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Operazione Commando
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Operazione Commando

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Una storia di sopravvivenza unica al mondo

Una storia vera

L'incredibile vita del giornalista diventato soldato

2009. Stephen Paul Stewart è un giornalista, un reporter. Quando chiede e ottiene l’incarico di unirsi alle truppe britanniche per documentare alcune operazioni in Afghanistan, si aspetta un lavoro di routine. Non immagina che quell’esperienza in prima linea lo cambierà per sempre. Una volta rientrato in patria dopo essere stato testimone della devastazione messa in atto dai talebani, Stephen sente infatti di non poter riprendere il suo tranquillo lavoro dietro una scrivania. Decide quindi di seguire l’addestramento militare per arruolarsi nell’esercito britannico e tornare in Afghanistan. Da soldato questa volta. Si ritrova così assegnato a una delle più remote basi inglesi del Paese, dove resterà per oltre sei mesi prendendo parte ad alcuni momenti chiave della campagna. In queste pagine, Stephen Stewart racconta in modo vivido, onesto e spesso scioccante la sua personale odissea, la realtà della guerra e l’impatto devastante che un lungo conflitto può avere sui soldati e sulle loro famiglie. Operazione Commando è una storia di sopravvivenza: quella di un uomo che ha rischiato la vita per offrire al lettore una prospettiva inedita e autentica sulla vera natura della guerra globale al terrorismo.

La sua guerra era raccontare la verità

«Operazione Commando è una testimonianza di prima mano sulla guerra in Afghanistan. Un libro intimo e coraggioso, che ti conquista dalla prima riga e non ti lascia più. Un’opera straordinaria.»
Harry Leslie Smith, eroe della seconda guerra mondiale

«Una prospettiva inedita e reale sull’Afghanistan. Un libro che coinvolge e si legge d’un fiato.»
Stephen Paul Stewart
Giornalista e scrittore scozzese, per anni ha collaborato con il quotidiano «The Herald» e con la BBC. È anche uno storico e ha contribuito a pagine di varie enciclopedie storiche e al BBC History Magazine.
LanguageItaliano
Release dateSep 29, 2016
ISBN9788854198616
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    Operazione Commando - Stephen Paul Stewart

    422

    Titolo originale: The accidental soldier

    Copyright text © 2014 Stephen Paul Stewart

    Published in Great Britain by Trinity Mirror Media

    All rights reserved

    Traduzione dall’inglese di Micol Cerato

    Prima edizione ebook: ottobre 2016

    © 2016 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-9861-6

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Librofficina

    Realizzazione: Luca Morandi

    Foto: © Nik Keevil / Arcangel Images

    Stephen Paul Stewart

    Operazione Commando

    L’incredibile vita del giornalista diventato soldato

    Questo libro è dedicato a tutti gli uomini e le donne

    che hanno combattuto tanto duramente

    e per così tanto tempo in Afghanistan.

    Agli amici assenti.

    Per mamma, papà e

    RMH

    .

    La guerra è una brutta cosa ma non la peggiore. La decadenza e la degradazione dello stato morale e del senso patriottico, che portano a pensare non ci sia niente per cui vale la pena di fare guerra, sono molto peggio. Colui che non ha nulla per cui è disposto a combattere, nulla che consideri più importante della propria sicurezza personale, è una creatura triste e non ha alcuna possibilità di essere libero a meno che gli sforzi di quelli che sono migliori di lui non lo liberino e lo mantengano tale.

    JOHN STUART MILL

    Prologo

    Senso del dovere

    Soldato S.P. Stewart – Notifica di Convocazione Obbligatoria. Come ben sa, le forze armate britanniche sono coinvolte nel supporto di un certo numero di operazioni militari internazionali. Il governo ha preso la decisione di convocare in forma obbligatoria i membri delle forze di riserva allo scopo di sostenere le missioni. Saranno dislocati al fianco dell’esercito regolare per aiutare il Regno Unito a contribuire alle operazioni.

