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Sicilia segreta e misteriosa
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Sicilia segreta e misteriosa

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Vicende enigmatiche, favole popolari e cronaca contemporanea di un’isola controversa

La Sicilia è un’isola ammantata dal velo fitto dei misteri, da quelli dell’antichità agli altri, di genere completamente diverso, d’epoca moderna. L’autore, con il suo sperimentato stile di narratore, ci conduce in un viaggio tra antichi e moderni segreti. Affronta il problema delle popolazioni antiche, dai Siculi agli Elimi: chi erano? Da dove provenivano? Quando il mito si confonde con la storia? L’itinerario di Salvatore Spoto, tra episodi storici che sembrano favole e favole che la voce di popolo ha sempre spacciato per verità storiche, affronta le vicende degli “ecisti”, i fondatori delle città siciliane. Il narratore continua ad accompagnare il lettore nell’atmosfera mistica della Sicilia araba, normanna, sveva e dell’epoca dei Viceré. Particolare attenzione, poi, è rivolta a personaggi legati alla tradizione popolare. Li esamina, raccontandone episodi e momenti di vita quotidiana. Ci sono quelli delle grandi città, come Billonia, e altri di piccoli centri, come padre Celestino. Ma Spoto non dimentica il suo passato di cronista e affronta casi di morti misteriose, di abusi giudiziari, descrive personaggi legati alla mafia e le sue vittime, da Petrosino a Falcone e Borsellino.

Un viaggio tra miti, misteri e drammi di un’isola incantata

Amore e sangue a Sciacca
Monte Kronio, il dilemma di uno scheletro tra i vapori
Gli strani frati di Mazzarino: mafiosi o innocenti?
Il “caso Majorana”: dubbi su un’illustre scomparsa
De Mauro e Mattei, due scomparsi, un solo enigma
Barcellona: chi ha ucciso il giornalista Beppe Alfano?
Caronia: fuochi misteriosi e teorie scientifico-esoteriche
Bernardo Provenzano, una vita da latitante
L’inquietante presenza di maestosi coccodrilli
Donnafugata, magia della storia, mistero del nome
Archia e la sanguinaria fondazione di Siracusa
La Sibilla di Lilibeo e il mistero del suo pozzo
I troiani in Sicilia: Anchise e l’invenzione dello sport

e molte altre storie curiose, delittuose, oscure…
Salvatore Spoto
Giornalista professionista e scrittore, ha ottenuto molti riconoscimenti per la sua attività di divulgatore e narratore. Tra i suoi libri ricordiamo: I Gattopardi, Storia e magia delle carte da gioco; Ostia Antica. Miti e misteri; Roma porta d’Oriente e I Baccanali. Con la Newton Compton ha pubblicato: Roma esoterica; Miti, riti, magia e misteri della Sicilia; Sicilia antica; Sicilia normanna; Sicilia templare e Sicilia segreta e misteriosa.
LanguageItaliano
Release dateJun 24, 2016
ISBN9788854196650
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    Sicilia segreta e misteriosa - Salvatore Spoto

    Agrigento

    Aragona: dalle macalube al mistero di Pangea

    Ad Aragona, ridente e industrioso centro in provincia d’Agrigento, fondato, nel 1606, da Beatrice d’Aragona, madre del conte Baldassare Naselli di Comiso, non c’è solo aria pulita e natura incontaminata, l’attrattiva di un insolito fenomeno tellurico, quello delle macalube, talvolta giudicato miracoloso, altre volte diabolico.

    Sono piccole bocche vulcaniche, alte da poco meno di cinquanta centimetri a circa due metri, che eruttano bolle di gas metano. Il termine risale agli arabi che le chiamarono maqlub, vale a dire impressionanti, forse perché intimoriti dallo spettacolo notturno offerto dal fenomeno eruttivo.

    I coni, eruttando gas metano, prendono fuoco molto facilmente offrendo allo sbalordito visitatore lo spettacolo infernale di alte fiamme danzanti. Opera del Diavolo? La gente assicura che non è così. Qui Belzebù, almeno per loro, non ha mai potuto allignare. Inutile, poi, fare il raffronto tra questo curioso e avvincente fenomeno vulcanico e quello delle salinelle di Paternò, legato prima alla memoria della dea hyblaia e ai laghetti mefitici tra Mineo e Palagonia, sacri ai Fratelli Palici. Secondo gli scienziati, infatti, questi fenomeni non hanno la stessa origine.

