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Il condominio degli amori segreti
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Il condominio degli amori segreti

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A volte l'amore è un affare di condominio

I condomini sono riuniti al completo quando, nel loro palazzo alla Garbatella, arriva l’affascinante Daniele Bracci, un musicista che si fermerà lì per qualche mese. Daniele è frastornato dall’accoglienza più che calorosa. Matteo Spina, il saggio, lo recluta subito per lavorare nell’orto condominiale. Paolo e Rudy, che vivono nell’attico, pensano già a un pranzo di benvenuto. Giovanna, invece, vede in lui un fidanzato perfetto per la figlia Anita… Ma la mattina dopo, quando Matteo Spina blocca Anita per presentarle il nuovo arrivato, la ragazza ha uno shock: perché lei, quel Daniele Bracci, lo conosce bene, e dai tempi del liceo. E ha fatto di tutto per dimenticarlo. E ora? Dovrà fingere di non averlo mai visto prima? Certo, Anita non è l’unica, nel condominio, ad avere qualcosa da nascondere. Giovanna, ogni lunedì, esce vestita di tutto punto. E con una scusa sempre buona per chi le chiede dove va. E Matteo Spina? Nemmeno lui la racconta giusta. Lo sa bene Pina, la pettegola del palazzo, che dietro alle persiane spia quello che accade, e annota poi tutto sul suo diario segreto…

Un condominio colorato, divertente e imprevedibile 
Tra gli scorci di una Roma immersa nei profumi della primavera, gli amori, i malintesi e gli inaspettati intrighi di un gruppo di bizzarri personaggi

Tutti i protagonisti:

Anita:
fa la guida turistica e vive con la madre nel lotto V della Garbatella.

Giovanna:
la madre di Anita, fa la sarta ed è la figlia della ex portinaia del lotto.

Matteo Spina:
il “tuttologo” del lotto, addetto alla cura dell’orto condominiale.

Pina:
la pettegola. Spia quello che accade e scrive tutto sul suo diario.

Paolo e Rudy:
la coppia che vive nel magnifico attico.

Daniele:
fa il musicista ed è il nuovo inquilino del lotto.

Mizuki:
si è trasferito a Roma dal Giappone e ha conosciuto Anita.
Livia Ottomani
È un collettivo di autori che si sono incontrati cinque anni fa a un corso di scrittura e poi, non potendo più fare a meno della reciproca compagnia, hanno deciso di scrivere un romanzo che li legasse per sempre.
LanguageItaliano
Release dateJul 8, 2016
ISBN9788854198319
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    Il condominio degli amori segreti - Livia Ottomani

    Capitolo 1

    Non pronunciare le parole segrete ad alta voce

    «Non pronunciare le parole segrete ad alta voce. Non dicere ille secrita a bboce. Non pronunciare le parole segrete ad alta voce». Anita canticchia quell’iscrizione mentre sfreccia con la sua Isotta davanti al cancello del parco dedicato a Commodilla. Ormai le sembra un’amica di vecchia data. Anita canta. Non pro-nun-cia-reeee le paroooleee se-gre-teee ad altaaa vooceee… Passionale e ironica. Intonazione perfetta.

    «Accidenti a questa buca!». Stringe le mani sul manubrio e il corpo s’irrigidisce per il contraccolpo. Ma riprendere il controllo è abbastanza facile. Prima o poi mi farò male sul serio, se non si decidono a ripararla, pensa, mentre il cuore continua a battere a un ritmo accelerato.

    Ma è quasi arrivata. Percorre velocemente la salita, gira, sterza e parcheggia Isotta al solito posto. Isotta è un glorioso sh 50, di altri tempi, né quattro né due. Isotta decide lei quale tempo darsi.

    Anita si toglie il casco e lo infila nel bauletto, poi, con un movimento armonioso che fa ondeggiare il suo corpo, scuote la testa e una massa di capelli ricci e rossi riprende forma. Roscio malpelo schizza veleno, mangia pagnotte, crepa stanotte, la prendevano in giro alle elementari. Crescendo però, quella testa fiammeggiante è diventata una qualità. Fianchi morbidi, vita sottile, seno tondo e pieno, e per finire quei ricci fulgidi e un po’ ribelli. È difficile che passi inosservata. Il sole d’aprile quasi al tramonto li accende di riflessi caldi, color del rame, che illuminano la sua pelle chiara, cosparsa di piccole efelidi.

