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Non dirmi bugie
Non dirmi bugie
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Non dirmi bugie

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About this ebook

Mai credere alle apparenze

Un grande thriller

«Una storia inquietante.»
Alexandra Burt, autrice di Giovane ragazza scomparsa

Clara sta spazzolando i capelli a una delle figlie, quando alcuni uomini armati fanno irruzione in casa e arrestano Glen, suo marito. L’ultima cosa che lui le urla, prima di essere portato via, è di non dire niente, e lei ubbidisce. Del resto, la rigida educazione che ha ricevuto da ragazzina, e che l’ha resa poi una giovane donna dalle maniere perfette, l’ha abituata a fare ciò che va fatto. Sempre. Ma la situazione precipita rapidamente e lei si ritrova rinchiusa, interrogata da uomini e donne che la chiamano con un altro nome, Diana, e che accusano il marito di aver commesso crimini atroci. Clara ripercorre così il suo passato, cercando la chiave per comprendere ciò che le sta succedendo. E a poco a poco il passato inizia a stridere con il presente e Clara è costretta a mettere in dubbio la realtà che ha sempre dato per scontata: dovrà ricorrere a tutte le sue forze per aprire gli occhi sul presente e affrontare il futuro, se per lei un futuro c’è ancora…

Il passato di Clara non è come gliel'hanno raccontato

«Avvincente... Un commovente esordio per la Olsen, in cui la crudeltà è controbilanciata dalla compassione e dall’amore.»
Booklist

«Non dirmi bugie si muove al ritmo del mistero, ma il romanzo diventa ancora più intrigante quando Clara riesce a decodificare il suo passato e capire chi è stata e chi potrà diventare.»
Kirkus Reviews

«Non riuscivo a metterlo giù. La struttura narrativa così originale collima perfettamente con la voce magnetica della protagonista. Prevedo che questo esordio sarà per Rena Olsen la chiave di accesso all’Empireo degli autori di thriller psicologici.»
Karen Harper, autrice bestseller del «New York Times»
Rena Olsen
Vive in Iowa, è una scrittrice, terapeuta, insegnante, cantante a tempo perso e soprattutto un’incrollabile ottimista. Di giorno cerca di salvare il mondo come psicologa scolastica, mentre di notte costruisce nuovi mondi sulla carta. Non dirmi bugie è il suo primo romanzo.
LanguageItaliano
Release dateJan 13, 2017
ISBN9788822704757
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    Book preview

    Non dirmi bugie - Rena Olsen

    EN1464-non-dirmi-bugie-rena-olsen.jpg

    1464

    Titolo originale: The Girl Before

    Copyright © 2016 by Renata Olsen

    All right reserved including the right of reproduction in whole or in part in any form.

    This edition published by arrangement with G.P. Putnam’s Sons, an imprint of Penguin Publishing Group, a division of Penguin Random House LLC

    Traduzione dall’inglese di Giorgio Collini

    Prima edizione ebook: marzo 2017

    © 2017 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-227-0475-7

    Realizzazione a cura di The Bookmakers Studio editoriale, Roma

    www.newtoncompton.com

    Rena Olsen

    Non dirmi bugie

    Newton Compton editori

    Indice

    Adesso

    Prima

    Adesso

    Prima

    Adesso

    Prima

    Adesso

    Prima

    Adesso

    Prima

    Adesso

    Prima

    Adesso

    Prima

    Adesso

    Prima

    Adesso

    Prima

    Adesso

    Prima

    Adesso

    Prima

    Adesso

    Prima

    Adesso

    Prima

    Adesso

    Prima

    Adesso

    Prima

    Adesso

    Prima

    Adesso

    Prima

    Adesso

    Prima

    Adesso

    Prima

    Adesso

    Prima

    Adesso

    Prima

    Adesso

    Prima

    Adesso

    Prima

    Adesso

    Prima

    Adesso

    Prima

    Adesso

    Prima

    Adesso

    Prima

    Adesso

    Prima

    Adesso

    Prima

    Adesso

    Prima

    Adesso

    Prima

    Adesso

    Prima

    Adesso

    Prima

    Adesso

    Prima

    Adesso

    Prima

    Adesso

    Prima

    Adesso

    Prima

    Adesso

    Prima

    Adesso

    Prima

    Adesso

    Prima

    Adesso

    Prima

    Adesso

    Prima

    Adesso

    Ringraziamenti

    A mamma e papà, che mi hanno insegnato a credere

    Adesso

    Sto spazzolando i capelli di Daisy seduta al tavolo della cucina, quando, con uno schianto, la porta di casa viene giù. Il rumore degli spari, le urla degli uomini, il pianto delle bambine giungono come un maremoto attraverso l’uscio divelto.