    I fanghi eruttati ad Aragona sono freddi. Ricordano quelli delle salse di Sassuolo, in Emilia. Gli scienziati classificano queste emissioni gassose, spesso miste ad anidride carbonica, come manifestazioni paravulcaniche. Le salinelle di Paternò sono tutt’altra cosa: l’idrogeno solforato contenuto nell’acqua che zampilla dal sottosuolo si spande nell’aria evocando quell’atmosfera infernale che ispirava i sacerdoti della dea hyblaia e facendo poi immaginare che quella zona fosse popolata da diavoli.

    Non è l’unica zona dell’Agrigentino a offrire la forte sensazione di trovarsi davanti ai grandi misteri della Terra. Nel territorio di Palazzo Adriano e della valle del Sosio, le reliquie della natura prima della formazione del mar Mediterraneo squarciano il velo di mistero che ha sempre circondato la nascita della Sicilia e la formazione dei continenti nella notte dei tempi.

    Qui resistono al tempo i fossili più antichi e unici di Sicilia: risalgono all’epoca del Permiano, vale a dire 200 milioni di anni fa, quando i vulcani in continua eruzione, dall’Italia al Nord Europa, contribuirono alla formazione della Pangea, unico continente terrestre.

    Di questa lontanissima era restano le rocce calcaree con il ricordo di spugne, briozoi, brachiopodi, ammoniti, trilobiti e ostracodi, tutti rare testimonianze della fauna marina che popolava l’oceano Tetide, progenitore del Mediterraneo attuale, che bagnava il continente della Pangea prima della formazione degli attuali continenti.

    Sant’Angelo Muxaro: Dedalo, fantastico mito o storica realtà?

    Dedalo è esistito davvero? La domanda è fuori luogo, almeno in apparenza. Pare di sentire certe considerazioni: «Che c’entra Dedalo con la Sicilia? Forse non vantiamo tanti altri personaggi che fanno della Trinacria, l’isola dei mysti, come son detti i devoti di culti misterici, e dei misteri?». Eppure il grande architetto ha avuto molto a che spartire con la Sicilia. Rappresenterà sempre, anzi, la chiave di volta per comprendere molti misteri della storia, a cominciare da quello riguardante la simbologia del toro. Le radici affondano in Oriente, ma finisce per attecchire in Sicilia. Da questa, prima spicca il volo per raggiungere le lontane terre degli Etruschi, poi, tocca anche le fredde terre nordiche.

    E poi il simbolismo taurino non è da poco conto per una società in via di sviluppo: rappresenta la forza fecondante, il concetto dell’abbondanza e del successo. Cerchiamo di capirne di più sull’avventura siciliana di Dedalo. Dedalo, eclettico antesignano degli ingegneri, è personaggio chiave per comprendere non solo il passato della Sicilia, ma anche il significato storico e sociale della sua funzione nell’antica civiltà del Mediterraneo. Quest’uomo è il depositario di una nuova cultura, quella micenea, che si innesta nello stile di vita di un’isola ormai meta di popoli in cerca di pace e benessere. Qui ci sono già i Sicani e i Siculi, anche loro giunti da lontano. Più tardi arriveranno i Troiani, o meglio gli Elimi, come saranno ribattezzati. Questa è la giusta lente per interpretare il mito di Dedalo in Sicilia. Arriva su quest’isola ricorrendo a un sistema di viaggio inusuale: volando, grazie alle ali, fabbricate con piume d’uccello, tenute insieme con cera d’api. È reduce dalle forti e, per molti versi, traumatiche esperienze fatte a Creta. Sono gli anni di re Minosse, del mostro Minotauro, e del labirinto, il grande edificio che lo ospitava. L’intricata planimetria di questo, con il ghirigoro di corridoi e vicoletti, un Dedalo di strade, come ancora si dirà in futuro per indicare un luogo del quale è difficile trovare l’uscita, esprime un significato più profondo di quel che può rivelare il mito dell’uomo-toro, il Minotauro, qui residente, che semina la morte ed è ucciso da Teseo, grazie al filo di Arianna.