    Lancia un’occhiata furtiva allo specchietto e mette in ordine alcune ciocche, poi, borsa a tracolla e passo deciso, entra nel vialetto del lotto. Le gargolle che ornano le grondaie sembrano osservarla, come sempre. «Attenta Anita, se non la pianti, stanotte chiamo il drago. Quello che sta sul tetto ad aspettare. Non vede l’ora di portarsi via i bambini disubbidienti», la minacciava sua madre quando era piccola. E lei, come gli altri bambini del lotto, spesso li sognava, la notte, quegli strani draghi.

    Mentre si avvia verso la palazzina a sinistra, vede sbucare Diego dal portone opposto.

    Il ragazzo, sulla trentina, trascina un grosso trolley, porta sulle spalle uno zaino e a tracolla una borsa piena di materiale fotografico.

    «Ciao Diego! Dove te ne vai stavolta?»

    «Ciao Anita! Sto partendo per la Grecia! Che ne dici, vieni con me?»

    «Troppo tardi… me lo dovevi dire prima…».

    «Mannaggia… eppure lo sai che ti porterei in capo al mondo!», esclama facendole l’occhiolino.

    Anita scoppia in una risata. «Sempre il solito…».

    «Ma sono serissimo. Sei tu che fai finta di non accorgertene…».

    «Dài, smettila. Di che si tratta stavolta?»

    «Mia cara… tu non ci crederai, ma ho avuto una vera botta di culo. È arrivato il mio momento… Finalmente farò il fotografo di scena in un film importante, una produzione internazionale. Forse è la volta buona che dico basta ai cinepanettoni! Hollywood sto arrivando…».

    «Accidenti! Ma sono proprio contenta! E quanto starai fuori?»

    «Quattro o cinque mesi. Non so bene, si vedrà».

    «E la casa? E il gatto?»

    «Tutto sistemato. Verrà ad abitare da me l’amico di un mio amico. È un tipo fidato. Per il gatto mi sono messo d’accordo con tua madre proprio stamani. Le ho lasciato le chiavi e finché non arriva il tizio, provvederà lei a sfamare la belva». Poi dà un’occhiata all’orologio: «Anita, devo proprio andare, altrimenti perdo il volo».

    I due si guardano negli occhi, si sorridono.

    «In bocca al lupo Diego!».

    «Crepi!».

    Anita resta ferma in mezzo al piazzale finché l’amico non scompare dalla sua vista. Poi si avvia verso casa. La volta buona che se ne va per sempre me la prendo io quella casa….

    La famiglia di Anita abita nell’appartamento del portiere da tre generazioni. La bisnonna, Clelia, si era trasferita lì nel Trentasei, quando Borgo Pio era stato sventrato per far spazio a via della Conciliazione. Poi la casa era stata di nonna Maria e infine di sua madre. Quando il portierato era stato abolito, per fortuna l’appartamento era rimasto a loro.

    «Ciao mamma!».

    «Ciao Anita». La madre alza per un attimo gli occhi dalla macchina da cucire.

    Giovanna, centimetro al collo, è circondata da stoffe coloratissime ed è intenta a cucire un bolerino di paillettes.

    «Ancora per quella tipa strana?», le chiede Anita lasciando in camera giacca e anfibi.

    «Sì… vieni un po’ qui! Provalo un attimo…».

    «Mammaaaa, sono stanca… e poi non ho le sue misure… Ma’…», la chiama non trovandola in soggiorno, «dove sei?»

    «Ti sto preparando un caffè!», risponde Giovanna dalla cucina.

    «Mamma non lo voglio il caffè! È tardi, poi non dormo!».

    Giovanna guarda Anita con finta accondiscendenza: il caffè lo preparerà lo stesso. Intanto le fa indossare il bolerino color amaranto e glielo aggiusta addosso.

