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Non dimenticarmi mai
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Non dimenticarmi mai

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Si sono promessi amicizia ma forse c’è qualcosa di più

Bestseller USA Today

Caroline & West Series

Una studentessa universitaria viene attaccata online e deve ricostruire la sua reputazione – e stare alla larga da un ragazzo che è sbagliato per lei, ma che le sembra perfetto. Quando l’ex fidanzato di Caroline Piasecki posta i loro scatti privati su internet, la reputazione della ragazza viene irrimediabilmente compromessa. All’improvviso il futuro, una volta tanto promettente, non sembra più così roseo. Caroline cerca di far sparire le foto, sperando che il tempo seppellisca la vergogna. Poi un ragazzo che conosce appena corre in suo aiuto e mette il suo ex al tappeto. West Leavitt è l’ultima persona di cui Caroline ha bisogno nella vita. Sanno tutti che è un tipo strano e misterioso. Ma Caroline è attratta dalla sua sicurezza, nonostante abbia promesso a suo padre di tenersi alla larga da lui. Di notte, quando non riesce a dormire, Caroline inizia ad avventurarsi nel locale dove West lavora. Si frequentano, parlano, si ascoltano. Anche se dicono di essere soltanto amici, i loro sentimenti si fanno sempre più intensi finché diventa impossibile continuare a fingere… Quando tutto sembra perduto, a volte ci si può rifugiare soltanto più a fondo.

Uno dei migliori libri dell’anno per il Library Journal
Bestseller USA Today

«La storia di Caroline e West è sensuale e commovente al tempo stesso: un’altalena di emozioni.»
USA Today

«La perfetta storia New Adult. West vi farà letteralmente impazzire!» 
Monica Murphy, autrice della serie One Week Girlfriend

«Questo libro è emozione, è sospiri, è un nodo allo stomaco che si scioglie poco alla volta, un nodo che ti fa battere il cuore, te lo fa sanguinare, te lo rompe per poi ricucirlo talmente tante volte che non sai più cosa pensare.»
Il rumore dei libri
Robin York
È cresciuta in un campus, è andata all’università, si è iscritta a ulteriori anni di università, e poi ha sposato un professore universitario. Non sa ancora bene come mai non le sia venuto prima in mente di scrivere narrativa New Adult. Con lo pseudonimo di Ruthie Knox è un’autrice bestseller di USA Today di rosa contemporanei, e finalista al premio RITA con About Last Night e Room at the Inn. Nel tempo libero fa anche la mamma, prepara fantastiche caramelle e risolve spinosi problemi di trama mentre corre, cammina o va in bici.
LanguageItaliano
Release dateJul 6, 2016
ISBN9788854196858
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    Book preview

    Non dimenticarmi mai - Robin York

    Prima

    A volte odio la ragazza che ero allora. È come quando guardi un film horror e non riesci a non provare disprezzo per la verginella che decide di farsi una bella passeggiata nei boschi dopo mezzanotte. Come può essere così stupida? Non lo sa che stanno per farla brutalmente a pezzettini?

    Dovrebbe saperlo. È per questo che quei film sono così difficili da vedere, perché vorresti che lei lo sapesse, che si difendesse. E invece, a causa della sua ignoranza, la guardi dall’alto in basso, anche se la colpa è ovviamente del tizio che la vuole squartare.

    Nel film, però, lui sembra una forza della natura inarrestabile e la verginella fa la figura della cretina che, prima di andarsene a saltellare allegramente nella notte, non controlla le previsioni del meteo per vedere se quella sera danno omicidi serali.

    Oggi, se qualcuno mi mandasse un sms con scritto soltanto: omg, non mi chiederei neanche se quello che sto per scoprire sia brutto o bello. Il mio primo pensiero sarebbe soltanto capire quanto è brutto e quanto tempo ci metterò a strisciare fuori dal buco in cui sto per cadere. Ma nell’agosto del mio secondo anno al Putnam College, non avevo di queste preoccupazioni. Avevo pensato che forse Bridget, la mia migliore amica nonché compagna di stanza, si fosse distratta prima di finire il suo flusso di pensieri.

    Dopo essermi asciugata i capelli con un asciugamano, mi ero alzata e lo avevo lanciato cercando di fare canestro nel cesto della biancheria che tenevo dentro l’armadio. Fuori. Il tempo di raccoglierlo e metterlo dove doveva andare e un altro messaggio era apparso sul mio cellulare, questa volta seguito da un link.

    Devi vederlo, diceva.

    E poi, subito dopo: Mi dispiace tanto.