    Lei è stato chiamato perché, sotto i poteri conferitigli dal Reserve Forces Act 1996, il segretario di Stato della Difesa ha emesso un ordine che autorizza la convocazione obbligatoria dei riservisti delle riserve volontarie e dell’esercito regolare.

    Immagina la tua morte. In Afghanistan, la cosa più probabile era che mi uccidesse una bomba piazzata dai talebani sul ciglio della strada. Gli ordigni esplosivi improvvisati (

    IED

    ) sono responsabili di circa tre quarti delle morti dell’intera coalizione. Dunque, era molto probabile che sarebbe stata quella la mia fine. Speravo solo che accadesse rapidamente. Il pensiero di trascorrere mesi in una corsia d’ospedale, privo di gambe e di braccia come una bambola di pezza rotta, prima di soccombere a una morte atroce mi riempiva di una paura primitiva e snervante.

    Dopodiché, oltre a tutto questo, prova a entrare nell’ottica di comunicare con i tuoi cari dall’oltretomba attraverso una lettera. Non è semplice, vero? Noi abbiamo dovuto farlo. La mia partenza per l’Afghanistan come soldato di fanteria era imminente. Mi sedetti a scrivere la lettera che la mia famiglia avrebbe aperto solo in caso fossi deceduto. Nulla nell’addestramento ricevuto mi aveva preparato a questo. Resta una delle cose più difficili che abbia mai dovuto fare, al cui confronto il dolore, i disagi e le durezze della vita militare impallidiscono.

    Dovevo condensare in qualche foglio di carta un’intera vita di amore, dire tutto quello che troppo spesso rimane non detto. Mi ci vollero settimane per riuscire finalmente a comporre la mia lettera di morte. Trovavo sempre qualcos’altro da fare. Avrei sempre potuto pensarci il giorno dopo. Ma con il passare del tempo, la data della partenza si avvicinava. Non potevo più rimandare. Fui tentato addirittura dall’idea di non scrivere nulla, poi pensai che sarebbe stato troppo crudele. L’occasione mancata di dire ciò che avevi da dire.

    Dovetti anche affrontare la situazione surreale di posare per alcune foto di morte, dove apparivo audace e coraggioso, che sarebbero state rilasciate alla stampa nel caso in cui fossi stato assassinato, eliminato, freddato, fatto fuori. I soldati hanno un sacco di sinonimi per indicare l’atto di restare uccisi. In piedi davanti al quartier generale del battaglione, mi feci scattare da un altro soldato un paio di primi piani e mezzi busti. Dovevo sorridere oppure no? Nessuno sembrava saperlo. Mi presero le misure per la mia uniforme di servizio – l’uniforme completa delle Highlands, in caso avessi dovuto indossarla per fare ritorno in una bara, o per portare quella di qualcun altro sulla spalla. Provai la sensazione orribile e arrogante che ti spinge a dire «a me non succederà», ma si tratta solo di una facciata, un meccanismo di difesa. Devi essere ottimista ma prepararti al peggio.

    Perché ho scelto di lasciare una buona carriera in un ufficio con l’aria condizionata per arruolarmi come soldato semplice e andare nel Paese più pericoloso del pianeta? A volte mi facevo la stessa domanda. Cosa cavolo mi è saltato in mente di entrare nell’esercito? L’Afghanistan mi aveva agguantato alla gola quando mi ci ero recato come giornalista embedded. Non mi lasciava andare. Quel Paese mi ha cambiato la vita.

    Quel viaggio fu indubbiamente una delle mie esperienze formative più importanti. Pensavo che il caldo, tra le altre cose, mi avrebbe ucciso, ma in qualche modo perverso, mi piacque abbastanza. Era una piacevole novità, rispetto al vedermi diventare le dita bluastre mentre andavo a lavoro in auto nel cuore dell’ennesimo crudele inverno scozzese.

    La vita delle operazioni militari mi sembrava mostrarsi nella sua forma più disadorna, pura e spogliata di ogni orpello. Facevi il tuo lavoro, mangiavi, dormivi e poi ti alzavi e ricominciavi a lavorare da capo. Non c’erano politiche d’ufficio, bollette, seccature, nessuna delle frivolezze che ingombrano le nostre vite moderne.