    Dedalo introduce in Sicilia, e in Occidente, appunto il concetto di labirinto, inteso come continua ricerca di libertà ed elevazione spirituale da parte degli uomini. Questo principio, espresso attraverso le spirali, graficamente riprodotte su vasi e muri, ben presto si diffonderà nella penisola italiana. L’inventore del labirinto porta, come si è prima accennato, anche un altro simbolo tipicamente orientale. È quello del toro che, con la sua forza, esprime il senso della fecondità e del benessere.

    Il mito, dunque, dell’arrivo di Dedalo in Sicilia, secondo gli studiosi, è rivelatore dei rapporti tra siciliani e micenei negli anni compresi tra il XVI ed il XIII secolo a.C.

    Dedalo non ha inventato le ali per diletto. Il sentirsi minacciato, e dunque la necessità di fuggire, gli ha aguzzato l’ingegno. Neppure la permanenza sull’isola, almeno all’inizio, è tranquilla. Il grande architetto greco sa di essere inseguito e quasi braccato da re Minosse. Proviamo, dunque, a rivisitare gli antefatti di questa vicenda.

    Lo scienziato cretese giunge in Sicilia dopo la rocambolesca fuga da Creta, seguita alla morte del Minotauro, mostro per metà toro e per l’altra metà uomo, ucciso da Teseo. Questi, poi, sedurrà la dolce Arianna, figlia del re Minosse, abbandonandola in riva al mare al momento di imbarcarsi sulla nave che dovrà riportarlo ad Atene.

    Minosse, signore di Creta, dunque, ha molti buoni motivi per essere adirato con Dedalo. Si è sentito tradito da lui, fidato architetto. È stato, infatti, lui a suggerire ad Arianna il trucco del filo per evitare che Teseo si perdesse tra i meandri del labirinto. Non solo, la morte del Minotauro ha significato per Minosse la fine del forte potere di pressione da lui esercitato su Atene. Teseo, infatti, è arrivato a Creta da Atene con la nave che trasporta i giovani destinati, secondo il trattato di pace tra Atene e Creta, al pasto del Minotauro. Questo mostro è stato frutto dell’innaturale rapporto amoroso tra Pasifae, moglie di Minosse, e un toro bianco. Dedalo, accondiscendendo alla bramosia della moglie di Minosse, ha progettato e realizzato una vacca di legno. Pasifae vi è entrata, spinta da innaturale libidine a ingannare il toro. Minosse, dunque, giudica Dedalo responsabile di quelle vecchie contrarietà. E per questo la pazienza del re di Creta è saltata.

    Ha ordinato di imprigionare Dedalo e suo figlio Icaro nel labirinto rimasto vuoto. Ma l’architetto, con uno sforzo di inventiva, ha realizzato con le piume degli uccelli le ali negate dagli dèi agli uomini.

    Così è arrivato l’ultimo atto della vicenda, almeno nel territorio di Creta, quello del volo, insieme a Icaro, abbandonando Creta e lo spettro dell’inevitabile prigione, dura e senza sconti di pena.

    Quel che è accaduto durante quel trasferimento è ben risaputo: Icaro, reso particolarmente euforico dall’ebbrezza del volo al punto di voler raggiungere il sole, precipita in mare. L’eccessivo calore ha, infatti, sciolto la cera che incollava le piume.

    Dedalo, pur addolorato dalla tragica fine del figlio, continua l’impresa, certo che la buona riuscita gli assicurerà la salvezza.

    Finalmente avvista una montagna fumante, l’Etna. Poco più in là c’è la distesa di colline verdeggianti che si staglia nell’entroterra. Esausto ma felice di avercela fatta, riesce a toccare terra. Adesso è opportuno che la storia diventi cronaca, per rivivere e approfondire la funzione avuta da Dedalo nell’importazione di miti e riti orientali in Sicilia.

    L’atterraggio avviene in una zona identificata da storici e archeologi come Sant’Angelo Muxaro. È qui che, da poco tempo, si è insediato il popolo dei Sicani guidati da re Kocalo. Anche loro sono immigrati per cercare pace e prosperità.

    L’arrivo di Dedalo, che si fa subito riconoscere per quel che è, vale a dire l’architetto apprezzato in tutto il mondo, è provvidenziale, Questa gente ha, infatti, bisogno di costruire una città con funzioni di centro politico e religioso per la loro comunità.