    Che giornata!, pensa Anita mentre si presta a fare da modella. Dal Colosseo a piazza di Spagna a piedi con quell’odiosa bandierina in mano e poi….

    «Come è andata oggi?», chiede la madre curiosa, interrompendo i suoi pensieri.

    «Russi!», risponde Anita. «Domani vi porto a fare shopping, domani shopping!, lo avrò ripetuto cento volte… Ma niente da fare. Hanno un olfatto sviluppatissimo per le boutique di lusso, meglio dei cani da tartufo! Anzi, partono dalla Russia con la lista dei negozi già in tasca. Pensa che quando siamo arrivati a piazza di Spagna sono spariti un po’ alla volta. A Trinità dei Monti eravamo rimasti in quattro, io, una coppia e un signore anziano».

    «Ma non è che esageri con questi poveri turisti?», le chiede Giovanna mentre osserva seria come cade il giromanica per poi tempestarlo di spilli. «Ti ricordi quando abbiamo fatto quel bel giro di prova, poco prima che cominciassi a lavorare? Quante cose mi hai spiegato… ma a un certo punto non ne potevo più neanche io…».

    «Mamma, non è colpa mia se pretendono di visitare tutta Roma in tre giorni!», le risponde Anita un po’ piccata.

    A volte il suo lavoro non è proprio come l’aveva immaginato. La passione per la Città Eterna invece è rimasta immutata sin da quando, bambina, zia Marisa la portava in giro per i vicoli del centro storico. Zia Marisa, la sorella di sua madre, aveva sposato un tedesco e si era trasferita ad Amburgo, ma non rinunciava mai, quando tornava, a ripercorrere le strade della città che l’aveva vista giovane. E per Anita, che la accompagnava in quelle camminate, il suo arrivo era sempre una festa.

    «Adesso basta, dài… ho proprio bisogno di una doccia», sbotta per la stanchezza, sfilando il bolerino con un gesto scontroso.

    Quella che esce dalla doccia è una nuova Anita, finalmente rilassata. Dall’asciugamano annodato in testa a mo’ di turbante fa capolino un ricciolo impertinente. «Ma dove diavolo è finito l’accappatoio? Mammaaa… dov’è il mio accappatoio?», grida affacciandosi alla porta del bagno. Sulla parete di fronte spicca un post-it su cui è scritto filo rosso, il che significa: ho terminato il filo rosso e sono andata a comprarlo da Erminia.

    «Accidenti… devo proprio andare a vivere da sola…», commenta Anita ad alta voce, saltellando nuda e gocciolante verso la sua camera. È da parecchio tempo che ci sta pensando, ma sa bene che per ora è impossibile. I soldi scarseggiano e pure il coraggio di lasciare Giovanna da sola. «Ma dove l’ha messo…». Inciampa negli anfibi e li spinge sotto il letto. Continua ancora a cercare finché trova l’accappatoio perfettamente piegato sulla sedia, coperto in parte dalla sua giacca. È fresco di bucato. Lo annusa, lo infila con piacere. Dopo essersi asciugata, le mani scivolano leggere sul suo corpo, stendono una profumatissima crema al muschio bianco, indugiano sulle caviglie. Davanti allo specchio dà un’occhiata al fondoschiena, giusto per controllare che non abbia deciso di scendere ai piani bassi, poi apre il cassetto delle meraviglie. Anita ha una vera passione per i completi intimi, ne ha di tutti i tipi, di tutti i colori, per tutte le occasioni. Il dilemma è sempre lo stesso: quale mettere? Quello rosso, mutandine alla brasiliana con i fiocchetti e push-up, che ha indossato come portafortuna per il colloquio di lavoro? Quello bianco, reggiseno a balconcino e coulotte a pois in trasparenza, che la fa sentire ancora ragazzina? Oppure l’ultimo acquisto, elegantissimo, lucido, color carne, che le calza come una seconda pelle? A quello non è proprio riuscita a resistere. Li accarezza, osservandoli, come se da quella scelta dipendesse l’umore della serata. Poi afferra quello bianco: ha voglia di leggerezza. E si butta sul letto.