    Lascio cadere la spazzola e afferro la mano di Daisy. La trascino dentro l’armadio più vicino, armeggiando con la leva che apre il doppiofondo. Ci stringiamo in un piccolo spazio, e Daisy trema tra le mie braccia.

    Scoppia a piangere non appena la porta dell’armadio viene aperta. Le appoggio una mano sulla bocca per smorzare il suono. Il nostro nascondiglio è ingegnoso, ma non abbastanza. Qualcuno batte sulla parete. «Qui è vuoto!», grida, mentre sentiamo il rumore delle mani che tastano cercando un modo per entrare. Ci vogliono solo pochi minuti prima che il chiavistello venga scoperto, e così noi. Daisy strilla, nascondendo la testa contro il mio petto. Con un braccio mi copro gli occhi per la luce improvvisa, l’altro lo muovo a casaccio sbattendo contro un corpo duro.

    «Ehilà!», sento dire da una voce rassicurante. Sbircio verso la fonte sonora e vedo un uomo dallo sguardo gentile. So che è un trucco. Come può essere gentile dal momento che ha fatto irruzione nella nostra casa? Di nuovo tento di difendermi e lui mi afferra per un braccio. «C’è bisogno di una mano qui!», dice, guardando dietro di sé. La presa è salda, non riesco a liberarmi. Avvolgo il braccio rimasto libero intorno a Daisy, che continua a piangere, e fisso lui con occhi pieni di rabbia.

    È vestito di nero dalla testa ai piedi, e ha una grossa pistola dietro la schiena. Una donna compare alle sue spalle, i capelli tirati indietro in uno stretto chignon. Non sembra gentile come l’uomo, ma parla con voce calma, tenendo le mani avanti a sé.

    «Non vogliamo farti del male, tesoro», sussurra, io giro lo sguardo da un’altra parte. Non sono il tesoro di nessuno. «Venite fuori, così possiamo parlare».

    Vorrei oppormi, ma non ho molte possibilità. L’uomo dallo sguardo gentile mi tira su per un braccio. Io, seppur riluttante, mi alzo in piedi facendo alzare anche Daisy che si aggrappa alla mia gonna, cercando di scomparire tra le pieghe. Daisy è con noi solo da pochi mesi, ma abbiamo già legato. Daisy non è il suo vero nome. Non so quale sia. Quando Glen l’ha portata da me, aveva in mano un mazzetto di margherite. Mi è sembrato adatto come nome. È come se fosse una delle mie figlie.

    Emergiamo nella cucina e mi ritrovo seduta allo stesso tavolo dov’ero prima. Faccio sedere Daisy davanti a me, raccolgo la spazzola e riprendo a pettinarla. Lei si succhia il pollice ma non la rimprovero, anche se eravamo riusciti a interrompere quest’abitudine due mesi fa.

    «Qual è il tuo nome?», domanda la donna, sedendosi di fronte a me.

    Spazzolo, spazzolo, spazzolo. Lunghi colpi sui biondi e setosi capelli di Daisy. Le arrivano quasi alla metà della schiena, ormai. Qualche volta usciamo e intrecciamo delle coroncine raccogliendo le bocche di leone così che possa sentirsi una principessa. Le tiene indosso finché non appassiscono completamente.

    La donna mi sta ancora fissando. «Il mio nome è Meredith», afferma, «e lui è Connor». Fa un cenno per indicare l’uomo. «Potresti dirci come ti chiami?».

    Posso? Certamente. Mi mordo il labbro, sperando di capire cosa fare. Come un segno divino, sento della confusione giungere dalla porta posteriore. Irrompe Glen. Ha le mani legate dietro la schiena ed è circondato da uomini vestiti di nero. Mi vede, i suoi occhi si spalancano.

    «Non dire niente, piccola, okay? Non raccontare niente», continua a gridare mentre gli uomini lo spingono verso la parte anteriore dello chalet. «Ti amo, piccola! Non dimenticarlo!».

    Arrossisco per la dichiarazione ricevuta davanti a questi estranei. L’uomo e la donna che mi stanno interrogando mi guardano perplessi.

    «È tuo marito?», chiede l’uomo.

    Spazzolo, spazzolo, spazzolo.

    «Da quanto tempo sei qui?», vuole sapere la donna.

    Capelli sottili mi scorrono tra le dita.

    Gli occhi dell’uomo si assottigliano. Sembra sia molto concentrato nel cercare di mettere insieme i pezzi di un puzzle. Vedo il momento in cui giunge alla soluzione.

    «Ti chiami Diana?».

    Uno strattone. La spazzola si blocca in una matassa di capelli, poi cade a terra. Daisy strilla.