    Il nome già c’è, Kamicos. Anche il luogo è stato individuato: una collina facilmente fortificabile.

    È necessario, tuttavia, un progetto, sintesi grafica del disegno urbanistico e architettonico del futuro centro. Solo Dedalo può risolvere questo problema. Lui, in verità, non si fa pregare. E poi quel luogo è ameno e la compagnia gli sembra molto piacevole. Non è, infatti, solo il re Kocalo a stimarlo. Ci sono anche le sue figlie, giovani e graziose. Una, in particolare, sembra gradire le sempre più tenere attenzioni di Dedalo.

    Banale pettegolezzo? Macché! ha un significato molto serio per i riflessi che comporta sulla società siciliana. Questo rapporto, ai fini del significato antropologico del mito, è di fondamentale importanza. Si traduce, infatti, nella forza generatrice del sentimento che, in questo caso, diventa l’elemento d’unificazione tra i Siculi, popolo proveniente dalla penisola italica, e Dedalo, di astrazione orientale. La tradizione non dice, pur lasciandolo intuire, se il destino dell’inventore del volo umano sarà quello di fare da marito alla bella figlia di Kocalo, di certo c’è che proprio la figlia (o le figlie, come vuole una variante di questo mito) di Kocalo è decisiva per mettere in salvo l’intraprendente Dedalo.

    Minosse, infatti, non vuol darsi per vinto. Quell’ingegnoso bellimbusto che ha aiutato sua moglie, la lussuriosa Pasifae, a cornificarlo niente di meno che con un toro, regalandogli per figliastro un mostro, qual è stato il Minotauro, senza contare quel pasticcio della sua morte già in precedenza ricordato, a suo dire merita un’esemplare punizione. Ha deciso, dunque, di andarlo a scovare ovunque egli si nasconda.

    Il re di Creta ordina di armare una flotta di robuste navi per affrontare i mari e capienti per trasportare il maggior numero possibile di uomini armati. Minosse, infatti, non trascura l’eventualità di doversi misurare con guerrieri decisi a impedirgli di catturare Dedalo.

    Logico dedurre che tutto questo accade prima della guerra di Troia, vale a dire intorno al XIII secolo a.C. Omero, infatti, nel «Catalogo delle navi» riportato nell’Odissea, accenna agli armati provenienti da cento città cretesi che formano l’esercito di Idomeneo, nipote di Minosse.

    L’analisi della cronologia archeologica esula, comunque, dal tema di questo libro.

    Per inciso, è giusto ricordare che, secondo la tradizione, Kocalo ha regnato intorno al 2000 a.C., e che le tombe scavate nella roccia, individuate nella zona di Sant’Angelo Muxaro, sono anteriori al X secolo a.C. Continuiamo a rivivere quell’epopea.

    Le navi dei cretesi attraccano nel tratto di costa siciliana affacciata sul Mar d’Africa. Il luogo è di grande malìa. L’impressione che Minosse e i suoi gregari hanno è di trovarsi davanti a una grande muraglia calcarea bianca che si staglia contro il cielo azzurro, specchiandosi nel mare color cobalto. Un fiume, quello che sarà chiamato Salso, lambisce la roccia, assicurando fertilità alla pianura che si estende alle spalle della costa. Minosse decide di fermarsi. Rileva l’esigenza di edificare una città, battezzata heraclea in onore di Eracle, con la successiva aggiunta di Minoa in onore di Minosse quando, come si dirà tra poco, lui morirà. Il nuovo insediamento urbano viene realizzato nella parte più alta della rupe a strapiombo sul mare.

    Questa sistemazione è resa necessaria per garantire la sicurezza del presidio che vi si installa; e poi la spedizione per la cattura di Dedalo in questa terra sconosciuta non si presenta per nulla facile. Il nuovo centro sarà imprendibile, fortificato com’è. Con quel punto d’appoggio, sarà più semplice per Minosse e gli uomini della sua guardia andare alla ricerca del suo ex architetto di fiducia.

    Non tarda molto a individuare il luogo dove questi può trovarsi. Gli è bastato dirigersi verso l’entroterra, per scoprire un’altra città in costruzione, che si staglia nel paesaggio collinare dell’entroterra. E chi, se non un grande architetto, qual è appunto Dedalo, può avere intuizioni così brillanti come quelle che ha notato, da lontano? «Mura realizzate a regola d’arte ed edifici dall’inconfondibile stile miceneo possono essere solo frutto della fervida mente di Dedalo», è il commento del re di Creta.