    L’Afghanistan aveva una bellezza terrificante. Sembrava trovarsi al di fuori della storia. Mentre ero lì come reporter, guardavo ammirato il paesaggio circostante. Avrebbe potuto essere il 2009 così come il 9 a.C., tanto era brullo, impietoso e senza tempo. Mi pareva di aver viaggiato nel passato per tornare a quando Alessandro Magno camminava per quelle terre. Fu un po’ come innamorarsi. Quel Paese mi aveva rapito, dovevo farci ritorno, questa volta per vedere come fosse viverlo da soldato.

    Anche l’antimodernità del mondo militare mi attirava. Gli articoli di giornale sono pieni di azioni temerarie e supertecnologiche, con aerei stealth, missili guidati e droni senza pilota che colpiscono i nemici della nostra nazione. La fanteria, però, non è cambiata molto nel corso dei secoli. Armi e uniformi vanno e vengono, ma il ruolo di un soldato di fanteria nell’Afghanistan del ventunesimo secolo risulterebbe familiare a un soldato a cavallo della guerra boera. Ho trovato il collettivismo dell’esercito in forte contrasto con la società atomizzata in cui viviamo oggigiorno. Le reclute vengono martellate con i benefici del lavoro di coppia, l’importanza di badare l’uno all’altro. È difficile non rimanere colpiti dalla determinazione e dal cameratismo. E da come ogni sergente maggiore di fanteria potrà dirvi: a vincere le guerre sono ancora gli stivali sul terreno.

    Non ho mai preso in considerazione l’idea di arruolarmi in un’arma diversa dalla fanteria. Per il pubblico civile, un soldato è un soldato. Nel mondo militare, invece, non tutti i soldati sono stati creati uguali. Tutte le truppe ricevono la stessa infarinatura di base. Per il soldato di fanteria, quello non specializzato, che noi chiamiamo Jock, o Tommy, il solo compito è avvicinarsi al nemico e distruggerlo. Lui, e uso questo pronome deliberatamente, non è addestrato a fare lavori d’ufficio, cucinare o distribuire provviste. È lui ciò che ha in mente il pubblico quando immagina un soldato. Sono addestrati a uccidere, e sostanzialmente a nient’altro.

    Nel momento in cui scrivo, alle donne è vietato l’accesso alla fanteria dell’esercito britannico. Possono fornire sostegno alle operazioni di prima linea con squadre logistiche, di artiglieria e ingegneria ma non possono entrare nella fanteria o nelle squadre di combattimento tattico. In America, stanno valutando la possibilità di rendere loro accessibili tutti i ruoli.

    Io dovevo entrare per forza nella fanteria. Solo quel posto mi avrebbe dato l’occasione impagabile di vedere da un punto di vista privilegiato cosa significasse davvero fare il soldato nelle circostanze più dure che l’esercito britannico ha affrontato dalla guerra di Corea, o anche dalla seconda guerra mondiale. Non mi sono arruolato come gesto grandioso e patriottico nei confronti della regina e del mio Paese. Non mi sono arruolato perché lo stavano facendo i miei amici e non volevo sentirmi escluso. Io sono diventato un soldato per caso.

    Quando alla fine del 2014 la grande maggioranza delle truppe verrà ritirata dall’Afghanistan, sarà la prima volta che la Gran Bretagna si troverà in pace dopo un secolo di guerra continua. Si stanno facendo dei tagli nelle spese per la difesa. I soldati delle riserve formeranno la spina dorsale delle nuove forze armate. Insegnanti, panettieri e netturbini lasceranno i loro lavori per addestrarsi e andare in missione su tutti i fronti in cui la Gran Bretagna sarà impegnata.

    Le riorganizzazioni significano che l’esercito britannico del futuro sarà molto, molto più piccolo. Nel 2010 la sua forza era di circa 102.000 soldati. Entro il 2020 ci sarà un esercito regolare di soli 82.000 uomini – metà di quello che aveva durante la guerra fredda, completato da 30.000 riservisti. Nel 1978, l’esercito contava più di 163.000 soldati.

