doveva resistere almeno un’altra mezz’ora in quel luogo.

    Scesa dal palco, si era sistemata alla scrivania, di fianco alla stampa della copertina del libro su un cartone di un metro e mezzo, e notava la fila allungarsi. Molti avevano già la loro copia in mano, prelevata dal bancone dove i volumi di Genesi anfibia erano impilati in colonne blu, il colore della sovracopertina.

    Alcuni dovevano essere giornalisti perché avevano tirato fuori penne e taccuini. I più sfacciati esibivano la fotocamera con cui avrebbero preteso il solito scatto con la scienziata più controversa del momento.

    I primi arrivati le misero il libro sotto il naso e Madison iniziò il solito rituale: chiedere il nome e la persona cui dedicare l’autografo, sorbirsi qualche complimento per il lavoro svolto o un paio di blande considerazioni sulla solidità della teoria. Stringeva le mani e si chiedeva se tutti quei sorrisi, specialmente quelli maschili, nascondessero una sfumatura sessista, e per un istante finiva per sbirciarsi il décolleté. Solo un movimento rapidissimo delle pupille, di cui si pentiva immediatamente. Doveva ricordarsi lei per prima ciò che era: innanzitutto una ricercatrice. Una rivista l’aveva definita il volto accattivante della scienza americana, aggiungendo due righe dopo, parlando dei suoi studi, l’aggettivo frivolo. Aveva capelli neri, pettinati con la frangia, e grandi occhi verdi che le garantivano un surplus di attenzione anche dal più distratto degli accademici.

    La fila era particolarmente lunga. Doveva compiacersene, perché significava che la gente accorreva alle sue conferenze e il libro andava alla grande nelle vendite.

    Un’anziana signora carica di trucco si chinò su di lei. «Sa che il mio ultimo nipotino è nato in acqua?»

    «Davvero?»

    «Il mese scorso mia figlia ha voluto partorire il suo terzo bambino in vasca. Ha detto che è proprio vero che non respirano, fin quando non escono fuori». Alle spalle della signora si era formata una calca che spingeva per arrivare davanti alla scienziata.

    «In quel momento non respirano perché sono ancora attaccati al cordone ombelicale», spiegò gentilmente Madison. «La cosa notevole è che conservano la capacità di trattenere il respiro anche dopo. Provi a mettere il bambino sott’acqua, prossimamente».

    La donna restò un attimo perplessa, come se non fosse sicura del suggerimento, poi le piazzò il libro davanti. «Mi chiamo Brenda».

    Lei scrisse: A Brenda che ha un pesciolino in famiglia, con affetto Madison Shalins.

    Un ragazzino sui dodici anni si fece avanti con la sua copia.

    Madison gli sorrise. «Ciao, come ti chiami?»

    «Paul».

    Si accorse che la madre del ragazzino lo incitava a parlare e lei provò a stimolarlo.

    «Allora Paul, che ne pensi della teoria della genesi anfibia?»

    «È… interessante».

    Un giovanotto dietro di lui rilanciò: «Altro che interessante, è una figata!». Seguirono diverse risatine. Madison lo trovò di cattivo gusto e non allontanò lo sguardo dal piccolo lettore.

    «Paul, quale parte della teoria ti affascina di più?».

    Il ragazzino alzò le spalle. «La parte del fossile».

    «Già, non è straordinario? Un tuo antenato vissuto più di quattrocento milioni di anni fa». Sul libro scrisse: Tanto tempo per arrivare fino a noi, per essere qui, adesso. Con simpatia, Madison.

    Il giovanotto che aveva ridacchiato diede uno scapaccione all’amico. «Milioni di anni e il risultato sei tu! Meglio rifare tutto». Scoppiarono altre risate.

    Dopo il ragazzo sbruffone, fu il turno di una ragazza di colore con della chincaglieria al collo e un tubino troppo attillato per le sue forme. Mentre le firmava la copia, Madison si sorprese a immaginarla come un grosso pesce del Devoniano che nuotava boccheggiando. Poi una giovane con il taccuino le chiese di chiarire la questione dei peli e Madison, nonostante la stanchezza, non lesinò le spiegazioni. «Gli esseri umani non possiedono una pelliccia, ma soltanto peli sottili e poco folti. Gli evoluzionisti sostengono che abbiamo perso la pelliccia a causa del clima caldo e secco della savana, che sarebbe stata il nostro habitat primordiale». Firmò il libro per un signore distinto che si era presentato come Harry. «Ma questa teoria sembra in contrasto con la circostanza che molti animali presenti nello stesso habitat sono ancora ricoperti da una pelliccia, che serve proprio a difenderli dal caldo perché funge da isolante e termoregolatore». Le fu messa davanti l’ennesima copia, già aperta sul frontespizio e pronta per essere autografata. «In realtà, l’assenza di pelo deriva dal periodo in cui gli antenati della specie umana nuotavano negli oceani». Iniziò ad abbozzare una dedica. «Proprio come per altri mammiferi, come l’ippopotamo o l’elefante, che hanno antenati acquatici e che, come noi, non hanno peli».

    Alzò gli occhi per chiedere il nome e vide l’uomo davanti al banco. Avvertì un rimescolio nello stomaco: lo sconosciuto la fissava con occhi minuscoli e chiari come cristalli di ghiaccio su un vetro, ed era alto non meno di due metri. Indossava una camicia bianca dal collo alla coreana sotto un lungo soprabito scuro. Non diceva niente, si era limitato a poggiarle davanti il libro e attendeva.

