Le strade del mistero di Milano
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Sono i nostri percorsi abituali, in certi casi parte della routine quotidiana, ma spesso quelle stradine tranquille e quelle piazze dove i ragazzi si danno appuntamento sono luoghi avvolti dal mistero. Tra le mura di vecchi palazzi e nelle vie affollate della città si nasconde una Milano dimenticata, segnata da fatti di sangue balzati agli onori delle cronache, dove la leggenda si fonde con la realtà. Ed è a queste storie che il libro vuole dare voce, raccontando le curiosità – da quelle più recenti a quelle appartenenti a un tempo lontano – che si celano dietro le vie della metropoli.
Il lato più nascosto, segreto e misterioso di una città tutta da scoprire
«Hanno rubato Mussolini»
Che cos’è lo sgurz?
Il femminicidio punito con 125 lire di multa
Quel film mai girato sull’omicidio Gucci
Anche i criminali hanno paura della mamma
Il fantasma di Lucrezia Borgia
Un teschio (vero) a teatro
Il Tempio della notte
I codici segreti della macchina Enigma
Quando Mata Hari si esibì alla Scala
Francesca Belotti
è una giornalista che si occupa di tute blu e white collar. Ha scritto, tra gli altri, per il «Corriere della Sera» e «Il Giornale». Con la Newton Compton ha pubblicato Le strade del mistero di Milano ed è coautrice di Milano segreta e 101 storie su Milano che nessuno ti ha mai raccontato.
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Le strade del mistero di Milano - Francesca Belotti
Introduzione
«Milano dai vorticosi pensieri / dove le mille allegrie / muoiono piangenti sul Naviglio».
Alda Merini
«Piango solo di sera, quando non ho più il trucco fresco».
Kim Kardashian
Il mistero è tutto qui: le «differenze inconciliabili» tra persone che popolano il mondo. Il titolo di questo libro è Le strade del mistero di Milano, ma dietro ogni angolo della città c’è la storia di una persona, di uomini e donne vissuti in epoche diverse, ma tutti accomunati dalle stesse paure e fragilità.
Attraverso le loro vicende ho cercato di raccontare una Milano che in parte non c’è più, ma di cui è utile tener vivo il ricordo per muoversi meglio nel presente. Nelle pagine che seguono vi saranno proposti racconti, leggende, leggende che si confondono con la realtà e, infine, la – a volte cruda – realtà. È difficile razionalizzare la tragedia di una bambina che si toglie la vita a undici anni e, allo stesso modo, non è facile comprendere gli orrori generati dalla guerra. Ma mistero non è solo sinonimo di morte: è anche trovare qualcosa di inusuale, o se preferite di particolare, qualcosa che non quadra con un’aspettativa che ci eravamo fatti.
In tutto questo, Le strade del mistero di Milano vuole essere una lunga passeggiata per la città, proponendo al lettore di guardare con occhi diversi ciò che magari vede tutti i giorni. Perché dietro la città che siamo abituati a conoscere – fatta di vie, fermate della metropolitana, locali e abitazioni – c’è n’è un’altra, forse ancora più interessante.
Nello scrivere questo libro mi sono divertita moltissimo. Nel senso che, selezionando le storie da raccontare, mi sono imbattuta, più o meno casualmente, in altre storie che non conoscevo. Come quella della spedizione polare del dirigibile Italia o quella sulle abitudini che si tramandano al Clubino. Poi ci sono i tesori più o meno nascosti di Milano, come il Tempio della notte o un giardino abitato da fenicotteri in pieno centro città. Spero solo di riuscire a trasmettere il mio entusiasmo anche a chi vorrà leggere queste pagine.
Le strade del mistero di Milano
Via Adelchi
La ligera diventa una birra
Al Birrificio Lambrate i nomi della birra hanno il sapore della vecchia mala milanese. La bionda prodotta con luppolo americano, ad esempio, si chiama Ligera, proprio come il termine dialettale con cui si indicava la microcriminalità della metropoli. Un sottobosco di borseggiatori, truffatori, strozzini e allibratori sganciato però dal mondo della malavita organizzata.