    Andare in missione in Afghanistan è stato difficile. In qualche modo, tornare lo è stato ancora di più.

    Doveva essere un’avventura, un’esperienza di immersione per gettare luce sulla vita al fronte. Ha finito per toccarmi troppo da vicino. Tornare al lavoro e alla vita da civile mi ha costato un certo sforzo. Una volta sbiadita la piacevole novità dell’acqua corrente e delle lenzuola pulite, la vita normale è risultata un po’ piatta. Avevo la sensazione che, qualunque cosa avessi fatto, non sarebbe mai stata importante, questione di vita e di morte, come laggiù. Per quanto non vedessi l’ora che arrivasse la fine, capisco adesso perché le persone continuano ad arruolarsi per nuove missioni e a tornare in quei Paesi più e più volte.

    La mia lettera di morte è rimasta a prendere polvere in un cassetto, chiusa in una cartellina marrone, senza che l’abbia letta nessuno. Il nastro adesivo che avevo incollato sul retro della busta come sigillo, per impedire che la curiosità della mia partner Lynda avesse la meglio su di lei, è ancora intatto. Un giorno, forse, le permetterò di leggerla, ma d’altro canto, potrei non farlo. Potrebbe essere meglio distruggerla e basta. Dopotutto, non mi serve più. Magari il contenuto non la sorprenderebbe neanche, mi conosce troppo bene.

    Nella lettera, le scrivevo cosa speravo di ottenere partendo per l’Afghanistan come soldato, che volevo prendere parte alla campagna invece di limitarmi a documentarla dalle retrovie. Andare in guerra ha ucciso più di una relazione. Di fatto, durante il mio periodo di servizio, nel nostro minuscolo campo, almeno due uomini hanno rotto con le rispettive ragazze. Le ho detto che pensavo che la mia missione ci avrebbe reso più forti. Se fossimo riusciti a superare quello, avremmo potuto superare qualunque cosa.

    In quel tempo avrei scoperto molte cose su di me, sull’esercito, sull’Afghanistan. Ho scoperto che anche le famiglie portano a termine un periodo di servizio, tanto quanto ogni soldato che stringe i denti in un misero campo, mangiando pasti freddi e razionati e desiderando essere altrove.

    Diamo un’incredibile responsabilità ai nostri soldati, molti dei quali sono ragazzi giovani che prima di quel momento non avevano neanche mai messo piede fuori Govan, Salford o Bermondsey. Li addestriamo a uccidere, li mandiamo a combattere nelle condizioni militari più dure del pianeta dicendo loro di rispettare severe regole d’ingaggio che stabiliscono quando sia possibile uccidere il nemico e quando no. Nell’Helmand, avrei sentito molti soldati borbottare: «Meglio venire giudicati da dodici che portati in spalla da sei». In altre parole, è meglio uccidere qualcuno e finire in tribunale per questo che ritrovarti morto perché hai esitato.

    Ho scoperto che ci sono tantissime contraddizioni sulla guerra, in generale, ma soprattutto in Afghanistan. I nostri soldati vengono chiamati costantemente eroi, con loro grande imbarazzo. Eppure, per andare al fronte alcuni di loro vengono pagati soltanto diciottomila sterline all’anno. Prestare servizio nell’esercito mi ha davvero aperto gli occhi. Ho visto la guerra così com’è – in tutta la sua gloria quotidiana, priva di eroi.

    Questo libro è il mio resoconto, un resoconto soggettivo. Non pretendo di offrire una storia completa dell’Afghanistan né una visione panoramica e dettagliata della campagna che la Gran Bretagna vi sta portando avanti. Durante il mio addestramento e il mio periodo di servizio ho tenuto un diario. Questa è la storia di quello che ho visto e sperimentato prima, durante e dopo aver combattuto in Afghanistan.

    Alla mia famiglia è stato risparmiato l’orrore di dover leggere la mia lettera di morte. Sono stato fortunato. Ho fatto ritorno. Alcuni non avrebbero avuto la stessa fortuna.