    Aprii il link.

    Penso che una parte di me sapesse già cosa avrebbe trovato. Perché essere una brava ragazza significa passare tutta la vita a crearti un radar ad altissima precisione per rilevare tutte quelle cose che potrebbero portare gli altri a volerti meno bene.

    Le ragazze come me, o perlomeno le ragazze come la me dell’agosto scorso, si alimentano di approvazione. È quello che ci tiene in vita. Quindi, quando facciamo qualcosa di cretino – o, per esempio, quando facciamo qualcosa di colossalmente, profondamente stupido – lo sentiamo.

    L’immagine di me a seno scoperto e con il pene di Nate in bocca era comparsa sullo schermo.

    L’avevo guardata e avevo fatto un profondo respiro, chiudendo gli occhi.

    L’avevo sentita davvero: la solida terra che rappresentava la mia vita si era appena aperta sotto i miei piedi.

    A dirlo così sembra una scena esagerata, lo so, ma non saprei proprio come altro descriverla. Un attimo prima ero ben salda – una diciannovenne con il pallino per la politica, ottimi voti a scuola e tutte le carte in regola per entrare a giurisprudenza e fare il botto – e un attimo dopo i piedi non facevano più presa sul pavimento. Mi ero afflosciata sulla scrivania. D’improvviso mi mancava l’aria.

    Lo shock non ci aveva messo niente a essere assorbito e in un attimo aveva preso una scorciatoia e si era propagato dai miei occhi a un’area del cervello dove, il secondo in cui Nate aveva scattato quelle foto, si era creata una silenziosa lista di conseguenze.

    Ti vedranno, ti derideranno e ti odieranno tutti.

    Non entrerai mai a Giurisprudenza.

    Non prenderai mai una borsa di studio per studiare a Oxford.

    Non diventerai mai una giudice e non verrai mai eletta per esercitare le tue funzioni.

    Questo cambia tutto.

    Guardare quelle foto mi distrusse. Immediatamente. Perché lo sapevo.

    La sera in cui avevo preso Nate in bocca e lui aveva sollevato il suo iPhone in aria e l’aveva puntato sulla mia testa, il mio radar da brava ragazza funzionava alla perfezione. Brutta idea, mi aveva detto. Gran brutta idea. Ma io l’avevo ignorato, perché Nate era di cattivo umore e se avessi continuato gli sarebbe di certo passato.

    Di lui ti fidi, mi ero detta. Non lo farebbe mai.

    Ma l’ha fatto. Deve averlo fatto. Sul sito ero identificata come Caroline Piasecki di Putnam, Iowa, e Nate era l’unica persona ad avere quelle foto. Quindi o le aveva messe lui on-line, o le aveva date a qualcuno che l’aveva fatto.

    Ce n’erano due in cui sorridevo. In una ero in macchina e stavo facendo una duck face e gliel’avevo mandata per fare la scema. Nell’altra indossavo il mio reggiseno leopardato preferito e le mutandine e me l’ero fatta allo specchio nella mia cameretta del liceo, tirando in dentro la pancia e in fuori il petto perché volevo sembrare sexy. Volevo sembrare molto sexy per lui.

    E poi c’erano le altre, quelle più sporche. Quelle che non riuscivo quasi a guardare.

    Erano tre.

    In fondo c’era di nuovo la mia faccia, con una nuvoletta tipo fumetto che diceva: Mi chiamo Caroline Piasecki! Sono una cagna frigida che ha bisogno di essere scopata!!!

    Non riuscivo a piangere.

    Non riuscivo a respirare.

    Non riuscivo proprio a crederci.

    Sulla pagina c’erano quattrocentosessantadue commenti.

    Quattro. Cento. Sessanta. Due.

    Se mi avessero chiesto cosa provavo nei confronti di Nate anche solo dieci minuti prima, avrei risposto: «Be’, non c’è rancore tra di noi». Dopo tre anni insieme, ci eravamo semplicemente allontanati. Credo che il colpo di grazia fosse stato il college. Già dopo il primo anno avevo iniziato a pensare che forse non avevamo poi così tante cose in comune. Al liceo non ero mai uscita con nessuno finché non me l’aveva chiesto lui… come un fiorellino che sboccia tardi, aveva detto mio padre. Nate era carino, popolare, intelligente. Essere notate da un ragazzo così è lusinghiero. Ma al Putnam mi era sembrato che tra noi due mancasse qualcosa. Maggiore chimica. Una connessione più profonda.