La Bricola, gerla usata per il contrabbando di merci, diventa così il nome di una birra bruna e la Volada, vale a dire una rapina lampo, campeggia sull’etichetta di una birra chiara. Considerato che il Birrificio ha sede a Lambrate, in via Adelchi 5, non poteva mancare un omaggio al quartiere con birre intitolate a vie o zone (Conterosso, Ortiga e Porpora). Ci sono poi El beccamort, il becchino, che è anche un omaggio all’omonima canzone di Nanni Svampa, e la Gaina, a indicare l’andatura degli ubriachi, simile a quella delle galline. Altri nomi prendono spunto da personaggi, luoghi e modi di dire milanesi e ognuno è accompagnato da un’etichetta a tema. Come si dice, in alto i calici.
Piazza Affari
A chi è rivolto quel dito?
A parte il fatto di trovarsi piuttosto disorientati di fronte a un enorme dito medio puntato contro la Borsa, qual è il significato dell’opera L.o.v.e. di Maurizio Cattelan?
Alta undici metri e realizzata in marmo di Carrara, la scultura della mano con quattro dita mozzate ha suscitato più di un interrogativo. Con la crisi economica che ha colpito l’Italia, i più hanno pensato a un gesto provocatorio nei confronti della finanza che piazza Affari rappresenta. E invece no, sarebbe un altro il significato della scultura. La mano è aperta in un saluto romano, ma le dita mancanti mettono in evidenza il medio, che così sbeffeggia, più che la finanza, palazzo Mezzanotte, edificio di epoca fascista. Il gesto sarebbe quindi tutto politico.
Ma per cosa sta l’acronimo L.o.v.e.? Per Libertà, odio, vendetta, eternità. Dovremo abituarci a vedere la scultura in piazza Affari, perché il Comune di Milano ha promesso di lasciarla dov’è per quarant’anni. Non è certo la prima opera dell’artista padovano che suscita scalpore. Il suo primo lavoro pubblico risale al 1994, quando raccolse una tonnellata di macerie del pac − Padiglione d’arte contemporanea, risultato dell’esplosione di una bomba di stampo mafioso in via Palestro il 27 luglio 1993, e le espose a Londra e Parigi.
Per dirla con Vittorio Sgarbi, «io so che scrivendo, qualunque cosa si dica, concorro alla gloria di Cattelan, contribuisco a dar senso alla sua opera, che esiste perché se ne parla». Per dirla con Cattelan, «ho fatto di tutto. Sono scappato di casa a 18 anni e per mantenermi ho fatto l’infermiere, il becchino, l’antennista, l’elettrotecnico e l’operaio. All’arte sono arrivato per esclusione: ogni lavoro era una tortura, all’improvviso mi è sembrata una possibilità interessante, un’occupazione senza cartellino. Poi ho capito che non ci sono orari, lavori sempre». Ma «se sapessi a cosa serve l’arte, farei il collezionista».
Via Aldini
Come il fantasma di Ghost
Ve lo ricordate il fantasma della metropolitana di Ghost? Quello che riesce a spostare gli oggetti con la forza del pensiero e che insegna a Sam, alias Patrick Swayze, il trucco per farlo?
«È una questione di testa», gli dice mentre il giovane bancario, anche lui fantasma, cerca di spostare un tappo con il dito. «Il tuo problema è che sei ancora convinto di esistere. Pensi davvero di indossare quei vestiti? Di essere rannicchiato su quel pavimento? Pura illusione. Non puoi contare più sul tuo corpo, ragazzo.» E infine: «Vuoi spostare gli oggetti? Fallo con la forza della mente».