    Ora sì che può rincorrere i propri pensieri in santa pace, e i suoi pensieri hanno nome e cognome: Mizuki Murakami. Si volta sul fianco, abbraccia il cuscino e accende il computer che rimanda ad alto volume del rock giapponese. «Avrebbe dovuto già chiamare», dice tra sé, poi allontana quel pensiero poco piacevole. Sta guardando il soffitto quando viene raggiunta dal pungente odore di caffè bruciato. «Mammaaa… Noo…», sussurra sconsolata.

    Non ha per niente voglia di alzarsi, Anita, eppure corre in cucina. La caffettiera fischia e ribolle, almeno metà del contenuto è già sparso sul piano di cottura. Saltella scalza, spegne il gas, va al lavandino e afferra una spugnetta. Un’occhiata alla finestra e: «Cavolo, sono mezza nuda! Pulirà lei quando torna», borbotta. «Ci manca solo che mi metta in vetrina!». Rientra in camera, si butta sul letto e per l’ennesima volta dà una sbirciatina all’orologio: segna le diciannove e due minuti. Ma dove diavolo ti sei cacciato? Magari sei ancora fra le nuvole…. Afferra una ciocca di capelli umidi e comincia ad arrotolarsela intorno a un dito.

    Capitolo 2

    Appuntamento alla Piramide Cestia

    Anita era davanti alla Piramide Cestia, la prima volta in cui lo aveva visto. La sera precedente, quando l’agenzia le aveva chiesto se era disponibile per una visita guidata a un gruppo di giapponesi della Toyota, aveva ripassato in fretta e furia la storia di quel monumento, così poco frequentato dalla maggior parte dei turisti. Davanti al poliedro rivestito in marmo di Carrara, avrebbe raccontato del ricco tizio – cioè Caio Cestio – che aveva preteso di essere seppellito in una piramide per essere ricordato come i grandi faraoni d’Egitto. E avrebbe aggiunto, divertita, che il testamento conteneva una furbata: la piramide doveva essere costruita dai suoi eredi in 330 giorni, pena la perdita dell’eredità. E tanto ci misero!

    Quando aveva visto sopraggiungere quell’uomo elegante dagli occhi a mandorla, si era stupita: il completo grigio da manager stonava non poco con la voluminosa macchina fotografica degna di un paparazzo a caccia di scoop. E quando il tipo, dopo essersi guardato attorno, aveva puntato dritto verso di lei, Anita aveva pensato che fosse il primo del gruppo, che di lì a qualche minuto sarebbe stato al completo. Sbagliato! Mizuki Murakami era l’unico. Aveva prenotato una visita privata, un tête-à-tête archeologico…

    Basta con questo rock giapponese!. Anita si alza e, dopo aver tolto l’audio al computer, si piazza davanti allo specchio guardandosi con occhio critico. Mi vesto? Sempre che chiami… E sempre che io abbia ancora voglia di uscire….

    Non le era mai capitato di fare da guida a una sola persona. Passato il primo momento di imbarazzo, lui aveva accennato un piccolo, elegante inchino e si erano presentati. Ma in un attimo Anita aveva dimenticato il suo nome. Quindi aveva cominciato a raccontare le manie di grandezza di Caio Cestio. E mentre lui l’ascoltava con attenzione, senza incrociare altri sguardi, lei non aveva fatto che chiedersi quanto gli dovesse essere costata quella visita.

    Prima di iniziare gli aveva chiesto se preferiva l’inglese. «No, usi pure l’italiano, faccio esercizio», aveva risposto accennando un lieve sorriso.

    Ad Anita non erano sfuggite le sue labbra piene, dai contorni ben disegnati, leggermente in rilievo. E quei suoi capelli neri e lisci, un po’ lunghi, pettinati all’indietro, che lasciavano scoperta una fronte alta. Gli ricordava qualcuno, ma era troppo distratta dal suo fascino per capire chi.

    «Anitaaa… sono tornata».

    La voce di Giovanna blocca la moviola. Rewind. Anita incassa istintivamente la testa fra le spalle, pronta a parare il colpo, e aspetta.