    «Chi è Diana?». Le mie prime parole. Le mie uniche parole.

    Prima

    «Clara! Quella maledetta bambina sta piangendo di nuovo!».

    Vengo svegliata dalle imprecazioni di Glen. La nostra ultima arrivata, che ho battezzato Jewel, piagnucola sommessamente sul pavimento. Da un po’ di tempo ha degli incubi, così, per averla più vicina, l’ho portata nella nostra camera da letto. Glen all’inizio ha brontolato, poi il petto ha ripreso ad alzarsi e abbassarsi al ritmo del pesante respiro di un sonno profondo. Qualche volta tende a esagerare.

    Scivolo fuori dal letto e mi stendo accanto alla bambina che si sta agitando. Non ha ancora quattro anni, ha boccoli scuri e occhi di un verde brillante. È taciturna, ma con un improvviso sorriso può illuminare un’intera città.

    Appena la raggiungo Jewel si rilassa, rannicchiandosi accanto a me. Le tocco i morbidi ricci, sussurrandole parole dolci per darle conforto. Dovrebbe dormire per tutta la notte, adesso. Non ha mai più di un incubo. Lo dico a Glen, che si è alzato ed è in piedi accanto a noi. Annuisce, poi la prende tra le braccia. Sa essere così dolce quando sceglie di esserlo. Si muove per riportare Jewel nella sua camera.

    Sono già a letto quando Glen ritorna. Si fa strada sotto le coperte e mi raggiunge. La sua barba mi graffia la pelle e il suo respiro torna presto a essere pesante. Eppure è confortevole, è familiare. È Glen.

    Adesso

    Sono trascorsi tre giorni da quando sono stata catturata. Mi sdraio su un letto stretto e cerco di non dimenarmi in questo camice ruvido che mi hanno dato da mettere. Vorrei chiedere che cosa ne abbiano fatto di tutte le mie bellissime cose, ma questo implicherebbe dover parlare. Io non devo dire niente. Glen mi ha detto di non dire niente. Ci sono già cascata quando l’uomo mi ha chiamata Diana, dimenticando per un attimo che non avrei dovuto parlare. L’uomo allora si è messo a darmi spiegazioni, ma non l’ho più ascoltato. Non volevo sentire. Tutto ciò che volevo era vedere di nuovo Glen, che invece non c’era più.

    Ci hanno condotto sul vialetto davanti, facendoci accomodare sul sedile posteriore di una tra le tante auto che occupavano il perimetro. Le bambine hanno tentato di corrermi incontro, ma sono state bloccate. Mi hanno fatto tenere Daisy, però hanno voluto la mia spazzola. «È una prova», hanno detto. Non so cosa possa provare una spazzola, ma gliel’ho consegnata lo stesso.

    Ci siamo fermati davanti a un edificio in mattoni e hanno prelevato Daisy. Lei ha iniziato a piangere cercando di restare con me, così le ho sussurrato in un orecchio: «Devi essere forte, devi essere coraggiosa». Non penso che a Glen sarebbe dispiaciuto. In ogni caso non ha avuto importanza, perché nessuno degli uomini e delle donne in uniforme mi ha sentita. Io sono stata condotta in un altro edificio, spogliata, lavata, e lasciata in questa stanza. Tre volte al giorno mi portano del cibo, che non mangio. Puzza di antisettico, e il lamento delle ambulanze mi tiene sveglia la notte. Una volta al giorno mi fanno stare in una stanza con un tavolo e tre sedie, poi, sedendosi davanti a me, cercano di farmi parlare.

    Non voglio parlare.

    C’è un bagno all’angolo della stanza, ma lo uso solo quando sono certa che sia notte. So che è notte solo perché le luci cambiano da deboli ad ancora più deboli. Non ci sono finestre. Dicono che non è un carcere. È un ospedale. Mi stanno tenendo qui solo «per il momento». Vogliono aiutarmi.

    Marcirò in questa stanza prima di dire loro qualcosa.

    Prima

    «Non sbirciare!». Glen si comporta come un bimbo eccitato. Ha guidato per ore allontanandosi dalla città, lasciandomi bendata per tutto il tempo. Ha una sorpresa per me, non vuole rovinarla. Riesco a sentire il profumo dell’aria pulita, perciò so che dovremmo essere molto lontani dall’inquinamento cittadino. Glen mi aiuta a scendere dal sedile anteriore del suo furgone, i piedi fanno scricchiolare la ghiaia non appena ci si poggiano. «Ancora un secondo», dice Glen, dal tono sembra davvero emozionato.

    Si posiziona dietro di me, quindi scioglie la benda dagli occhi. «Ta-da!».