    Avevo deciso di chiudere con lui prima di rientrare dalle vacanze. Davanti a una pizza e una bibita gassata, avevo tentato di spiegargli i miei motivi senza ferirlo. Mi era sembrato di avercela fatta. Alla fine della cena era di nuovo sorridente e ben disposto.

    Avrei risposto che era un bravo ragazzo. Che eravamo ancora amici.

    Quindi, anche se non ero proprio sorpresa, in qualche modo lo ero. Avevo giocato secondo le regole, avevo lavorato sodo per prendere bei voti, mi ero messa con un bravo ragazzo e l’avevo fatto aspettare un bel po’ prima di fare sesso con lui. Non doveva andare così. Non mi sarei mai aspettata che la persona con cui ero andata al ballo studentesco, il mio primo – primo – ragazzo avrebbe usato internet per darmi della puttana lecca-sborra che vuole farsi venire in faccia, o che avrebbe messo il nome del mio college sotto la foto del pompino.

    Perché onestamente, chi si aspetta una cosa del genere?

    Ero sprofondata nella sedia da ufficio e avevo fatto scorrere la prima schermata di commenti. Poi un’altra, e un’altra. Schermata dopo schermata.

    Ha delle belle tette.

    Me la farei.

    Grz x la pugnetta Carolina, 6 una troiona!

    Che brutta maiala. Fammi vedere la figa!

    E ogni parola che leggevo – ogni schifoso commento che un qualche disgustoso omuncolo faceva su di me dal suo lurido scantinato – dicevo a me stessa: È tutta colpa mia.

    Colpa mia, colpa mia, colpa mia.

    Non avrei mai dovuto lasciargli fare quelle foto. Lo sapevo. Lo sapevo quando le aveva fatte, lo sapevo dopo e lo sapevo anche quando ci eravamo lasciati e avevo avuto quell’urgente impulso passeggero di pregarlo di farmi cancellare tutte le mie foto dal suo cellulare. Un impulso che avevo sedato perché non volevo offenderlo.

    Non volevo essere scortese.

    Ero rimasta un bel po’ di tempo seduta a scorrere il pollice sul cellulare e a leggere i commenti, asciugandomi le lacrime con il dorso della mano libera. Più che respirare, ansimavo, e più che pensare, ero impanicata e fin troppo disorientata per farmi venire in mente un piano coerente.

    A ripensarci ero già in lutto per la fine di qualcosa che non sapevo neanche fosse finita. La mia giovinezza, forse. Il lato positivo e perfetto della mia vita.

    E non l’avevo capito fino in fondo finché Bridget non mi aveva scritto un altro sms: Tt a posto? Avevo pensato a lei che tornava in stanza dopo aver visto le foto. A lei che sapeva tutto, e a me che avrei dovuto affrontarla.

    Avevo pensato che Bridget non era l’unica. Adesso lo sapevano tutti.

    E in quel momento avevo capito che niente sarebbe più stato a posto per me.

    Settembre

    Caroline

    Due settimane e mezzo dopo che le foto sono finite su internet, ho ancora tutto sotto controllo. Almeno finché non esco dalla lezione di Latino e vado a finire contro il gomito di West Leavitt.

    Cammino spedita e a testa bassa, tutta concentrata sulle imminenti elezioni per il sindacato degli studenti. Prima pensavo di candidarmi come rappresentante di dormitorio, ma adesso non mi sembra proprio il caso. La ragazza che invece si è candidata… non voglio essere troppo dura; diciamo che non è la mia prima scelta.

    Io sono la mia prima scelta.

    I miei piedi varcano la soglia e mi conducono a destra, lontano dalla maggior parte degli studenti. Di solito andavo a sinistra ma Nate ha Macroeconomia nell’aula accanto alla mia e non ho alcuna voglia di vederlo. Adesso quindi vado sempre a destra, allungo passando da fuori, rientro e mi dirigo verso la mensa per ora di pranzo.

    Oggi, però, la strada non è libera: il corridoio è stipato di persone in fermento. Avendo la testa bassa, me ne rendo conto soltanto quando vado a sbattere contro la schiena di qualcuno. L’impatto fa volare a terra la borsa che tengo in mano. Chiedo scusa e mi abbasso per prenderla, notando la grande quantità di gambe presenti. Comincio a chiedermi cosa stia succedendo, ma prima di poterlo scoprire mi rialzo e vengo colpita in pieno sul naso.

    Lì per lì non capisco neanche di essere stata colpita da un corpo, figuriamoci sapere a chi appartiene. L’unica cosa di cui sono certa è che davanti a me ci sono molti movimenti convulsi e che il ponte del mio naso è finito nella traiettoria di un oggetto non meglio identificato e particolarmente spietato.