    «Oddio, Anita. Ma che hai combinato? Non ti sei accorta che il caffè stava uscendo?»

    «Sì mamma… ma troppo tardi. E anche tu, metti su la caffettiera e te la squagli?», grida Anita dalla sua stanza.

    «Ma si può sapere che hai in quella testa? Sempre la solita… tanto c’è mamma che pulisce!».

    Giovanna entra in camera con aria battagliera, ma un sorriso della figlia basta a farla intenerire.

    «Allora che fai, esci?»

    «Sì… Forse… te l’avevo detto, no?»

    «Torni tardi?»

    «Non lo so…».

    «Come sarebbe a dire non lo sai?»

    «Mamma, dài, ho ventotto anni!».

    «Ho capito, ho capito…», taglia corto Giovanna. «Adesso vado di là a sistemare quel macello. E comunque ti devo dire una cosa… Abbiamo una bella novità nel condominio… Prima…». Ma Anita la interrompe.

    «Domani, domani… adesso mi devo preparare per uscire…».

    Anita pensa spesso alla faccia che farebbe sua madre se scoprisse che da un anno e mezzo frequenta un giapponese di ben quarantadue anni, e che da un anno e quattro mesi ci va anche a letto… E a quella di Mizuki davanti al lotto della Garbatella, con i suoi draghi di pietra sul tetto, l’orto condominiale, il loro piccolo appartamento pieno di ninnoli.

    La visita alla Piramide Cestia era durata poco più di un’ora, compreso il tempo per le foto alla colonia di gatti ben pasciuti che si aggiravano attorno al basamento. Anita non sapeva cos’altro raccontare al signor Murakami, quando le era venuta un’idea. «Sulla piramide non c’è molto altro da dire. Però, se ha tempo, potremmo andare al Cimitero acattolico… è vicinissimo, proprio dietro le mura».

    «Acattolico… Cosa significa?»

    «Ci sono seppelliti molti personaggi, alcuni famosi, altri meno noti o addirittura sconosciuti, di altre religioni o di nessuna…».

    Mizuki aveva annuito e si erano avviati.

    Anita non ricordava quanto tempo fosse passato dall’ultima visita, di certo molto. Aveva quasi dimenticato la magia di quel posto, il senso di pace che le procurava. Quel cimitero non era triste, al contrario. L’ottobrata romana aveva preso il sopravvento sulle nuvole e ora lei e il signor Murakami si aggiravano fra le tombe illuminate da un sole caldo. Mentre Anita raccontava la storia del cimitero, lui, guardandosi intorno, pronunciava ad alta voce i nomi sulle lapidi: Shelley, Keats, Axel Munthe… Alla vista di quella di Antonio Gramsci aveva esclamato: «È la strada dove abito io!».

    Fotografava con interesse quasi maniacale tutti i gatti che incontravano. Il cimitero ne era pieno: accovacciati, distesi pancia all’aria, in bilico sulle sculture delle tombe, a prendere il sole a occhi socchiusi. Quando aveva scoperto la piccola lapide del Gatto Romeo, passato a miglior vita nel 2006, Mizuki non aveva saputo contenere il suo stupore. «Fantastico!».

    Dopo aver percorso in lungo e largo il cimitero semideserto, si erano seduti su una panchina. E allora Anita si era armata di coraggio e gli aveva chiesto perché fosse tanto attratto dai piccoli felini.

    «Da noi, a causa dei regolamenti condominiali, è impossibile tenere animali in casa. Ora hanno inventato… si dice così?». Al cenno di assenso di Anita, Mizuki aveva continuato: «Hanno inventato i Cat Café, dove si può bere qualcosa coccolando i gatti».

    «Vuol dire che… sono compresi nel servizio?».

    Mizuki, serio, aveva annuito.

