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La settima profezia
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La settima profezia

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Un successo nato dal passaparola
Bestseller in Italia

Codice Fenice Saga

Un grande thriller
Dall'autore del bestseller La cospirazione degli Illuminati

È quasi l’alba quando, a bordo del lussuoso transatlantico Princess of the Oceans, viene rinvenuto il cadavere di uno dei passeggeri. Si tratta dell’archeologo Leonardo Domianello, sgozzato e abbandonato nella vasca idromassaggio di una delle cabine. Lo shock, per il suo amico e compagno di viaggio Niccolò Nobile, è fortissimo. Convinto di sapere chi sia l’assassina – una donna incontrata la sera precedente nel casinò della nave – si mette sulle sue tracce. Contemporaneamente, all’aeroporto di Mosca, il jet di monsignor Dominique De Lestes, presidente di un’importante fondazione religiosa, esplode sulla pista. Prima di essere ucciso pare che De Lestes avesse visitato un’installazione segreta voluta dal governo russo negli anni Settanta: la cosiddetta Wardenclyffe Tower, nota anche come Torre di Tesla. Cosa lega i due eventi? A indagare viene chiamato l’ispettore Nigel Sforza dell’Interpol, che affianca Zeno Veneziani, un esperto pubblico ministero romano. Gli indizi conducono prima in Vaticano e poi alla SunriseX International, una multinazionale con sede a Ginevra. Eppure niente è come sembra, e le cose si complicano sempre di più. Le indagini, infatti, conducono a una fantomatica settima profezia…

Un autore bestseller tradotto in Inghilterra, Spagna e Portogallo 

Un’antica profezia
Un mistero sepolto da secoli
Chi è il custode della verità?

Hanno scritto dei suoi romanzi:

«Dove c’è mistero, complotto, scienza e teologia ben amalgamati e conditi come solo Barone sa fare, non si rimane mai delusi e, anzi, si resta sempre piacevolmente soddisfatti!» 

«Un capolavoro made in Italy, in cui tensione e intrighi si mescolano, per dare vita a un thriller mozzafiato.»
G. L. Barone
Nato a Varese nel 1974, ha una laurea in giurisprudenza, è appassionato di economia e nel tempo libero suona in un gruppo heavy metal. I suoi libri sono tradotti nei Paesi di lingua anglosassone, portoghese e spagnola. Per la Newton Compton ha pubblicato La cospirazione degli Illuminati, Il sigillo dei tredici massoni, La chiave di Dante, I manoscritti perduti degli Illuminati, il serial ebook Il tesoro perduto dei templari e uno dei racconti della raccolta Sette delitti sotto la neve.
LanguageItaliano
Release dateDec 20, 2016
ISBN9788822703262
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    La settima profezia - G. L. Barone

    Prologo

    Contea di Walworth, Wisconsin, 8 maggio 1912.

    La carrozza, trainata da due robusti mustang, affrontò l’ultimo tratto di discesa sotto un cielo plumbeo. Non pioveva ancora ma un vento gelido faceva ondeggiare le cime delle betulle che costellavano la campagna verde. In fondo al sentiero – poco più di un insieme di solchi lasciati da zoccoli e ruote – svettava la guglia malandata di una chiesetta.

    Padre Charles O’Reilly, l’unico passeggero, scostò la tendina e sbirciò oltre il vetro. Da un campo di mais percosso da violente folate si sollevò uno stormo di uccelli neri. Oltre, il lago Delevan appariva come una lastra piatta e informe, che sembrava unirsi con le nuvole all’orizzonte.

    «Facciamo in fretta», urlò all’indirizzo del cocchiere. «Non sappiamo se il luogo è sicuro. Dobbiamo essere a destinazione prima che arrivi il temporale».

    Non ottenne risposta, né un cenno. L’uomo, intabarrato in un pastrano nero, si limitò invece a grugnire nell’aria gelida. Poi strattonò le redini e spronò i cavalli, che nitrirono a loro volta.