    Minosse manda in avanscoperta una squadra formata dai suoi più valenti esploratori. Vuole una conferma al sospetto. Quelli tornano sconsolati. Lui non demorde. Minosse, certo com’è che Dedalo si nasconde proprio lì, insiste per avere la conferma del sospetto. Ordina agli uomini: «Lo voglio con ogni mezzo». Tutto inutile.

    Così decide di agire in prima persona. Comunica ai cortigiani che si recherà personalmente nella città dove regna il re Kocalo per sincerarsi che Dedalo non sia lì. In caso contrario, pensa il re di Creta, farà di tutto per cavarlo fuori, come si suol fare con il ragno rintanato in un buco. E conclude: «Dovrà pagare una lunga sequela di malefatte».

    L’accoglienza di Kocalo è trionfale, degna non solo del rango ma anche del lignaggio di Minosse. La sua storia è così famosa d’avere varcato anche il mare. Kocalo e la sua gente la conoscono bene.

    L’incontro tra Kocalo e Minosse, a questo punto, esce dallo schema formale dell’accoglienza di un re straniero per rivestire un’aura di sacralità. Minosse è di origine divina. Suo padre è uno che tutto può e niente gli può essere negato. Non solo. La figura di Minosse non è solo storica ma anche simbolica. La sua visita in Sicilia rappresenta la perpetuazione dell’atto di coloro che, per generarlo, stabilirono un ponte ideale tra l’Oriente e il vecchio Continente. Egli, infatti, è figlio di Zeus, generato dal divino rapporto tra questi ed Europa. Chi non conosce la rocambolesca ma tanto indicativa storia di quell’unione? Ancora una volta c’è di mezzo un toro. Zeus, infatti, sotto le mentite spoglie di un candido maschio adulto dei bovini, si era presentato sulla spiaggia di Tiro, nella Fenicia, dove, intenta a giocare, c’era la giovane Europa, figlia di Agenore, re di Tiro, e di Telefassa. Alla vista di quell’animale grande e grosso, la giovanetta era rimasta turbata e intimorita. Ma il placido comportamento del subdolo Zeus, che così dimostrava il suo divino, perfido ingegno, era stato tranquillizzante.

    Europa si era avvicinata, e lui l’aveva fissata con occhi così dolci e malinconici da indurre l’animo della fanciulla alla tenerezza. Lei si era sentita tanto tranquilla da farsi venire la voglia di accarezzarlo. Lui aveva abbassato il capo, come in segno di sottomissione, quando aveva sentito quella delicata mano che gli accarezzava la testa tra le corna. Tanto era bastato per rassicurarla.

    Europa aveva insistito nelle carezze. Alla fine quel fiero animale sembrava essersi inginocchiato davanti alla fanciulla, mostrando una insolita inclinazione all’ubbidienza, almeno per un toro. Europa, invogliata da quell’atto di sottomissione, gli era balzata in groppa sicura che non le sarebbe capitato nulla di male.

    Accadde, invece, quel che né Europa né altri potevano sospettare: quando la fanciulla si era seduta sulla groppa, quel toro, alzatosi di scatto, si era diretto scalpitando verso il mare. E mentre la giovane gli si aggrappava al collo con tutta la forza che poteva avere nelle braccia, il candido toro l’aveva trascinata tra i flutti. L’avevano visto nuotare tanto veloce da dare l’impressione di essere un delfino. In breve tempo era giunto a Creta. L’alcova della loro prima notte d’amore era stata l’antica città di Gortina, nelle vicinanze (guarda caso!) di una fonte circondata da alberi. L’acqua, nel simbolismo mediterraneo, ha sempre avuto la valenza di potere fecondante. Gli alberi dei platani, essendo stati testimoni di quel sacro rapporto amoroso, furono compensati con il privilegio di non perdere mai le foglie. Dalla divina relazione nacquero tre figli: radamanto, Sarpedonte e, appunto, Minosse.

    Fatta questa premessa, è ovvio che Kocalo non può esimersi da un trattamento improntato a grande solennità formale unito al massimo rispetto per l’ospite. Minosse, compiaciuto, osserva l’ambiente circostante. E pensa a Dedalo.