    Fa male.

    Madonna santa se fa male.

    Contraggo il volto proteggendomi il naso con le mani, abbasso la testa e mi piego per il dolore. Gli occhi si riempiono di lacrime. Un liquido caldo mi cola sul labbro. Tiro fuori la lingua per leccarlo prima ancora di capire che, "bleah, sangue", sto sanguinando. In un secondo mi copre tutta la bocca e mi scalda il mento, ma non è importante perché il naso continua a scoppiarmi.

    Non ero mai stata colpita in faccia prima d’ora.

    È dannatamente atroce.

    Sono sicura che sanguinarmi sulle mani non sia la soluzione migliore, ma continuo a tenere le dita premute contro il naso come se avessero il potere di fare… qualcosa. Ovviamente non serve a niente. Batto le palpebre, confusa, e mi guardo intorno per capire che cosa mi abbia colpita e perché mi odi così tanto. A giudicare dalla condizione in cui versa il mio naso, mi aspetto di vedere un muro di mattoni o forse un mostro con le mani di calcestruzzo.

    Invece mi trovo davanti grossi corpi maschili che si spintonano e grugniscono. Tra loro e le altre persone c’è uno spazio vuoto, ma io l’ho violato e forse è per questo che mi hanno presa dritta in mezzo agli occhi. Da qui, però, vedo il pugno partire. Non lo vedo arrivare. L’uomo a cui è diretto mi dà le spalle, in piedi tra me e il colpo, ma il suono secco delle ossa contro la pelle mi fa rivoltare lo stomaco.

    Il tipo cade a terra proprio davanti a me. L’altro gli si avventa sopra, con il respiro affannato, e si mette a cavalcioni su di lui. È piegato in avanti e riesco soltanto a vedergli la parte superiore della testa. Sembra pronto a sferrare un altro colpo e spero vivamente che non lo faccia, perché è tutto fin troppo primitivo e violento per i miei gusti.

    Poi, dal nulla, un rumore spaventoso – un suono acuto, stridulo e trafelato – riempie il corridoio e il tipo che sta sopra alza la testa e mi guarda.

    Oddio. L’ho fatto io quel rumore. Quell’urlo ansimante era mio, e adesso non riesco più a respirare perché il tipo che sta sopra è West e la faccia che ha preso a pugni è quella di Nate.

    West spalanca gli occhi: «Cristo, Caroline, ti ho colpita?».

    Si alza, si avvicina e mi porge la mano. È come se si fosse completamente dimenticato del pestaggio di Nate, spostando tutta l’attenzione su di me. Quello sguardo, quel braccio teso… mi ricordano la prima volta che West mi aveva toccato, più di un anno prima, e ho un attimo di déjà-vu. Le ginocchia cedono, cosa che mi irrita non poco. In questo momento il mio corpo è il nemico, con le sue giunture incompetenti, quel suono che la gola ha deciso di fare da sola, il naso che continua a perdere e il dolore martellante alla faccia.

    Per non parlare del cuore, che ha deciso di sfuggirmi dal petto scagliandosi a tutta forza contro le costole.

    West adagia la sua mano, ferma e risoluta, sulla mia vita, ed è stupido. Il mio corpo è stupido. Perché è favoloso sentire quella mano su di me.

    Mi sembra evidente che io abbia una commozione cerebrale. Forse è stato West a colpirmi, di sicuro ha colpito Nate, che…

    Merda.

    Nate è spalmato sul pavimento, il sangue gli sgorga dalla bocca.

    Ma c’è di peggio. Non riesco a concentrarmi più di tanto su di lui perché l’altra mano di West si è appoggiata per un attimo sulla mia spalla e adesso mi sta sollevando il mento. Il sangue gli fa scivolare le dita. Sto sanguinando su di lui. E mi piace.

    Con lui è sempre così. Mi ha toccato soltanto un’altra volta prima d’ora, ma è uno di quei momenti che una donna non dimentica facilmente.

    Santo cielo, questa cosa non va bene, non va bene per niente, e la mia salute non è neanche il problema principale. Tanto per cominciare, non mi piacciono quelli che picchiano le altre persone. Non mi piacciono i ragazzi e basta in questo momento. E anche se mi piacessero, non mi piacerebbe certo West, perché West è sinonimo di guai, e io sono allergica ai guai.

    «Stai sanguinando», dice lui.

    «Mi hai colpita»

    «Fammi vedere».