    Mentre la carrozza aumentava l’andatura, il religioso si assestò sulla panca e sospirò. Figlio di immigrati irlandesi, aveva da poco superato i trent’anni e faceva parte dell’ordine dei Gesuiti da cinque. Per uno come lui, minuto di corporatura e poco avvezzo alla vita di campagna, quel viaggio era stato tutt’altro che agevole: partito in grande fretta da Chicago, aveva attraversato la regione dei laghi in piena notte. Non aveva potuto fermarsi né a dormire né a rifocillarsi, con le ruote del carro che sobbalzavano senza posa su stradine fangose. L’unica sosta era stata fatta nella contea di McHenry, in una baracca di tronchi non scortecciati, dove il conducente aveva sostituito i cavalli con due più freschi.

    Facendosi il segno della croce, padre O’Reilly ripensò alle parole del vescovo, l’uomo che considerava il suo mentore. «Si tratta di un incarico di vitale importanza», gli aveva confidato, con quella sua voce grave e il tono sussurrato. «Devi fare tutto ciò che ti è possibile per far calare il silenzio sulla questione. Non dimenticare che sono contadini… non sanno minimamente con cosa hanno a che fare. Questi dovrebbero fare al caso tuo». Mentre pronunciava quelle parole, il vescovo aveva allungato un borsone sulla panca della chiesa su cui erano seduti. O’Reilly aveva semplicemente lanciato un’occhiata e poi aveva annuito.

    E così, un giorno e mezzo più tardi, si trovava su quella carrozza, infreddolito ed esausto. Il complesso abitato che emergeva dalla nebbia non era altro che una manciata di casupole di legno cinte da alberi di un verde così scuro da apparire quasi nero. Il silenzio dell’alba era totale, rotto solo dal clangore delle ruote di ferro sulla strada.

    Improvvisamente, dopo che il carro si fu inerpicato per un breve tratto di salita, si aprì di fronte a loro una zolla erbosa addossata a un pietraio. Era delimitata da un recinto in legno, interrotto solo da due grossi silos, che sembravano messi a guardia della fattoria.

    «Il posto è questo», borbottò il cocchiere a padre O’Reilly. I cavalli rallentarono, incespicarono e poi agitarono la coda appena si fu fermato.

    Il gesuita si sistemò i guanti neri, che nascondevano una piccola menomazione alle mani, e scese dalla scaletta. Fece qualche passo, sprofondando nel fango, e si diresse verso il giardino antistante all’edificio principale. Lì il terreno era più duro e coperto di muschio ghiacciato, che scricchiolò sotto i suoi stivali. Si fermò accanto a un carretto senza una ruota.

    «Non abbiamo altro da dire!», tuonò dalla veranda un anziano con un grosso fucile Krag .30-40 tra le mani. Teneva le gambe larghe, anche se la postura non sembrava molto minacciosa. «Ne ho avuto abbastanza di giornalisti impiccioni. Parlate con lo sceriffo e i suoi scagnozzi».

    «Vengo da Chicago. Non sono un giornalista», dichiarò il religioso, carezzandosi l’abito talare che evidentemente l’altro non aveva notato. «Non è mia intenzione disturbarvi… Sono qui per proporvi un affare».

    L’uomo aggrottò la fronte e spalancò le labbra, rivelando una grossa fessura tra i denti. «Che tipo di affare?», si informò. Scese i due gradini di legno e andò incontro a padre O’Reilly con passo marziale.

    Il religioso lo studiò meglio: poteva avere tra i cinquanta e i sessant’anni, calvo, gli occhi verdi e il viso nascosto in parte da una folta barba rossiccia striata d’argento. Indossava calzoni frusti con bretelle e un vistoso fazzoletto rosso al collo.

    «Se fosse possibile vorrei vedere ciò che avete trovato». Il gesuita, che stringeva in grembo la borsa datagli dal vescovo, ne aprì un lembo. «Se le cose sono interessanti come ho sentito, questi sono per voi».

    Dondolandosi sulle gambe, l’anziano si lasciò scappare un sorriso e poi urlò: «

    T.J.

    , Josh. Abbiamo ospiti!».

    Pochi minuti più tardi Mr Phillips, liberatosi del fucile, stava accompagnando padre Charles O’Reilly verso la stalla. Assieme a loro c’erano due giovanotti, forse i figli dell’uomo o i suoi nipoti, dalla fronte bassa, abbigliati con camicia da lavoro e pantaloni troppo corti a causa della veloce crescita tipica dell’adolescenza.