    Sono in piedi di fronte alla più grande casa di legno che abbia mai visto. Siamo circondati da una foresta di sempreverdi. Sento l’acqua scorrere in lontananza.

    «Glen», dico con un filo di voce, «è bellissimo!».

    Il suo volto si apre in un profondo sorriso. «Vieni a vedere il resto!». Mi spinge avanti, verso il largo portico che gira intorno a entrambi i lati della casa. Una doppia porta ci introduce all’interno di un gigantesco ingresso. Ci sono scale separate che portano ai lati opposti dell’edificio, ma ciò che cattura i miei occhi è la parete a vetrata all’estremità opposta della casa: va dal pavimento al soffitto. Le Montagne Rocciose appaiono nella loro magnificenza, come in una cartolina, e io sono innamorata.

    «Cos’è tutto questo?», domando con voce esitante. Qualche volta Glen si diverte a prendermi in giro. Incrocio le dita dietro la schiena, scongiurando che non sia uno dei suoi stupidi scherzi.

    «Per noi, piccola», dice Glen, avvicinandosi e abbracciandomi. Mi bacia sul naso. «Per noi e i bambini».

    Mi guardo intorno.

    «Per tutti noi?».

    Glen sorride e mi conduce alla finestra. Sul prato scosceso vedo un gruppo di case più piccole. «I ragazzi vivranno lì. E le bambine staranno qui. La casa è già predisposta per delle camere di sicurezza. Non ci sarà bisogno di troppi lavori». Non mi sorprende che Glen ci abbia pensato. Da qualche mese è ossessionato dall’idea di tenerci al sicuro. Non ho ben capito da chi, ma vuole che ci esercitiamo su come comportarci in caso di pericolo, ogni volta che una ragazza entra a far parte della nostra famiglia. «Da quella parte», continua Glen, indicando oltre la linea segnata dagli alberi, «c’è altra terra che potremo usare per ingrandirci».

    Ha senso. Per come stanno adesso le cose, il nostro appartamento è prossimo a scoppiare. Una piccola scintilla di speranza si accende nel petto. Qui, con così tanto spazio a disposizione, ci saranno abbastanza stanze per le nostre figlie. Forse qui, con quest’aria pulita, rifugiati tra gli alberi, le cose potranno andare diversamente.

    Glen mi guarda, i suoi occhi brillano nell’attesa di una risposta. Non lo vedo così entusiasta da prima che morisse Papi G, lo scorso anno. La pressione creata dal carico di tutte le responsabilità legate al padre ha pesato su di lui e, con questa casa, adesso quel peso sembra scomparire.

    «La adoro», esclamo, girando su me stessa per cercare di catturare ogni particolare. Glen mi afferra i fianchi e mi solleva.

    «Davvero? Ti piace veramente?»

    «Credo sia la casa più bella che io abbia mai visto», rispondo, piangendo di felicità mentre mi posa a terra, continuando a tenermi stretta tra le braccia. «Ma possiamo permettercela?».

    Qualcosa muta negli occhi di Glen. Riconosco quello sguardo. Ho superato la linea. Le sue braccia s’irrigidiscono e io mi libero. Lui chiude gli occhi, fa un respiro profondo, e quando li riapre sono di nuovo limpidi.

    «Non ti devi preoccupare di questo. D’accordo, piccola?».

    Scuoto la testa, tenendo la bocca chiusa. Mi sono fatta prendere dal momento, dal pensiero che volesse una mia opinione sulla casa. L’unica cosa che devo sapere è ciò che Glen mi dice.

    Adesso

    La sedia di metallo è dura sotto di me. Quando mi hanno fatto lasciare la stanza, avrei preferito mi avessero fornito anche dei pantaloni da indossare con il camice. O un cappotto. Si gela. Le pantofole di carta che mi hanno dato fanno così poco per riscaldarmi le dita dei piedi. Bevo a piccoli sorsi l’acqua tiepida che ho davanti. L’acqua è l’unica concessione che mi sono fatta. Non ho mai mangiato in quattro giorni.

    Meredith siede di fronte a me, il suo viso è una maschera di calma imperturbabile. Connor cammina dietro di lei, senza giacca, con la cravatta allentata. Sembrano diversi da com’erano quando sono arrivati allo chalet. Più convenzionali, ma meno tesi.

    «Diana, è molto importante che collabori con noi».

    Continuano a chiamarmi Diana. Ma io non sono Diana. Sono confusi. Tutta questa situazione è un ridicolo sbaglio. Pensano che io sia Diana e credono che Glen sia un criminale. Di solito smetto di ascoltare quando parlano delle sue imputazioni. Non ho intenzione di ascoltare bugie.