    Il suo architetto ne ha davvero fatte troppe e troppo grosse a lui che non è solo figlio ma anche consigliere di Zeus, come l’Odissea ci farà sapere.

    «No, non posso tollerare oltre», par di sentire mormorare al re di Creta.

    E intanto si guarda intorno, convincendosi che la prima intuizione, quella della mano di Dedalo, è quella giusta. La nuova città è ancora un grande cantiere, ma la mano dell’artista, anzi dell’urbanista, si rivela nei dettagli, eleganti e funzionali, che la distinguono da tutte le altre. «Quali finezze architettoniche sto ammirando!», mormora tra sé Minosse, «spero che questa città non superi in maestosità la capitale del mio regno. Questa, quanto a bellezza architettonica, non ha mai temuto confronti». Ma è costretto a riflettere sulle somiglianze tra la città che sta nascendo e quella che lui ha lasciato. Sono troppe. Sembra, anzi, che certe espressioni siano frutti della stessa mente, realizzate da una mano uguale a quella che ha operato nella capitale di Creta.

    «Dedalo!», esclama il re, ormai certo che il sospetto è fondato. «Tutto questo è frutto della sua genialità!». La conclusione è scontata: l’architetto suo nemico è certamente qui, nascosto chissà dove, ma è qui. E lui non vuol lasciarselo sfuggire. C’è solo il problema, non semplice, di acciuffarlo. Conosce i costumi dei popoli di stirpe siciliana e sa bene che l’ospite è sacro e inviolabile. Minosse tuttavia non demorde. Prova, anzi, a chiedere a Kocalo se non abbia incontrato un tipo strano, con lo sguardo stralunato, chiamato Dedalo, e che non lascia mai riga e squadra, strumenti essenziali per la sua creatività.

    Il re di Kamicos trasale: «Mai visto un uomo come quello che tu hai descritto! Noi siamo gente semplice, facciamo tutto in economia affidandoci solo alla perizia dei nostri esperti». Minosse si aspetta quella risposta, ma inghiotte male lo stesso. Questa spedizione gli è costata molto in termini d’impegno e non vuol tornare senza risultati nella sua Creta, dove Pasifae sogna ancora il suo bel toro amante e piange per la tragica morte del figlio, il Minotauro.

    «Uno stratagemma, ci vuole una mossa astuta», continua a ripetere Minosse mentre discute con i consiglieri la tecnica migliore per mettere nel sacco l’architetto. «Ecco, ho avuto un lampo di genio!», annuncia, «è stato lui stesso a farmelo venire! Passerò all’azione in occasione del conviviale organizzato, in mio onore, da re Kocalo!». Il re di Creta è certo che, facendo forza sul potere del denaro, può vincere la partita.

    Quando il conviviale è al culmine, e viene servita la carne saporita, affogata dai commensali nel vino che scorre, come fiume, dai crateri alle coppe e da queste nelle loro bocche, Minosse chiede al re di far tacere i suonatori di flauto: sta, infatti, per fare un annuncio di grande interesse per chi brama divertirsi e ancor più diventare ricco.

    Inizia, quindi, a parlare: «Badate bene!», esordisce. «Immaginate di osservare una conchiglia: siete capaci di far passare un filo attraverso la sua spirale?». Nella sala cala il silenzio, interrotto solo da qualche brusio. C’è chi si sforza di trovare una soluzione anche se in collaborazione con altri. Il parlottare diventa ancora più fitto dopo che Minosse ha ripreso la parola per annunciare: «L’indovinello è divertente, ma può anche essere foriero di grandi guadagni. Offrirò molte borse d’oro e di oggetti preziosi a chi sarà in grado di risolverlo».

    Minosse, per la verità, non inventa nulla di suo. A insegnargli quell’indovinello, la cui funzione è di offrirgli un’occasione per ingannare l’ozio, è stato lo stesso Dedalo. Il re di Creta, tuttavia, punta sul grande desiderio di guadagno dell’architetto dal fervido ingegno.