    Madison si sforzò di recuperare il sorriso d’ordinanza. Aveva la sensazione che il chiacchiericcio alle spalle di quel tipo si fosse arrestato di colpo e che tutti attendessero in silenzio che lei lo liquidasse.

    «Si chiama…?»

    «Donald Vassily», scandì l’uomo con voce profonda.

    Madison scrisse velocemente, gli restituì il libro e attese che si defilasse. Ma l’uomo non si muoveva. Lo osservò trattenendo il sorriso e attese che qualcuno alle sue spalle lo invitasse a togliersi dai piedi.

    L’uomo restò fermo. Nessuno interveniva.

    «Le è piaciuta la presentazione, Donald?».

    L’uomo annuì. I suoi occhi si strinsero, restando fissi sulla scienziata.

    «Sì, mi è piaciuta, dottoressa Shalins».

    A Madison sembrò che sulla bocca gli fosse spuntata una piega sardonica. Ma non ebbe il tempo di realizzare se fosse solo una sensazione, perché l’uomo tornò a parlare.

    «So che sta riflettendo anche su un’altra ipotesi, dottoressa. E cioè se l’evoluzione della specie umana da questo progenitore acquatico abbia avuto uno sviluppo parallelo anche nell’ambiente marino, con esiti altrettanto interessanti, diciamo così, dell’Homo sapiens. È così?».

    Fra la gente in attesa dell’autografo era calato un silenzio ancora più fitto. Madison percepì decine di occhi puntati su di lei. In qualche occasione aveva accennato a questi studi. Rappresentavano il filone più recente e più eccitante della sua ricerca. Aveva già fatto scoperte importanti ed era sicura che presto avrebbe rivelato qualcosa di straordinario al mondo scientifico.

    Ma in quel momento sentì di dover proteggere il suo lavoro. Si schiarì la voce.

    «Be’, signor Donald, diciamo che sto facendo approfondimenti su questa ipotesi. Mi occorre ancora del tempo prima di esporre i risultati». Sorrise. «Ma vedrà che ci saranno presto novità interessanti».

    L’uomo restò a guardarla. Madison notò di nuovo quella piega sul suo volto. Poi fece un impercettibile inchino e si allontanò. Subito ricominciò il brusio degli altri in fila.

    Mentre firmava la copia di uno studente della facoltà di Biologia, Madison sbirciò quel tipo che abbandonava la sala, insieme ad altri due che lo seguivano.

    5

    Madison, che era originaria di un sobborgo di Salt Lake City e si trovava a Los Angeles per la prima volta nella sua vita, si era concessa una lussuosa cena in un bistrot in Sunset Boulevard, in compagnia del suo editor e di una giovane stagista.

    Quest’ultima aveva preso nota dei libri venduti al centro congressi. Si era messa in testa di fare dei grafici con i risultati delle varie presentazioni e poi, chissà per quale masochistica ragione, trarne dei dati sul gradimento dei temi scientifici nelle città toccate dal tour promozionale. Madison aveva finto di ascoltare, in realtà voleva solo godersi il burrito ripieno di riso, carne, formaggio e salse che si era fatta servire insieme a un Cabernet della Napa Valley. A fine cena si sentiva leggermente ubriaca, per questo espresse il desiderio di starsene per conto proprio. Madison Shalins, la scienziata della teoria della genesi acquatica, non aveva bisogno di nessuno.

    Salutò editor e stagista, entrambi giovani, entrambi single, e ridacchiando alzò una mano mentre li vide allontanarsi insieme. All’uscita del ristorante un taxi sembrava già attenderla. Ricevette una spinta involontaria, ma non ci fece caso e si infilò nella vettura. Diede l’indirizzo dell’hotel, non lontano dal County Museum of Art, e distese le gambe chiedendo all’autista di non correre troppo.

    L’uomo partì.

    Gli occhi di Madison fecero il surf sulle onde di luci che scorrevano sul finestrino. Sorrise. Il taxi attraversò un tratto di città verso est e il panorama non cessò di offrire l’immagine di una Los Angeles in tutto il suo sfacciato fulgore. Vide la gente che sciamava lungo i marciapiedi, che faceva l’andirivieni fra i locali alla moda.

    Per fortuna l’autista era di quelli che non facevano conversazione. Quando il taxi imboccò una strada laterale di Hollywood Boulevard, Madison guardò distrattamente l’orologio e si rese conto che erano trascorsi quaranta minuti dall’inizio della corsa. La parte più attiva del cervello le inviò una breve sequenza di pensieri: l’editor aveva scelto il bistrot perché lo conosceva, un posto fantastico per gustare piatti della cucina californiana, e perché era a meno di cinque chilometri dall’hotel di Madison.

    Cinque chilometri. Quaranta minuti.

    La scritta Hollywood apparsa fuggevolmente sul fianco della collina.

    I pensieri generarono una vaga apprensione e lei gettò uno sguardo al lunotto: la strada stava salendo e, sullo sfondo, le luci della città si aprivano a ventaglio.

    Si sporse in avanti.

    «Scusi…».

    Nello specchio al centro del parabrezza, vide gli occhi del tassista che la

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