    L’edificio dove erano diretti era un complesso fatiscente, a forma di capanna e con una banderuola che si protendeva verso il cielo. Una volta doveva essere stato dipinto di rosso, ma ora la vernice delle travi, sbiadita dal tempo, aveva più il colore della ruggine.

    «Li abbiamo trovati in una fossa là dietro, tre giorni fa», spiegò T.J.

    ,

    uno dei due ragazzi. Più alto del fratello e con gli stessi capelli color carota, sembrava istruito. «Mio zio doveva fare posto a un nuovo capanno e abbiamo scavato per piantare le fondamenta».

    «A che profondità erano… i resti?», indagò O’Reilly, mentre lo sguardo spaziava in una zona scura a ridosso del lato nord della proprietà.

    «Poco. Cinque o sei piedi al massimo. Quando abbiamo trovato il primo abbiamo scavato con cura lì attorno».

    «Quanti sono in tutto?»

    «Ne abbiamo dissotterrati diciotto, tutti maschi. Li abbiamo spostati nella stalla per proteggerli dalla pioggia».

    «Vi siete limitati a portarli al coperto? Non li avete danneggiati o manomessi?»

    «Naturalmente no», si intromise Mr Phillips, quasi volesse evitare che il ragazzo parlasse troppo. Ma, oltre a non essere un bravo bugiardo, non sembrò neppure troppo convinto. Di riflesso, Josh cercò di nascondere con le dita il pendolo che aveva al collo: una specie di artiglio di colore giallastro.

    «Si dice che questi teschi abbiano denti molto aguzzi». Il religioso distolse lo sguardo da Josh e tornò a osservare il fattore. Dopotutto, se si erano limitati a prendere qualche dente per ricordo, non era un grosso problema.

    «Le mandibole sono grandi come quelle di un cavallo!». Mentre pronunciava quelle parole, l’anziano spalancò il portone della stalla. I cardini cigolarono e ne uscì un odore intenso di fieno e bestiame. «Ma guardi lei stesso».

    L’interno era in penombra, con una luce fioca che penetrava da una mezza dozzina di finestre poste in alto. In quell’istante l’aria fu squarciata da un fulmine che rischiarò la scena.

    Il religioso si sentì mancare il fiato. Si fece il segno della croce e serrò gli occhi: davanti a lui, adagiati sul pavimento coperto di paglia, c’era una fila di scheletri color avorio. Erano allineati ordinatamente, uno accanto all’altro, come vacche dopo il macello. Le dimensioni dei resti, come aveva letto, erano notevolmente superiori a quelle di un uomo: sembravano alti quasi il doppio, le sole gambe lunghe quanto uno dei due ragazzi. Anche i teschi, di una forma anomala e allungata, erano di dimensioni eccezionali, così come le orbite, quasi sproporzionate.

    «In un primo momento abbiamo pensato fossero animali…», chiosò ancora

    T.J.

    , socchiudendo gli occhi. «Forse scimmie, o primati di qualche tipo… ma avevano le braccia incrociate, come in una sepoltura rituale. Sembrava una fossa comune».

    O’Reilly deglutì, incapace di distogliere lo sguardo. «C’erano sulla terra i giganti a quei tempi, quando i figli di Dio si univano alle figlie degli uomini», mormorò un passo della Genesi senza quasi rendersene conto. Riuscì a scuotersi soltanto grazie a un tuono, che con uno schianto assordante fece vibrare una rastrelliera in fondo al locale. Il religioso sorrise, ma con aria contrita, cercando di apparire più sicuro di quanto realmente era. «Cinquecento dollari», disse. «Per tutto. Nella carrozza ci sono dei sacchi».

    L’anziano Mr Phillips si fece scappare un sorriso sdentato. Non si sarebbe mai aspettato un’offerta simile per un mucchio di ossa. Giornalisti a parte, in paese avevano perfino cominciato a malignare sul fatto che quel ritrovamento avrebbe portato sventure. Se ne sarebbe liberato e ci avrebbe anche guadagnato. «Forza, ragazzi. Raccogliete i resti dei nostri amici e caricateli sulla carrozza del signore».