Quel fantasma ha il viso lugubre e l’occhio pesante di Vincent Schiavelli, caratterista di origini siciliane che ha preso parte a più di centoventi tra film ed episodi televisivi. È un tipo irascibile, va matto per le sigarette ed è lui stesso a lasciare intendere che è morto suicida gettandosi sui binari della metropolitana di New York. Cosa che continua a fare anche da fantasma, sviluppando una vera ossessione per quei vagoni.
Qualcosa di simile accade allo spettro di un anziano che frequenta via Aldini, alla periferia di Milano. Leggenda vuole che il fantasma, non si sa se per spaventare gli automobilisti o se per altri motivi, attraversi la strada all’improvviso, facendo di tutto per farsi investire. Ma chi ne intravede l’ombra per un istante, poi, guardandosi intorno, non riesce più a trovarlo. A qualcuno è capitato di vederlo qualche metro più avanti intento a pregare.
Si tratterebbe dello spirito di un anziano morto all’Istituto Palazzolo. Per intenderci, la struttura costruita negli anni Trenta per far fronte al problema degli anziani soli, perché cominciavano a essere abbandonati e molti erano sfrattati dalla città. E chissà che la stessa sorte non fosse toccata al nostro fantasma.
Via Alessi
Il delitto della casba
Non era certo un caso se il quartiere era stato ribattezzato casba
. A pochi passi dai Navigli le vie Gaudenzio Ferrari, Cicco Simonetta, Marco d’Oggiono e Galeazzo Alessi si incrociano formando un quadrilatero. E in via Alessi, al numero 2, il 26 gennaio 1966 una donna, in visita al fratello, lo trovò chiuso nell’armadio. Decapitato.
L’uomo si chiamava Giuseppe Zaffaroni, aveva sessantasei anni, e a sentire i vicini non aveva mai avuto atteggiamenti che potessero dare nell’occhio. Qualcuno lo ricordava seduto vicino alla finestra, di sera, con un libro e una bottiglia di vino a portata di mano.
Fin qui i fatti accaduti a Milano. Ma bisogna spostarsi a Firenze per trovare il colpevole. Sarà un caso che il capoluogo toscano ospiti nella Loggia dei Lanzi, in piazza della Signoria, la statua di bronzo di Perseo. Figlio di Zeus e Danae, il giovane è scolpito mentre tiene il braccio sinistro alzato con in mano la testa di Medusa. Per Cosimo i de’ Medici quella statua, opera di Benvenuto Cellini, doveva rappresentare un monito per i nemici.
Fu in questa città che dopo dodici giorni di ricerche le forze dell’ordine arrestarono Benito Gnata, nipote trentunenne della vittima. In principio l’omicida negò l’evidenza, anche se aveva con sé la scure, ancora macchiata di sangue, con cui aveva compiuto il delitto. Disse che quello non era il suo nome e di non sapere nulla dei fatti di via Alessi. Ritenuto affetto da sindrome dissociativa schizofrenica, non verrà mai processato. Ad attenderlo ci sarà comunque un futuro dietro le sbarre, quelle di un manicomio.
Dieci anni più tardi, sempre in via Alessi, un appartamento si trasformerà in una prigione per la giovane Emanuela Trapani, rapita da Renato Vallanzasca e dalla sua batteria il 13 dicembre 1976, mentre l’autista la stava accompagnando a scuola.
Via Algarotti
La vecchia osteria di lader
A guardarlo oggi sembra tutto tranne che un locale malfamato. Anzi. Ma bisogna tornare al 1843 per inquadrare il ristorante di via Francesco Algarotti, ribattezzato dai milanesi osteria di lader per via delle sue frequentazioni.
Erano gli anni antecedenti ai moti del ’48 e a Milano il maresciallo Josef Radetzky, verso il traguardo degli ottant’anni, non aveva ancora schierato 14.000 soldati austriaci per contrastare l’insurrezione delle Cinque giornate. Il clima era di aspettativa in tutta Europa, non a caso il 1848 è chiamato anche l’Anno dei miracoli
o la Primavera dei popoli
. C’era attesa non solo a livello politico, ma anche sociale ed economico.