    Anita aveva cercato di trattenersi, ma alla fine era scoppiata a ridere. Lui l’aveva guardata prima stupito, la bocca che cercava invano di reprimere il riso, poi alla fine aveva ceduto e le loro risate si erano fuse. Una ciocca di capelli gli era scivolata sulla fronte, e in quel momento Anita aveva capito a chi somigliava il bel giapponese: sembrava il fratello giovane di Ryuichi Sakamoto, il musicista. E aveva anche capito che la faccenda non sarebbe finita al Cimitero degli Inglesi, o degli Artisti, o dei Poeti, o di Testaccio, o in qualsiasi altro modo si volesse chiamarlo…

    Anita apre di colpo gli occhi e si ritrova abbracciata al cuscino. Fa fatica a ristabilire le coordinate. Dalla cucina arriva il regolare ticchettio della macchina da cucire e la stanza è ormai invasa dalla penombra, quando la suoneria del cellulare la fa sussultare. Balza a sedere e si mette a cercare fra le pieghe del copriletto. Lo trova, guarda il display, sorride.

    «Pronto?», cinguetta.

    «Ciao». Il tono di Mizuki al telefono è sempre formale.

    Si frequentano ormai da tanto tempo, eppure Anita non si è ancora abituata alla sua apparente freddezza.

    «Come è andato il viaggio?»

    «Solito lavoro, soliti problemi. Sono molto stanco…». Poi arriva la pausa. Mizuki è famoso per le sue pause… Anita aspetta, con il cuore che batte per la voglia pazza di vederlo. «…Hai da fare questa sera? Ti va di venire a cena da me?»

    «Certo che mi va! A che ora?»

    «Quando vuoi, direi il prima possibile, no? Sono già a casa».

    Allora il suo volo non era in ritardo. Le sembra quasi una cattiveria che lui non l’abbia chiamata appena atterrato.

    «Ti mando un taxi», le dice premuroso.

    «No, non serve… ho Isotta». Ad Anita non piace prendere il taxi, non sa mai cosa dire quando è lì dentro. Mizuki invece, che è sempre in viaggio per lavoro, non potrebbe vivere senza. Oggi qui, domani là, appuntamenti, pranzi di lavoro… cene di lavoro… Oddio, Evelyn!, pensa a un tratto Anita, con una punta di preoccupazione, chissà se si sono rivisti a Bruxelles. Evelyn è la misteriosa donna che lo ha quasi portato all’altare. Mizuki non le ha mai raccontato molto della loro storia. Quando ha provato ad approfondire l’argomento, lui, già così riservato, si è barricato come un samurai dietro la sua armatura. Ma lei ha intuito che deve aver sofferto tanto.

    «Va bene, come preferisci…». Anita aspetta con impazienza il resto della frase. Nel frattempo riempie il vuoto della pausa Mizuki immaginando ciò che vorrebbe sentirsi dire: mi sei mancata moltissimo, ti ho pensato tanto. «Però lo sai che non mi piace che prendi il motorino di sera». La frase di rito arriva puntuale.

    «E tu lo sai che sei irresistibile quando ti preoccupi per me?», ribatte ironica. «Arrivo al volo… anzi, no… sarò prudente, più lenta di una lumaca… a tra poco, dài. Bacio!». E attacca.

    Si prepara in fretta, afferrando i vestiti nell’armadio. Gonna lunga e nera, morbida maglia color malva dalla scollatura profonda, e per finire la giacca che ha scovato tra una montagna di abiti in un banco dell’usato a Porta Portese. L’effetto non è niente male, manca solo l’ultimo tocco. Foulard verde smeraldo bordato di pizzo, che contrasta con il rosso dei suoi capelli. «Ciao ma’, non mi aspettare», dice attraversando velocemente il corridoio.

    In mezzo al traffico romano, quasi si pente di aver rifiutato l’offerta di Mizuki. Se ne sarebbe potuta stare tranquillamente seduta sul sedile posteriore di un taxi, invece di inveire contro quelli che le tagliano la strada senza troppi complimenti. Ma è così contenta che nessun prepotente di turno riuscirebbe a farla innervosire. Un’occhiata all’orologio, un’accelerata, poi il parcheggio selvaggio sul marciapiede, appena il tempo per comprare una confezione di Beta Green Mochi con fagioli verdi, dolcetti di cui Mizuki è goloso. Il sofisticato negozio di gastronomia orientale sembra un tempio scintoista, e quei dolci

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