    Mi afferra il polso e io lascio che tiri via la mano dal naso, perché da West Leavitt mi lascerei fare praticamente di tutto. Potrebbe benissimo essere una specie di creatura magica. Cioè, non lo è. So che non lo è. È uno studente di vent’anni laureando in Biologia iscritto al secondo anno del Putnam College. Riordina i libri della biblioteca, nei week-end lavora come cameriere al Gilded Pear – l’unico ristorante di lusso a Putnam – e fa il turno di notte al panificio della città. Se a tutto questo si aggiungono un paio di fonti di reddito losche e informali e le lezioni, West è di sicuro la persona più impegnata che conosca.

    È alto – un metro e ottanta, forse un po’ di più – e ha una massa disordinata di capelli castani, gli occhi verde-azzurro chiaro e una gran bella abbronzatura.

    Insomma, è un ragazzo che frequenta la mia stessa scuola. Tutto qui.

    Ma ovviamente non è tutto qui.

    La sua faccia… avete presente quando dicono che gli esseri umani siano più attratti dai volti simmetrici? Ebbene, la faccia di West è leggermente fuori asse in ogni modo possibile e immaginabile. Una delle sopracciglia si piega all’insù e l’altra è divisa da una sottile cicatrice bianca. Il colore degli occhi non è un vero e proprio colore, e poi sono costellati di macchioline che a volte sembrano brillare e non riesco a capire come sia possibile. Ha la bocca più grande del normale, così ogni volta che sorride o accenna un sorriso o pensa, anche solo vagamente, di sorridere, sembra un saputello arrogante. Si deve essere rotto il naso almeno una volta – o più di una – perché non è esattamente dove dovrebbe essere, è spostato un pelino a sinistra. E se posso essere onesta, ha le orecchie troppo piccole.

    Quando mi guarda dritto negli occhi, riesco a malapena a formulare le parole.

    Quindi rimango in piedi mentre il sangue continua a sgorgare e lui mi controlla il naso.

    «Non l’ho perso, vero?», domando. Peccato che esca fuori tipo: Dod l’ho berso, bero?

    «No, mi sa che ti ho dato una gomitata. Però non è rotto».

    «Come fai a saperlo?»

    «Sanguinerebbe molto di più».

    Scorre un dito sul ponte.

    Non fa più male.

    Quando un gemito sale dal pavimento e West distoglie l’attenzione dalla mia faccia, il naso ricomincia a esplodermi e mi ricordo chi è che si sta lamentando e perché.

    Il labbro di Nate è spaccato. La maglietta gli si è bagnata tutta di cremisi sul davanti. Quando sputa rivela dei denti rosa.

    Denti rosa. La cosa mi fa riprendere un po’.

    Quello è Nate, penso. West ha colpito Nate. Lui sta sanguinando. E tu… anche tu stai sanguinando.

    Il cervello continua a offrirmi queste dichiarazioni, una dopo l’altra, come se prima o poi dovessi trovare una storia per metterle tutte insieme. La parte della mia mente incaricata di analizzare ed elaborare i dati, però, è offline.

    Il sangue mi cola dal mento. Seguo il suo tragitto e vedo che è atterrato sulla punta rovinata dello stivale di West.

    «Mi serve un fazzoletto», dico.

    Krishna, un amico di West, lo prende per il braccio e dice: «Te ne devi andare da qui».

    Krishna è alto, ha la pelle e i capelli scuri e un viso spaventosamente bello. Di solito è talmente rilassato da rasentare il comatoso, e il suo tono urgente è come una zaffata di ammoniaca sotto il naso.

    Gli studenti al margine della folla si sono girati verso il corridoio, dove sta succedendo qualcosa. Arriva qualcuno.

    West Leavitt ha dato un pugno in faccia a Nate.

    Sto sanguinando.

    Mi sta toccando, e non riesco a pensare.

    «Prenditi cura di lei». West parla a Krishna, ma è me che guarda quando lo dice con un’espressione dispiaciuta.

    Lui gli dà un una piccola spinta. «Va bene, adesso però vai».

    West si gira, mi guarda ancora una volta, e poi si mette a correre per il corridoio. Krishna raccoglie la mia borsa da terra – non mi ero nemmeno accorta di averla fatta cadere un’altra volta – e mi mette un braccio intorno alle spalle. «Dài, andiamo a prendere un fazzoletto».

    «Secondo te Nate sta bene?»

    «Secondo me Nate è uno stronzo», dice Krishna. «Ma respira ancora. Non puoi camminare più in fretta?».