    So che la tavola ha cinquecentonovantadue graffi. Cinquecentonovantasette ora, dato che ne ho fatti alcuni nuovi. Quando Connor cammina, compie otto passi in una direzione, gira su se stesso, poi compie otto passi nella direzione opposta. L’orologio ticchetta perfettamente fino a sette minuti prima dello scoccare dell’ora, quindi scatta e muove la lancetta all’indietro. A due minuti dallo scoccare dell’ora, ronza e torna al suo ritmo normale. Meredith si irrigidisce sempre quando scatta, e io mi godo silenziosamente il suo disagio.

    «Glen ci ha parlato di te, Diana». Questa affermazione cattura la mia attenzione mentre sto cercando di trovare il miglior modo per contare i pannelli del controsoffitto. «Ti chiama Clara. Vuoi sapere cosa ci ha detto di te?».

    Lo voglio. Disperatamente. Ma mi limito a fissare Meredith. Non dire niente. Le parole di Glen rimbombano nella mia testa. Perché a lui è concesso parlare e a me no? Certo, a Glen è permesso fare molte cose rispetto a me. Mi agito, immaginando quale potrebbe essere la sua reazione ai miei pensieri. Pochi giorni di distanza, e mi sto cacciando di nuovo nei guai. Razionalizzo come Glen non possa ascoltare i miei pensieri, nonostante talvolta sembra ci riesca. Mi conosce meglio di chiunque altro.

    «Ci ha detto che sei innocente, Diana». Meredith fa una pausa. «Preferisci che ti chiami Clara, per adesso?». Lo domanda come se tutto ciò stesse accadendo a lei, ma sono abituata a questo tipo di trucco. Glen l’ha usato spesso. Finge di essere cordiale, aspettandosi che io mi lasci andare se mostra gentilezza. Cerca di farmi abbassare la guardia. Concentro gli occhi su di lei. Sono su di lei. Non mi farà parlare.

    «Clara». Connor ci raggiunge al tavolo. Si siede accanto a Meredith. «Glen non vuole che tu sia nei guai. Vuole che ti lasciamo andare. Ma prima di poterlo fare, devi parlare con noi. Lo puoi fare, Clara?».

    Glen vuole veramente che io parli con loro? O stanno solo cercando di farmelo credere? Glen non cambia idea. Mai. Ha detto di non parlare. Dovrò sentirlo dire da lui prima di farlo. Mi appoggio allo schienale e comincio a contare i pannelli del controsoffitto. Connor sospira e fa segno alla guardia di riportarmi in stanza.

    Prima

    L’appartamento è nel caos e un cliente è in arrivo. Joel la scorsa notte ha portato una nuova ragazza che ha fatto a pezzi il soggiorno. Glen non vuole che io le stia accanto, per adesso. Ho il compito di mantenere calme le altre. Jill ci lascerà oggi, se il cliente sarà soddisfatto dei suoi progressi. Cerco di distrarre le ragazze dalla confusione nell’altra stanza facendo in modo che aiutino Jill nei preparativi.

    «Guardate che bel vestito», dico, accarezzando la gonna di Jill. Lei, non appena ho finito con gli ultimi ritocchi, si alza in piedi, tranquilla e silenziosa. Jill ha solo quattordici anni, ma potrebbe sembrare una ragazza più grande della sua età. È stata con noi tre anni. Una delle nostre ragazze a lungo termine, arrivata tramite Papi G quando questi ha ceduto a Glen parte della sua impresa. Sarà il primo grande affare libero dalle abituali pressioni di Papi G, e Glen vuole a ogni costo colpire il padre.

    I capelli castani e lisci di Jill le ricadono dappertutto sulla schiena. Le abbiamo messo un gran fiocco in testa, come richiesto dal cliente. Le sue poche cose le abbiamo raccolte in una borsa, appoggiata vicino alla porta. Il letto è già stato disfatto ed è in preparazione per la nuova abitante, quella che attualmente sta distruggendo metà dell’appartamento.

    Quando suona il campanello, tutto tace all’improvviso. Faccio segno alle altre ragazze di prendere posto nei loro letti, e loro, obbedienti, eseguono. Resto con Jill ad aspettare che Glen ci chiami, la mia mano poggiata sulla sua spalla. Percepisco un leggero tremore e le do una strizzata.

    «Jill, tesoro, sei perfetta. Sarai felice con il signor Jamison».

    «Clara! Porta Jill!», ordina Glen. Sta usando il suo tono professionale. Lo utilizza solo quando è con i clienti, ed è molto più cortese di quello che usa abitualmente. Sono contenta di incontrare i clienti insieme a Glen, solo per ammirare questo suo aspetto.