In questo contesto non mancavano i furbetti, coloro cioè che, cambiamento o no, si dedicavano ad attività più terra terra. Vivevano di piccoli espedienti, perlopiù furti, e avevano eletto a loro ritrovo un locale in via Algarotti, dove si fermavano per consumare un pasto a buon prezzo e cambiare i cavalli. Ma con la nascita di una nuova stazione ferroviaria, nel 1866, il locale cambiò nome – e status – diventando la Nuova osteria della stazione. Bisognerà attendere il 1936 perché il ristorante si trasformi in Da Berti e assuma le caratteristiche che ancora oggi lo contraddistinguono.
Innanzitutto va detto che si è aggiudicato il marchio Locali storici d’Italia e che ai suoi tavoli hanno pasteggiato, tra gli altri, Alain Delon e Michail Gorbačëv. Nella cantina sono conservate 10.000 bottiglie di vino italiano e la carta dei vini è curata da Giuseppe Biggica, primo sommelier d’Italia nel 1973.
Il piatto forte del ristorante è il Magnum, ossobuco e risotto con lo zafferano, mentre chi è alla ricerca di colori forti può assaggiare gli gnocchi viola, proposti sia con gorgonzola e crema di zucca, sia con pesto di asparagi selvatici. Non mancano una sala intitolata a Radetzky, con i proclami firmati dal generale; la sala delle etichette, dove sono conservate quelle delle vecchie bottiglie di vino, e la sala con manifesti pubblicitari dei primi del Novecento.
Via Andegari
Una fontana di lacrime
A volte basta una frase a oscurare un’intera carriera. E qualche anno fa la frase «le tasse sono una cosa bellissima», pronunciata dal ministro dell’Economia, Tommaso Padoa Schioppa, fu un boomerang. A nulla valse spiegare che, grazie alle imposte, tutti contribuiscono a servizi pubblici indispensabili come ad esempio la sanità: per gli italiani accostare l’aggettivo bello
al sostantivo tasse
era, e probabilmente resterà per sempre, un sacrilegio.
Per i milanesi il discorso non cambia. Non a caso si diceva che dalla fontana dei Tritoni, all’angolo tra via Andegari e via Romagnosi, a causa della sua vicinanza con la sede dell’Esattoria civica (dal gennaio 1928 fino ai primi anni Sessanta), sgorgassero le lacrime dei cittadini. L’opera in marmo di Salvatore Saponaro è un tempietto dalle linee classiche: la fontana si trova nella nicchia centrale, mentre ai lati sono collocate le statue allegoriche della Beneficenza e del Risparmio, simboli della Cassa di risparmio che aveva sede nel palazzo Confalonieri di via Romagnosi. Non per altro l’opera venne subito ribattezzata fontana del risparmio
, anche perché la statua che lo simboleggia tiene tra le mani un salvadanaio dalla forma sferica. Alla statua è affibbiato il soprannome dòna di trè tètt, proprio per la forma del salvadanaio stretto vicino al busto.
In quanto a nomignoli i milanesi dimostrano di avere una certa fantasia. La fontana che si trova in piazza Castello è conosciuta anche come la turta di spus (torta degli sposi
), perché con le sue vasche rotonde collocate a diverse altezze, gli zampilli d’acqua a ventaglio creano un effetto che la fa somigliare a una torta nuziale. La fontana venne realizzata alla fine degli anni Trenta dall’aem, l’Azienda elettrica municipale, in occasione di un incontro del Duce con i reduci dall’Abissinia. Il sito del Comune www.turismo.milano.it riporta un aneddoto secondo cui, in piena Tangentopoli, quando qualcuno chiedeva ai tassisti informazioni sulla fontana, questi rispondevano che Bettino Craxi l’aveva portata a Hammamet, secondo una consuetudine ormai diffusa ad attribuirgli di tutto.