    Nel frattempo, fuori, aveva iniziato a piovere e l’aria si era fatta pesante a causa del fumo di alcuni focolai: degli agricoltori, poco lontano, dovevano aver potato le piante e ne stavano bruciando gli scarti. Nonostante ciò, l’operazione di carico durò un po’ più di un paio d’ore. I due giovani faticarono non poco per sistemare i teschi in parte sul tetto, in parte sul pianale posteriore della carrozza. Su indicazione del gesuita, avevano scarabocchiato con dei gessetti alcuni numeri su tutte le ossa, in maniera che gli scheletri potessero essere poi riassemblati. Il lavoro era andato avanti senza sosta e si erano fermati solo quando uno dei due ragazzi aveva avuto una piccola epistassi.

    A metà mattina il religioso era pronto per ripartire alla volta di Chicago. Consegnò la borsa con il denaro e fu allora che accadde un evento del tutto inspiegabile. Quasi contemporaneamente,

    T.J.

    e Josh cominciarono a tossire, vomitando sangue e muco verdastro. Mr Phillips cercò di sorreggerli ma gli toccò la stessa sorte.

    Tutto avvenne in un attimo: i tre uomini, sotto lo sguardo impotente del gesuita, si accasciarono al suolo, contorcendosi e dimenandosi. Del liquido vermiglio sgorgava copioso dal naso e dalla bocca, come se la carotide fosse stata troncata di netto.

    E a quel punto anche il cocchiere, che era già in posizione sulla sua panca pronto per il viaggio di ritorno, iniziò a tossire con insistenza. I cavalli sbuffarono. Il tizio si alzò in piedi, barcollando, gli occhi iniettati di rosso. Fece solo qualche passo e poi cadde rovinosamente nel fango, portandosi dietro le redini.

    I mustang nitrirono e uno dei due si impennò sulle zampe, posando subito dopo gli zoccoli sul selciato.

    Nel tempo di un respiro tutti i rumori cessarono. I tre contadini smisero di dimenarsi e rimasero senza vita riversi sul terreno. Poco lontano anche il conducente sembrava non respirare più, le palpebre spalancate a fissare il cielo grigio.

    Padre Charles O’Reilly girò su se stesso come un ubriaco. Era incredulo e spaventato al tempo stesso. Non sapeva cosa pensare. Si limitava a passarsi la lingua sulle labbra screpolate dal freddo e a fregarsi nervosamente le mani. Senza sapere come, la mente gli andò ancora ai giganti della Bibbia: la malvagità dei Nephilim e le angherie verso gli uomini erano cosa risaputa. Ciò che era successo aveva a che fare con quei teschi? E se era così, come era possibile? E poi… perché a lui non era accaduto nulla?

    Scosse il capo. Lo sguardo gli scivolò lontano dai corpi, sulla vallata. I focolai, probabilmente alimentati a carbone, turbinavano ancora verso il cielo nonostante la pioggia. Sembravano del tutto abbandonati, come un campo di battaglia lasciato da un esercito in ritirata.

    E così fece anche lui. Accompagnato da scrosci di pioggia e dall’ululato lontano di un coyote, salì al posto del cocchiere e tirò le redini. Aveva una missione da portare a termine. Si guardò indietro un’ultima volta e spronò i cavalli.

    «E l’Eterno disse: io sterminerò dalla faccia della terra l’uomo che ho creato», balbettò tra sé, mentre si allontanava.

    1

    Al largo delle isole Baleari, oggi.

    Ora locale 05:55.

    Il cadavere galleggiava prono nella vasca idromassaggio. Aveva braccia e gambe larghe, come in una macabra raffigurazione dell’uomo vitruviano, e ondeggiava lentamente. Una macchia di sangue si stava allargando nell’acqua, ai lati della testa.

    Incredulo sulla porta del bagno, "Doppia N

    "

    si sforzò di inquadrare meglio gli abiti: alla luce proveniente dalla cabina si riconoscevano i soliti jeans sdruciti e la camicia bianca arrotolata sugli avambracci. Anche se di schiena, non c’erano dubbi: era lui.