    Conduco Jill nel soggiorno, che appare miracolosamente in ordine. Mi aspettavo di trovarlo come fosse stato attraversato da un tornado. Per un attimo mi chiedo cosa ne abbiano fatto della nuova ragazza, ma la mia attenzione si focalizza subito sullo scambio tra Jill e il signor Jamison.

    Il signor Jamison cammina intorno a Jill, facendole domande a cui lei risponde in maniera appropriata. Mi riempio di orgoglio notando il sollievo sul volto di Glen. Il signor Jamison gli si avvicina porgendogli una grossa busta, quindi attende mentre Glen ne verifica il contenuto. Lancio a Jill un’ulteriore occhiata di controllo e le sistemo i capelli. Mi sento sempre un po’ triste quando dico addio a una delle mie figlie. Ma sono certa che si comporterà bene. Non si è nemmeno mossa per abbracciarmi, anche se le lacrime le fanno brillare gli occhi. È una signorina ora, proprio come le ho insegnato.

    Il signor Jamison accompagna fuori Jill, e Glen, dopo aver serrato la porta dietro di loro, lancia un grido di gioia cominciando a girarmi intorno. «Ce l’abbiamo fatta, Clara! Mio padre non potrà che rimanerne impressionato».

    Gli sorrido. «Sarà così». Jill è stata la prima ragazza che Glen e io abbiamo gestito completamente da soli, dopo esserci fatti carico della sua formazione. Non poteva andare meglio, e Papi dovrà rendersene conto.

    Uno schianto risuona dall’altra stanza. Glen impreca. «Puoi fare qualcosa con quella tigre? Ora che Jill se ne è andata, suppongo tu la possa affrontare».

    Annuisco e mi precipito nell’altra stanza. C’è una sala di osservazione all’esterno della piccola camera da letto dove le nuove ragazze vengono sistemate quando arrivano. Abbiamo bisogno di tempo per osservarle e individuare i loro margini di miglioramento. Gli uomini sono riusciti a far entrare la ragazza nella stanza, ma non riescono a chiudere la porta perché lei si è infilata nello spazio tra l’uscio e il chiavistello. L’incantevole camera da letto che ho personalmente arredato è devastata. Una bambola decapitata giace sul letto. La ragazza mi guarda con occhi indemoniati e strilla, mentre mi reco nella stanza di osservazione. I suoi capelli biondo scuro sono una matassa di nodi; mi ci vorranno delle ore per scioglierli. Scuoto la testa.

    Il mio ingresso è sufficiente a distrarre la ragazza, così gli uomini possono spingerla completamente dentro e chiudere la porta. Lei continua a distruggere la stanza, ma in silenzio ora. La camera è insonorizzata.

    «Mi spiace per la camera, Clara», dice Joel, scuotendo la testa. «Quella ragazzina è un tipetto da combattimento, senza dubbio».

    Un solo cenno con la testa è sufficiente per mandarli via. Joel e il suo compagno se ne vanno sollevati. I miei occhi sono incollati alla bambina dall’altro lato del vetro. Sembra avere almeno dodici o tredici anni, è un po’ più grande delle ragazze che prendiamo di solito. Lei non può vedermi, ma ha deciso di provare a rompere quello che le appare come uno specchio gigante, usando se stessa come ariete.

    Una combattente, davvero. Penso che la chiamerò Passion.

    Adesso

    Tentano qualcosa di nuovo oggi. Mi hanno portato all’esterno, in una specie di cortile. Un tavolo da picnic, all’ombra di un grande albero, è posizionato al centro dell’area ed è circondato da ciuffi d’erba secca. È stata una primavera asciutta. Trascino i piedi mentre cammino verso il tavolo. Tutta la mia energia è sparita. Non riesco a ricordare il mio ultimo pasto. Connor e Meredith siedono da un lato del tavolo con dei piatti di pollo davanti. Un altro piatto sembra attendermi sul tavolo. Tracollo nel vederlo. È una battaglia, ma spingo il piatto lontano e mi volto a fissare l’albero. È un albero triste. Solo. Sembra morto, eppure delle piccole gemme sono testimoni di una vita dormiente.

    «Ti stai buttando via Dia… Clara», dice Connor. Ha un tono preoccupato. Il migliore dei suoi trucchi. Sono spaventata perché i suoi giochetti stanno iniziando a funzionare, perché il suo tono cortese fa sì che le lacrime mi brucino gli occhi. Non piangerò, però. Non mostrerò alcuna debolezza. Non parlerò. Non mangerò. Non piangerò.

    «Hanno individuato i genitori di tutte le ragazze presenti a casa vostra», fa Meredith. «A breve i ricongiungimenti saranno sui notiziari».