    Faccio del mio meglio. Andiamo a finire in un bagno delle donne al secondo piano, Krishna tiene la porta aperta con il peso del suo corpo mentre io mi premo un ruvido fazzoletto di carta marrone sul naso e mi esamino allo specchio.

    Sembro uscita da un film splatter. Ho la faccia piena di sangue e perfino le punte dei miei lunghi capelli castani ne sono intrise. Sulle mani ormai si è rappreso e il bordo un tempo bianco delle maniche della mia camicia che spunta da sotto al maglione è tutto color cremisi.

    È quello che ti meritavi, no? Puttana.

    Mi viene un conato di vomito, un sobbalzo improvviso allo stomaco che mi costringe a chiudere gli occhi e a fare un bel respiro profondo.

    Guardo Krishna, ma ovviamente non è stato lui a dirlo.

    Sono stati loro. Gli uomini.

    Mi seguono dappertutto. Le loro voci. Le loro disgustose opinioni, ormai una raffica interminabile di commenti negativi che fanno da radiocronaca alla mia vita.

    Me la farei comunque, dicono quando apro il rubinetto. Me la scoperei finché non riesce più a camminare, quella cagna. Non me ne frega niente della sua faccia spaccata.

    Infilo le dita sotto al flusso d’acqua calda e aspetto che diventi calda.

    «Tutto bene?», chiede Krishna.

    Non sembra a proprio agio. Ci conosciamo, ma non siamo veri e propri amici. È più in confidenza con Bridget, la mia compagna di stanza, che con me. Stavamo tutti nello stesso dormitorio l’anno scorso, la stanza di West e Krishna era in fondo al corridoio.

    Krishna mi piace, ma non è il tipo di ragazzo su cui farei mai affidamento. A dire il vero è una specie di gigolò, e uno scansafatiche. Non credo proprio che starmi a guardare mentre sanguino sia in cima alla sua lista delle cose da fare oggi.

    In via del tutto sperimentale, tolgo il fazzoletto da sotto il naso. A quanto pare il sangue non esce più. «Sto bene. Non devi rimanere per forza».

    «Non è un problema, però devo incontrarmi con una persona. Ma se vuoi…».

    «Vai pure».

    Preferirei stare da sola. Mi tremano le mani e le ginocchia sembrano ancora inaffidabili.

    «Dirò a West niente danno, niente affanno, ok?»

    «Come?»

    «Gli dirò che non ti sei fatta male».

    Ma mi sono fatta male. Dentro di me, nella cassa toracica, nascosta da qualche parte giù dietro ai polmoni, c’è una ferita aperta, un pezzo di carne squarciato che non vuole saperne di richiudersi. E non smette mai di farmi male. Il mio nasino delicato e il lieve pulsare nella testa non sono niente in confronto a quel dolore.

    «Digli quello che vuoi».

    Sembra ancora a disagio, ma mi risponde con un: «Ci si becca in giro». Quando lo dico anch’io, se ne va.

    La porta si chiude con un leggero tonfo.

    Mi appoggio all’erogatore di fazzoletti e ascolto il suono dell’acqua che scorre, facendo profondi respiri.

    Dentro. Fuori.

    Dentro. Fuori.

    All’ottavo respiro riesco a scacciare la maggior parte della paura e a sopprimere il dolore. Ho avuto un paio di settimane per allenarmi. Sto diventando brava a non sentire le cose.

    Il trucco è tenersi sempre impegnati. Porsi degli obiettivi e spuntarli dalla lista uno dopo l’altro. Non posso passare la giornata a respirare in un bagno. Devo andare a pranzo, perché ho un casino di roba da studiare prima di vedere gli altri alle tre per il progetto di gruppo. Devo controllare la mail: ho sentito il cellulare vibrare durante Latino, e so già che troverò un bel gruppetto di link freschi freschi nella mia dose quotidiana di Google Alert. Ho un po’ di tempo prima dell’incontro.

    Questa è la mia vita adesso. C’è sempre qualcosa da fare.

    Prima ero una studentessa modello. Stampavo il programma della giornata assegnando un colore alle varie lezioni e dedicandogli precise sessioni di studio con tanto di etichette e sfumature abbinate. Facevo tre buchi ai piani di studio di ogni materia e per ognuno creavo un raccoglitore con divisori personalizzati.