    «Cristo santo», gemette, portandosi le mani sul volto, come per sciacquarsi il viso paonazzo. Rimase fermo per alcuni istanti, incapace di muoversi. Poi si scosse: fece un passo indietro e spalancò la portafinestra della cabina per prendere una boccata d’aria. Sul terrazzino, una folata fresca e umida lo investì in pieno.

    Senza rifletterci fece cadere lo sguardo sullo scafo candido della Princess of the Oceans, l’immensa nave da crociera che solcava il Mediterraneo. L’alveare di balconi in vetro e acciaio, sviluppato sui quindici ponti di quella città galleggiante, era immerso nell’oscurità.

    Si appoggiò al parapetto. Sotto di lui gli schizzi d’acqua smossi dalla nave scorrevano sulla murata come torrenti spumeggianti. All’orizzonte il mare era invece nero, fatta eccezione per i riflessi della luna sulle onde increspate.

    «Ok, ok. Sta’ calmo. Ragiona». Doppia N

    si voltò verso l’interno: la luce proveniente dalla

    TV

    da cinquanta pollici danzava nella penombra, riflettendosi sugli eleganti mobili minimal. La lampada a collo di cigno, l’unica accesa, era coperta da un indumento intimo e illuminava il letto vuoto e le lenzuola arruffate. Poco distante, accovacciato sul tavolino di cristallo, c’era un uomo.

    Mentre rientrava nella cabina, per un istante gli balenò davanti agli occhi una scena della sera precedente. La melodia di The Final Countdown degli Europe risuonava tagliente nell’aria e le ragazze ballavano tra loro. Il Pezza e Muso cantavano a squarciagola in piedi sul divano di pelle, dondolando la testa e dandosi pacche sulle spalle.

    L’idea di quella rimpatriata su una nave da crociera era stata proprio del Pezza. «Ho fatto sei mesi d’astinenza», aveva confidato l’archeologo al telefono, la settimana precedente. «Perché non ci vediamo? Sono stato in Amazzonia e ho voglia di una delle nostre serate».

    E le loro serate, fin dai tempi della scuola, erano un misto inscindibile di ragazze, birra e quando andava bene cocaina. Vedendoli quella sera, seduti a un tavolo del Casinò Royal sul ponte 5, nessuno avrebbe potuto immaginare che si trattava di un noto avvocato romano, di un ambasciatore dell’

    ONU

    e di un archeologo. Ciò che invece erano.

    «Guardate chi ho trovato», aveva esordito il Pezza, con due signore di mezz’età sottobraccio. L’archeologo era il simpatico del gruppo e di solito era lui che avvicinava le ragazze. Dopo alcuni cocktail se n’era aggiunta una terza: una russa prosperosa avvolta in un tubino rosso e che aveva detto di aver da poco divorziato. Incredibilmente, aveva cominciato a parlare proprio con Muso, quello che a causa della calvizie e dei chili di troppo era sempre stato il meno avvenente dei tre.

    In seguito, la combriccola si era diretta prima al Jazz Bar e poi al Central Park, il parco florovivaistico al centro della nave. Doppia N, che era considerato il più elegante del trio, aveva tenuto banco. Quarantenne come il Pezza e Muso, l’ambasciatore portava decisamente bene la sua età: aveva uno sguardo penetrante, lineamenti aggraziati messi in risalto da un viso ben rasato, e spalle larghe fasciate da un’attillata giacca in solaro. Soprattutto, sapeva essere molto loquace, qualità che era servita in quel frangente per convincere le ragazze a seguirli nella sua suite. L’ultima tappa era stata proprio nella cabina,

    dove la serata, tra musica, droga e sesso, si era conclusa esattamente come gli amici avevano programmato.

    E adesso, uno di loro galleggiava morto nella vasca da bagno della junior suite sul ponte 11.

    «Hey, svegliati». Niccolò Nobile, soprannominato Doppia N

    proprio per le iniziali del suo nome, strattonò Muso per il colletto della camicia. La vista del corpo sembrava aver cancellato all’istante gli effetti del dopo sbornia. «Valvano, svegliati. C’è un grosso problema».

    L’avvocato, accovacciato sul tavolo di cristallo, si mise seduto, lasciandosi cadere sullo

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