Via Aporti
Il binario 21
Quando gli americani della Easy Company si trovano di fronte i superstiti di un campo di concentramento, non capiscono chi siano e perché si trovino in quel luogo, ma restano attoniti nel constatare le loro condizioni disperate. Le scene sono ben descritte in Band of Brothers, fiction televisiva molto aderente alla realtà, dato che si basa sulle interviste, i diari e le lettere dei soldati della compagnia.
Il 30 gennaio 1944 alla Stazione Centrale avviene qualcosa che non era mai accaduto prima. Dal binario 21 partono i primi convogli verso il campo di concentramento polacco di Auschwitz: soltanto 22 dei 605 ebrei milanesi deportati quel giorno faranno ritorno a casa. È proprio attorno al binario 21 che sorge il Memoriale della Shoah di Milano, in un’area della Stazione, originariamente adibita al carico e scarico dei vagoni postali (con accesso da via Ferrante Aporti), al di sotto dei binari ferroviari, perché questi esodi di massa non turbassero la tranquillità dei normali passeggeri. Qui, tra il ’43 e il ’45, centinaia di ebrei e deportati politici vengono caricati su vagoni merci sollevati grazie a un montacarichi e condotti così al livello dei binari, dove prendono la via di Auschwitz, Bergen-Belsen, Mauthausen o dei campi di raccolta italiani di Fossoli e Bolzano.
All’interno del Memoriale, che occupa uno spazio di circa settemila metri quadrati distribuiti su due piani, si trovano la Sala delle testimonianze (da cui tra l’altro si vede la banchina da cui prendevano avvio le deportazioni), dove in una serie di video sono raccontate le esperienze di chi è sopravvissuto ai campi di sterminio; il binario 21, dove si trovano due dei quattro vagoni originari, e il Muro dei nomi, su cui si possono leggere i nomi di tutti i deportati.
Viale Aretusa
Il camper abbandonato
Il 19 novembre 1989 il sostituto procuratore di Milano, Antonio Di Pietro, si trova in un parcheggio di viale Aretusa. Davanti a lui c’è un camper abbandonato. Con una telefonata al programma Rai Chi l’ha visto?, allora condotto da Donatella Raffai, un telespettatore aveva segnalato la presenza del veicolo che le forze dell’ordine cercavano dall’agosto di quell’anno.
Nove anni più tardi sarà ancora Chi l’ha visto? a interessarsi a una vicenda su cui non si è mai spenta l’attenzione: la scomparsa da Parma, tra il 4 e il 5 agosto 1989, della famiglia Carretta, che secondo qualcuno era fuggita ai Caraibi. Il 20 novembre 1998, davanti alle telecamere della trasmissione, il figlio maggiore, Ferdinando Carretta, a Londra ormai da diversi anni, confessa il triplice omicidio. Con un tono di voce pacato, ma fermo, ammette: «Ho preso quella pistola, quell’arma da fuoco, e ho sparato ai miei genitori e a mio fratello». Il fatto è successo a Parma nell’appartamento di via Rimini 8. Alla domanda dell’intervistatore sui motivi che lo hanno spinto a uccidere, Carretta risponde: «Questo è stato un atto di follia, un atto di follia completa». E ancora: «C’è una ragione ben precisa, che ha a che fare con me, con le mie condizioni mentali di allora». In quei giorni il padre Giuseppe, la madre Marta Chezzi e il fratello minore Nicola sarebbero dovuti partire per una vacanza, così Carretta sposta il camper per dare l’impressione che la famiglia sia in viaggio.
Il ritrovamento di Ferdinando Carretta nella capitale inglese è puramente casuale. L’uomo viene multato per divieto di sosta e il bobby gli chiede i documenti. Dopo una verifica alla centrale di polizia, l’agente si rende conto che Carretta risulta essere scomparso da Parma. E la troupe televisiva parte alla volta di Londra perché vuole realizzare un servizio sulla sua famiglia, non certo aspettandosi una confessione in diretta. A riguardo, Carretta affermerà: «Alle due di notte gliel’ho detto ed è stato liberatorio», come si legge nel