    Ora riverso tutta la mia diligenza nella creazione di fogli elettronici per seguire i progressi che faccio nell’eliminazione delle mie foto porno da internet. Mi segno l’url, il sito host, la data e l’ora in cui sono state postate. Sono diventata un’esperta nella ricerca inversa delle immagini e ho sviluppato delle abilità da paura per rintracciare i dati personali dei gestori di siti web e bombardarli di messaggi simil-legali finché non rimuovono tutte le mie foto dai loro server.

    L’unico modo per avere la meglio in questo terribile gioco al quale non voglio neanche partecipare è passare moltissimo tempo on-line a guardare cose che non avrei mai voluto vedere. So più cose io sui siti pornografici peer-to-peer che il membro medio di una confraternita. Ho visto talmente tanti peni eretti e con le vene turgide da averne abbastanza per almeno undici vite. Quando mi stendo e chiudo gli occhi, la testa mi regala una selezione del Miglior porno della giornata e riesco a sentire le accuse che gli uomini mi sputano addosso dagli squallidi recessi della rete in cui si nascondono.

    Sei solo una troia mangia-cazzi.

    Ti terrò ferma e mi ti scoperò le tette. Vediamo quanto ti sentirai figa, dopo.

    So bene cosa pensano di me perché non se lo tengono certo per loro. A volte non riesco a dormire, e allora esco di soppiatto dalla stanza che condivido con Bridget e guido senza meta per Putnam.

    Sento quegli uomini perché non posso fare altrimenti.

    Guido nel cuore della notte perché non so cos’altro fare.

    Ma non devo lasciarmi andare. All’inizio l’avevo pensato, quando avevo visto le foto. Avevo pensato che la vita così come la conoscevo era finita, e che non potevo farci nulla.

    Mi sbagliavo. Posso scegliere. E ho scelto di non lasciarmi andare. Ogni mattina, a prescindere da quanto abbia dormito, a prescindere se sia riuscita ad arrivare a fine giornata senza piangere o sia crollata nella doccia dove nessuno può sentire i miei singhiozzi, il sole sorge e io faccio la mia scelta.

    Oggi non sarà il giorno in cui cedo.

    Butto quel disgustoso fazzoletto tutto stropicciato e insanguinato e mi sciacquo la faccia, asciugandola con uno pulito. Il maglione è una causa persa. Me lo sfilo e lo lancio nel cestino. Tanto non era costato tanto, e stava cominciando a sfilacciarsi.

    Metto la manica della camicia sotto il rubinetto e cerco di ricordarmi se si deve usare l’acqua fredda o quella calda per togliere il sangue. Sbaglio sempre. Dovrei cercarlo sul cellulare. Dovrei…

    …capire perché West ha dato un pugno a Nate.

    Sì. Dovrei fare anche quello.

    Sempre che già non lo sappia. E spero di no. Dio, spero proprio di no.

    Devo affrontare questa situazione come una faccenda qualsiasi da gestire. Perché è solo questo: un problema da risolvere. E io sono in grado di risolvere qualsiasi problema se mi ci metto di impegno.

    Possono ridere di me quanto vogliono, e riempirmi la testa del loro veleno. Possono guardarmi nuda, farsi le seghe e caricare le foto dei loro peni ricoperti di sperma stretti nel pugno, e il mio corpo negli schermi sullo sfondo.

    Possono anche dire: Non riesco a farne a meno, Caroline. È colpa tua se sei troppo figa, cazzo!

    Sono già stati capaci di fare tutto ciò. Quando vado in giro per il campus in pantaloncini corti, riescono a farmi sentire una sgualdrina e una stupida che se la cerca.

    Ma non lascerò che mi distruggano.

    Stiro talmente tanto le maniche da riuscire a strizzarle e poi rinfilo le mani nei buchi. Dopo dovrò cambiarmi la camicia. Per il momento, questo è il massimo che posso fare. Burrocacao. Spazzolata.

    Passo dopo passo, ora dopo ora, giorno dopo giorno, finché le cose non migliorano.

    Se continuo ad andare avanti, sono sicura che prima o poi miglioreranno.

    Attraverso il campus stringendomi tra le braccia e faccio scorrere lo sguardo sul cielo azzurro, sugli allegri fiori rossi, sugli studenti che vanno da tutte le parti, da soli o in gruppo, determinati come formiche.

    Prima ero così entusiasta di essere tornata al Putnam. Adoravo il complesso del college, con i suoi palazzi di mattone rosso e il porticato esterno che collegava i dormitori cingendo una distesa di prato verde. Adoravo le lezioni che seguivo e la sfida che rappresentava frequentare un college dove non ero la più intelligente. A differenza dei liceali, qui nessuno mi rendeva la vita difficile se mi impegnavo troppo nello studio o se stavo ore a parlare come una nerd dell’opinionista politica Rachel Maddow. In fondo, quasi tutti gli studenti di questa scuola avevano un pizzico di nerd in loro.