    1

    Immersione totale

    Ogni uomo pensa male di sé per non aver fatto il soldato.

    Samuel Johnson

    «Che cazzo ti guardi?!». Benvenuto nell’esercito britannico, penso. Nella mia innocenza, sono finito nell’ufficio di un Mister Muscolo alto un metro e novanta il mio primo giorno da soldato a tempo pieno. Il mio arrivo improvvisato in questo studio angusto viene accolto da una raffica d’insulti. Di certo speravo in qualcosa di più tranquillo per l’inizio della mia carriera militare. Con la fronte segnata da vene che lottano per affiorare in superficie, il sergente che ho davanti inarca le sopracciglia, avvicinandosi ulteriormente con fare minaccioso.

    Il mio stomaco era già piuttosto irrequieto, dato che qui sono davvero in territorio inesplorato. Ho appeso al chiodo la penna e il taccuino del giornalista di professione per arruolarmi come soldato di fanteria. Oggi è il primo passo verso la realizzazione del mio sogno di prestare servizio al fronte. Mentre il sergente mi si avvicina, mi sento come un boxer dilettante che sta per prendersi la sua prima batosta. Ho una stretta allo stomaco per l’ennesima volta solo quella mattina.

    Perché io?, penso, e non sarà la prima né l’ultima volta. Maledico la mia idiozia, che mi ha portato dritto nello spazio personale di questo tizio. Nella maggior parte dei luoghi di lavoro, i colleghi chiederebbero se ho bisogno di una mano o se voglio indicazioni. Ovviamente, qui è diverso. I miei occhi non si sono ancora staccati dal mostro militare che ho di fronte. «Cosa cazzo ci fai qui?», ringhia. Sul suo corpo non c’è un grammo di grasso, gli avambracci sporgenti e i bicipiti gonfi suggeriscono sia un pugile o un sollevatore di pesi. Ogni nervo sembra perfettamente affinato e pensato apposta per infliggere danni a una fragile struttura umana, come la mia. Più tardi scoprirò che è un esperto di arti marziali miste, specializzato in combattimenti in gabbia.

    Ora come ora, non è altro che una minaccia che parla e cammina. «Perché cazzo sei entrato?», chiede. Al momento non lo posso ancora sapere, ma mi sono appena imbattuto in uno degli uomini più duri del battaglione. È specializzato in ricognizione, nell’andare dietro le linee nemiche per raccogliere informazioni, aprendo la strada al resto dell’esercito. Ha anche l’inconfondibile aria di quelle persone che, più che infiammarsi con facilità, sono costantemente a fuoco.

    Come uno studentello imbarazzato, borbotto le mie scuse più sentite al mostro a forma di

    V

    che avrei finito per conoscere come Boab il Cane e batto in rapida ritirata, avvicinandomi alla sicurezza della porta. Sono nel cuore della caserma Glencorse, vicino a Edimburgo, dove mi unirò ai

    2

    SCOTS

    , il reggimento dei Fucilieri reali delle Highlands. Mi addestrerò con questi uomini, e alcune donne, prima di partire per l’Afghanistan per un’estenuante missione di sei mesi da soldato di prima linea.

    La mia carriera militare, per quanto umile, si trova in netto contrasto con quella della maggior parte dei soldati. Sono arrivato piuttosto tardi a questa storia della guerra. In effetti, sono l’esatto opposto dello stereotipo del soldato ingenuo e sbarbatello: molti si arruolano a diciassette anni o poco più, mentre io sono un giornalista trentottenne che ha rinunciato alle comodità e alla relativa stabilità di una redazione provvista d’aria condizionata per arruolarmi nella riserva dell’esercito e poi avventurarmi nel deserto afghano.

    Se qualche anno fa qualcuno mi avesse detto che avrei rinunciato alla mia carriera e alla vita di famiglia per andare a fare il soldato nel contesto più complesso che le forze armate abbiano fronteggiato dai tempi della guerra di Corea, avrei riso della sua immaginazione eccentrica. Il mio passaggio da osservatore a partecipante della campagna afghana iniziò quando nel 2009 venni incorporato a uno storico battaglione come giornalista embedded per l’operazione Herrick, la denominazione militare della missione afghana.