    I genitori? Queste sono le mie bambine. Glen e io siamo i loro genitori. Mi giro per gridarglielo ma mi fermo appena in tempo. C’è una scintilla negli occhi di Meredith che rivela come abbia capito di avermi quasi colpita. Devo essere più forte. Meredith e Connor ingoiano il pollo a grandi morsi, parlando di qualche evento sportivo della sera prima. Fingono che io non esista. Forse non esisto. Non più.

    Meredith fa una pausa, poi mi guarda. «Oh sì!», dice, come se si fosse appena ricordata qualcosa. È un atteggiamento che ha spesso. Fa scivolare un pezzo di carta sulla superficie ruvida del tavolo, quindi torna alla conversazione e al suo pollo.

    La mia intenzione sarebbe di ignorare il biglietto, ma sono debole. Lo avvicino. Spalanco gli occhi. Una parola mi fissa dal foglio.

    mangia

    È la scrittura di Glen.

    Mangio.

    Prima

    La casa dei genitori di Glen è ampia, situata all’interno di un comprensorio in una zona ricca della città. Anche se sono stata qui molte volte, le mani mi tremano nervosamente quando arriviamo sul vialetto circolare. Glen è teso ma eccitato, salta fuori dal furgone e mi fa cenno di seguirlo. Una cameriera ci accoglie e ci accompagna in un confortevole salotto. Mi tormento le mani, non sapendo cosa farne.

    Mami Mae è in piedi quando entriamo nella stanza. Abbraccia Glen in modo compassato, a me dà un bacio su entrambe le guance. Papi G rimane seduto, la macchina per respirare lo lega alla poltrona. Glen si avvicina per stringergli la mano, prendendo la sedia accanto a lui.

    «Vieni, bambina». Mami Mae mi prende per il braccio e mi conduce fuori dalla stanza. «Facciamo una chiacchierata».

    Ci accomodiamo in un salottino in fondo al corridoio, e racconto a Mami i progressi delle bambine quando un forte schianto giunge dall’altra stanza. Glen irrompe nel salottino e mi afferra la mano.

    «Ce ne andiamo». La sua stretta fa male, ma non oso lamentarmi. Come passiamo davanti al salotto, vedo un tavolo capovolto. Papi G siede tranquillamente sulla sua poltrona senza alzare lo sguardo al nostro passaggio. Glen mi trascina fuori dalla porta d’ingresso, lasciandola aperta dietro di noi. La rabbia lo investe a ondate e mi spinge verso la portiera del passeggero. Salgo velocemente e metto la cintura di sicurezza. Non voglio essere coinvolta nei dissapori tra Glen e Papi, so che è meglio non chiedere cosa sia successo. Immagino che Papi non sia rimasto molto entusiasta, come Glen sperava, della scelta di aumentare il volume di affari.

    Glen guida come se il diavolo in persona ci stesse inseguendo. Mi devo aggrappare alla maniglia della portiera per evitare di scivolare lungo il sedile. Arrivati in un parco nazionale, parcheggia il furgone all’ombra di giganteschi sempreverdi. Ha il respiro affannoso, trattiene il volante come se lo stesse strangolando.

    «Glen…», esordisco, titubante su come aiutarlo.

    Glen si getta su di me, schiacciando la sua bocca contro la mia. Mi aggrappo a lui cercando di assorbire i demoni che sta combattendo, anche solo per un breve istante. Gli strati di vestiti tra noi scompaiono. Mentre torreggia sopra di me, le mani mi afferrano il collo. Occhi esaltati fissano i miei e le dita stringono. Non riesco a respirare. Non posso parlare per dirgli che non riesco a respirare. Inizia a muoversi più velocemente, a stringere sempre di più mentre la mia vista prende ad annebbiarsi, macchie nere danzano sopra il suo viso.

    Nel momento in cui sono sicura che sto per morire, le sue dita si allentano. Cade su di me, il suo viso sepolto nella mia spalla. Sento l’umido delle sue lacrime sulla camicetta mentre trema calmandosi. Dopo pochi istanti, sposta le labbra sul mio collo, baciando la pelle morbida con dolcezza.

    Il giorno successivo, Glen si presenta con una sciarpa di seta e una rosa rossa.

    I lividi sul collo sono rimasti per una settimana.

    Adesso

    Sono tornata nella solita stanza per l’interrogatorio, ma mi sento più forte. Il messaggio di Glen ha cambiato le cose. Vuole che io combatta. Non posso combattere se sono debole e per questo ora mangerò. Questa mattina mi sono alzata, ho fatto saltelli e flessioni nella mia camera. Ho provato a correre, ma lo spazio è troppo piccolo. Non mi daranno una corda per saltare. Almeno mi hanno dato dei pantaloni larghi e magliette di cotone da indossare. Mi sento quasi un essere umano.