    Ma nelle ultime settimane, mi hanno rovinato anche il Putnam. Forse per sempre.

    Il fatto è che Nate non si era limitato a mettere on-line quelle foto. Aveva inoltrato un link anonimo a un gruppetto di amici in comune tramite il sito su cui le aveva postate. Quel link era stato fatto girare, e quando avevo costretto Bridget a dirmi se le era mai arrivato, aveva ammesso di averlo ricevuto sull’e-mail del college ben sette volte. Sette. Ci sono solo quattordicimila studenti al Putnam: trecentocinquanta nel nostro anno. Non oso immaginare quante volte sia circolato tra chi non è mio amico.

    Il post originale di Nate non c’è più, ma le foto continuano ad apparire su siti diversi, e in alcuni vengono ancora nominati il mio college, la mia città natale, me.

    Adesso quando cammino per Putnam, guardo ogni ragazzo che incrocio e penso: E tu? Mi hai vista nuda? Ti sei salvato le foto sul cellulare? Lo tiri fuori e ti ci fai una sega?

    Mi odi anche tu?

    Stando così le cose, non è certo facile emozionarsi all’idea di ballare con qualcuno in una festa o di fare il tifo durante una partita di football americano.

    Il cellulare mi vibra nella tasca di dietro. È Bridget che mi chiede se vado a pranzo.

    Le scrivo: Sì. Tu?

    Sì! Latino?

    Finito da 5 min.

    Ok. Sentito di West?

    Non so come rispondere, quindi scrivo: + o –.

    Risponde con un: Oh cielo, svengo.

    A Bridget piace pensare che io e West stiamo portando avanti un’appassionante tresca segreta.

    A me piace pensare che siamo due perfetti sconosciuti.

    La verità è a metà strada.

    La prima volta che avevo incontrato West era il giorno di insediamento delle matricole, e faceva caldo. Un caldo dell’Iowa, il che significa temperature sui trentacinque gradi e umidità al novantotto per cento. La miglior cosa da fare in quelle condizioni è stravaccarsi sul divano a casa di qualcuno con l’aria condizionata e guardare la tv mangiando ovetti di cioccolata ricoperti di crema. Oppure, se proprio devi uscire, cercare dell’ombra e un gelato. Non per forza in quell’ordine.

    Io, invece, stavo portando tutti i miei beni terreni dalla macchina di mio padre su su per quattro piani fino alla stanza che avrei condiviso con Bridget. A quanto pare, ho un sacco di beni. L’ultimo viaggio in salita mi aveva fatto venire le vertigini, e mio padre mi aveva costretta a piantare il mio sedere sugli scalini vicino all’ingresso del dormitorio e a saltare la prossima scalata.

    In quel preciso istante, quindi, lui stava salendo, Bridget non era ancora arrivata e Nate si stava trasferendo nella sua camera dall’altra parte del campus. Ero da sola… sudata, sporca, paonazza e bollente. Se non sbaglio mi stavo lagnando mentalmente per i muscoli della coscia stanchi e la mancanza di scimmiette ammaestrate che facessero il trasloco al posto mio quando era arrivata la macchina più brutta che io avessi mai visto.

    Aveva lo stesso colore delle fognature, era ammaccata e arrugginita, e la portiera del lato passeggero era tenuta su da un po’ di nastro isolante. Sotto il mio sguardo esterrefatto, aveva superato un parcheggio libero ed era salita al rallentatore prima sul marciapiede e poi sul prato del college perfettamente falciato, fino a fermarsi davanti ai miei piedi avvolti in un paio di sneakers.

    Mi ero guardata intorno in cerca del rappresentante di dormitorio, mentre il radar da brava ragazza suonava all’impazzata. C’erano segni di pneumatico sull’erba! La macchina stava mollando nuvolette nocive di gas di scarico dall’aspetto oleoso! Questa situazione non poteva certo essere tollerata!

    Ma del rappresentante nemmeno l’ombra.

    La portiera del lato guidatore si era aperta e un ragazzo era uscito dalla macchina.

    In un attimo, mi ero dimenticata perfino come mi chiamavo.

    Fermi tutti, c’è da dire che forse mi ero alzata troppo velocemente. Faceva davvero caldo, e a colazione mi ero presa solo una crostatina perché ero troppo emozionata per mangiare le uova e pancetta che mio padre

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