    Non è un’iperbole giornalistica dire che quelle tre settimane con i

    3

    SCOTS

    , i Black Watch, sono state una rivelazione che ha trasformato completamente la mia vita. Ero nella redazione del «Daily Record» quando ricevetti una telefonata che mi comunicava che ero stato autorizzato ad andare a Kandahar a documentare il lavoro del battaglione impegnato a distruggere le fabbriche di bombe dei talebani e a bloccare il loro lucrativo traffico di droghe. Ero beatamente inconsapevole del fatto che questo incarico avrebbe finito per portare al mio arruolamento.

    Come milioni di ragazzi in tutta la Gran Bretagna, e nel mondo intero, ero ossessionato da qualunque cosa riguardasse l’esercito. Dalle ore spese curvo su fumetti di guerra, divorando i racconti delle imprese temerarie di piloti di caccia brizzolati e stoici prigionieri di guerra, agli innumerevoli sabati pomeriggio trascorsi a guardare film come I guerrieri e Quell’ultimo ponte, non me ne stancavo mai. Non avevo mai pensato, però, che avrei finito per arruolarmi, e per giunta a quasi quarant’anni, quando ormai potevo contare su una carriera tranquilla e più o meno socialmente accettata in campo giornalistico.

    Ricordo vividamente di aver sottoposto entrambi i miei nonni a interrogatori sulla loro esperienza nella seconda guerra mondiale. Il mio nonno materno aveva prestato servizio con i Cameroniani, una leggendaria squadra scozzese che si batté con onore a fianco dei Chindits, l’unità speciale di indiani britannici famosa per aver combattuto in Birmania, infiltrata dietro le linee nemiche. Fu uno dei milioni di uomini reclutati all’inizio della guerra e non fece ritorno da mia nonna prima della fine del conflitto. A quei tempi, non c’era nulla di simile al R&R (Riposo & Relax), nessun permesso temporaneo per tornare a casa. Era un uomo alto e alla mano, con una zazzera di capelli argentati. Per quanto mi sforzi, non riesco a ricordare di averlo mai sentito alzare la voce, non importa quanto mi comportassi male o quanto sciocche fossero le mie domande. Per questo rimasi sconvolto quando scoprii che era passato dal rango di soldato semplice a quello di caporale, attribuito agli uomini più duri e pragmatici di ciascun battaglione. Più tardi, nella mia carriera militare, avrei scoperto che la parola di un caporale è legge.

    Mio nonno Robert venne ferito alle natiche e alle gambe – non arrivai mai a chiedergli come fosse successo. Secondo la leggenda di famiglia, all’inizio della guerra partì con una chioma di capelli castano chiaro. Anni dopo, mia nonna stava stendendo la biancheria in giardino quando vide uno sconosciuto alto camminare per strada in uniforme. Rimase a guardarlo mentre svoltava nel suo vialetto e la salutava. Era suo marito, mio nonno, finalmente tornato – ma i suoi capelli erano diventati completamente bianchi. Si trattava di naturale invecchiamento o era stato causato dagli orrori a cui aveva assistito in giro per il mondo, dall’Italia all’India, e praticamente in qualunque altro posto? Di nuovo, purtroppo, non arrivai mai a domandarglielo.

    Sfoggiava il grosso tatuaggio di una donna sopra alle parole

    MADRE INDIA

    . Quel disegno, che il passare del tempo aveva tinto di un colore grigio-bluastro, era un ricordo permanente del suo periodo trascorso in Oriente. Il servizio militare aveva, letteralmente, lasciato un segno sulla sua pelle. Fumava con fervore, con la passione che altri mettono nella raccolta dei francobolli o in qualche altro passatempo. Fumare era la sua cosa – anche questo, me ne rendo conto ora, era probabilmente un retaggio dei suoi giorni nell’esercito. Ricordo che si lavava spesso in una bacinella davanti al lavandino, strofinandosi il petto nudo. In Afghanistan, io avrei fatto lo stesso.