    La porta si apre, Meredith entra. Invece di prendere normalmente posto di fronte a me, trascina la sedia intorno al tavolo per posizionarsi accanto a dove sono io. Il suono delle gambe metalliche sul pavimento mi fa rabbrividire. Vedo un accenno di sorriso attraversarle il volto. Le piace infastidirmi. Connor, non lontano, spinge all’interno della stanza un carrellino con sopra un televisore. Infila una cassetta nel videoregistratore, poi si appoggia al bordo del tavolo con il telecomando in mano.

    Lo schermo prende vita. Mi sporgo in avanti non appena riconosco Daisy. Sta correndo tra le braccia di due persone che la sollevano e la tengono stretta come se non dovessero lasciarla più andare. Tutti e tre stanno piangendo. Jenna corre verso un’altra coppia che la fissa con occhi increduli, come se non riuscisse a realizzare che è proprio vera. Simone resta leggermente in disparte. È la miniatura della donna che le sta cercando di parlare, ma lei mantiene lo sguardo fisso da un’altra parte. Malinconica Simone. Così ha ottenuto il suo nome.

    Una per una, osservo le mie figlie abbracciate e portate via da sconosciuti. Per ultima vedo Passion. La mia bambina selvaggia. Mai del tutto domata, almeno da nessuno oltre che da me. Non ci sono persone per lei. Si guarda intorno annoiata, fino a quando gli uomini in divisa le si avvicinano di nuovo. Allora prende vita, scalciando, urlando. La telecamera si sposta, ma posso sentire il suo grido continuo: «Clara! Clara!».

    Connor spegne lo schermo e si gira a guardarmi. Accanto a me, Meredith si sposta porgendomi un fazzoletto per asciugare le lacrime che, senza che me ne accorga, mi stanno bagnando gli occhi.

    Prima

    Il sole si spande sul pavimento levigato della biblioteca, mentre mi allontano velocemente dai raggi, portando una pila di libri con me. La finestra è aperta, non c’è un alito di vento oggi, e il sudore m’impregna i capelli sul collo. Vorrei tirarli su, ma Mami insiste che devo tenerli sciolti.

    Un allegro vociare fluttua attraverso la finestra aperta, mi incanto ad ascoltarlo. Oggi le altre ragazze sono state autorizzate a trascorrere del tempo all’aperto per sfuggire al caldo opprimente della casa. A me, però, Mami ha assegnato un compito speciale. Lei sostiene sia un onore perché assegna questi compiti solo alle migliori ragazze, a me invece sembra sia una punizione. Sospiro e sollevo i capelli dal collo solo per un attimo, appoggiandomi alla libreria e chiudendo gli occhi.

    «Sei così pigra», una voce proveniente dalla porta mi schernisce. Invece di sentirmi colpevole, sorrido.

    «Sparisci, Macy, io sono speciale». Apro gli occhi e sorrido alla mia amica.

    Macy girovaga per la stanza arrivando nel nido che mi sono costruita all’interno della pila di libri. «Che stai combinando? Fa troppo caldo per restare dentro».

    Alzando gli occhi al cielo, mentre si lascia cadere accanto a me sul pavimento, spingo una pila di libri nella sua direzione. «Devo scegliere una lingua nuova da studiare, poi una da insegnare».

    «Sei proprio un tesoro», dice Macy, ma non con un tono cattivo. «Come fai a imparare anche queste stupide lingue?».

    Stringo le spalle. «Non so. È facile. E ora Mami sostiene che sapendole imparare, le posso anche insegnare».

    «Sa che hai undici anni, vero?»

    «Credo pensi che io ne abbia un centinaio o giù di lì. Non vecchia quanto lei, ma quasi».

    Ci guardiamo reciprocamente per un istante, prima di scoppiare a ridere. Lancio di nascosto uno sguardo alla porta aperta della biblioteca, sicura che Mami stia per saltare fuori e punirmi per aver detto una cosa del genere, ma il corridoio rimane tranquillo.

    «Accidenti, è così caldo qui», dice Macy una volta che ci siamo di nuovo calmate. «Non puoi semplicemente prendere qualche libro e venire fuori?».

    Scuotendo la testa, afferro il tomo successivo. «Voglio scegliere quelli giusti. Mami possiede tutti questi libri ed esercizi… dal momento che dovrò usarli voglio almeno divertirmi».

    «Solo tu puoi parlare di lezioni associandole al divertimento».

    La spingo dalla spalla, rovesciando una delle pile ordinatamente sistemate.

    «Possono essere divertenti», dico riordinando.

    Macy mi scavalca, poi prende un grosso volume da un mucchio che non ho ancora guardato.

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