    L’altro mio nonno, James, o Jim per gli amici, era un membro della Royal Navy. Da ragazzino, a nove o dieci anni, ascoltavo con entusiasmo i suoi racconti di guerra, ma purtroppo non ho mai preso alcun appunto sulle sue storie. Il risultato è che, con mia eterna vergogna, non riesco a ricordare su quali navi avesse prestato servizio. Nelle vecchie foto di guerra, appare come un giovane elegante snello e dagli zigomi alti. Si trovava su una delle navi da battaglia che fecero affondare la famosa Bismarck. Quel combattimento storico avrebbe cambiato per sempre la sua vita.

    Fu ferito al volto dalle schegge dell’esplosione che scosse la nave. Perse un occhio e rimase con un grumo di cicatrici profonde che gli tiravano la pelle sul viso. Mi disse, mentre sedevo nel suo soggiorno con i calzoni corti e le croste alle ginocchia, che per ricucirgli la faccia avevano usato il fil di ferro perché i dottori erano rimasti senza quello per suture, tanti erano gli uomini orribilmente feriti a cui pensare. La ragnatela di cicatrici gli attraversava lo scalpo e il volto, tracciando linee bianche sulla sua pelle pallida e sottile come carta. Io l’avevo sempre visto così, quindi non ne restavo turbato. Mi faceva effetto solo quando si toglieva l’occhio di vetro, cosa che per fortuna non accadeva molto spesso.

    Avevo avuto la distinta impressione che, da giovane, mio nonno fosse stato un ragazzaccio, uno che amava correre rischi e sapeva di certo come badare a se stesso. Mi raccontò un vivido aneddoto sulla volta che aveva spaccato la faccia a un compagno di marina che gli aveva dato dello scozzese bastardo. Si massaggiava mestamente l’accenno di barba grigia sul mento e intanto diceva: «Essere chiamato bastardo era un insulto pesante, a quel tempo».

    Aveva fatto anche il pugile, sebbene sospetti che il suo esperimento con la boxe sia stato cosa breve. Amava dirmi quanto rispettava gli sportivi alla

    TV,

    dopo che aveva assaggiato le delizie del ring mentre era in marina. Infilava i guanti per un round di due, tre minuti con qualche compagno di bordo e alla fine né lui né l’altro riuscivano a sollevare i pugni, figurarsi assestare un colpo. «Hanno una forza e una resistenza incredibili», mi diceva, mentre nel suo soggiorno Frank Bruno saltellava sullo schermo della

    TV

    .

    Ancora oggi, odio l’idea di uccidere i ragni perché un giorno l’ho sentito raccontare che, mentre si stava rimettendo in sesto in ospedale, aveva visto le infermiere sgridare i marinai feriti che uccidevano i ragni che zampettavano per il reparto fatiscente. Le donne dicevano che i ragni erano insetti puliti che le aiutavano a tenere a bada le malattie uccidendo le creature sporche come le mosche e gli scarafaggi. Da allora i ragni, per grandi e brutti che siano, a casa mia sono stati al sicuro.

    Mi ricordo appollaiato sul bordo del divano nelle loro rispettive case, mentre li interrogavo sulla guerra. «Non odi i tedeschi?», chiedevo, completamente sconcertato dalla loro totale mancanza di rancore. «Quei tedeschi erano proprio come me, facevano solo quello che dovevano fare. Hanno sofferto tanto quanto noi», era il succo della loro risposta. A quel tempo, non riuscire a strappare loro qualcosa di più mi faceva sentire arrabbiato e un po’ offeso. Adesso, mi rendo conto che quelle parole dicevano molto della loro umanità, empatia e saggezza.

    Finora, l’esperienza dei miei nonni è stata la mia unica finestra sulla vita militare. Di certo non ero destinato a seguire le orme di qualche glorioso antenato che aveva comandato un reggimento a Waterloo o niente del genere. La mia carriera marziale fino a questo momento ha compreso giusto

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