    Questo indovinello, a suo avviso, può fargli commettere un passo falso: rivelare la sua presenza a Kamicos. Vi è di più. Minosse, che conosce bene le umane debolezze nei confronti di ciò che è prezioso, puntava molto sulla circostanza che Kocalo oppure qualcuno dei suoi consiglieri avrebbero fatto di tutto per mettere le mani su quel tesoro che lui prometteva a chi avesse dato la giusta risposta all’indovinello. «Chissà che qualcuno, pur di diventare ricco, non si decida a smascherare quel ribaldo di Dedalo!», dice tra sé l’astuto Minosse.

    Non sbaglia. Kocalo, dopo il pranzo, lo ha raggiunto nelle stanze segrete del palazzo dove è stato trasferito all’arrivo di Minosse. «Conosci la soluzione di quest’indovinello?», chiede all’architetto di Creta, presentandogli la storiella della conchiglia. Dedalo, com’è facile immaginare, si lascia scappare una sonora risata: «vuoi dirmi, gran re di Kamicos, che Minosse ha deliziato la vostra cena con questo indovinello?». E il re, stupito: «Come hai fatto a capire che mi è stato proposto da lui?». Dedalo gli risponde a tono: «È una mia invenzione. Ti spiego come risolverlo». No, non è cosa semplice: Dedalo spiega a Kocalo che, per prima cosa, è necessario trovare una formica. «Per fare che?», quello obietta. «vedrai!», mormora l’architetto, mentre spinge l’animaletto, al quale ha legato un filo di cotone, sulla spirale della conchiglia. Kocalo, più che mai stupito, può seguire la formica, mentre percorre le scanalature della spirale. E così scopre il sistema per rispondere perfettamente al quesito. «hai visto?», esclama Dedalo.

    «Puoi ora portare la conchiglia a Minosse per incassare il premio. Lui lo ha sicuramente promesso a chi sarebbe riuscito a trovare la giusta soluzione all’indovinello».

    Dedalo intuisce che Kocalo, riscuotendo il premio, fornirà, anche se involontariamente, a Minosse la prova della sua presenza in Sicilia. Tuttavia non ne teme le conseguenze. Minosse, benché figlio di Zeus, è comunque un mortale. Come tale, finirà nell’Oltretomba. Quando? «Forse prima del previsto», può essere stata la sibillina risposta di una delle figlie del re di Kamicos.

    La vicenda della spedizione di Minosse in Sicilia si avvia alla conclusione. Il re cretese, dopo avere pagato il compenso a Kocalo, sicuro di essere ormai sul punto di acciuffare Dedalo, chiede al padrone di casa di fare un bagno caldo. «Sei il nostro ospite d’onore», risponde Kocalo, «e dunque ti verranno concessi i privilegi dovuti al gran re, figlio del sommo Zeus». Ed è così che dà ordine alle figlie di preparare la vasca, con l’acqua calda e le essenze profumate necessarie per dare vigore all’illustre ospite.

    Poco dopo, urla di dolore soffocate tra il fumo e l’acre aroma di oli bruciati annunciano la triste fine di Minosse, ustionato dall’acqua caldissima che le figlie di Kocalo gli hanno versato sul corpo.

    Il re di Creta è seppellito nella vicina città di heraclea, da lui fondata subito dopo il suo arrivo in Sicilia. Il rito funebre è certamente quello tradizionale seguito a Creta. Minosse viene seppellito in una grande tomba con la camera funebre e altre più piccole per depositarvi oggetti votivi in onore del re. Il sepolcro resterà lì per molti secoli e ancora in epoca classica, a detta delle fonti storiche, c’è chi riconoscerà nel grande tholos, in prossimità di Eraclea Minoa, la sepoltura dello sfortunato re Minosse.

    I suoi uomini faranno ritorno a Creta senza Dedalo. Il grande architetto, progettista del labirinto, resta in Sicilia, portatore di aspetti esoterici e mistici orientali destinati a lasciare il segno nei culti e nei riti delle popolazioni non solo siciliane. La tradizione gli attribuisce molte e spettacolari opere. Sarebbe stato lui a scoprire i getti di caldissimo vapore nelle cavità del monte Kronio, nelle vicinanze di Sciacca. Avendo, poi, notato il beneficio che quei vapori davano, e continuano a dare, al corpo, decise di realizzare qui una serie di cunicoli che potessero incanalarli.

    A Dedalo, insomma, i Siciliani hanno sempre riconosciuto il grande merito di avere realizzato il primo vero impianto termale del quale si ha storicamente notizia, mettendo a disposizione del popolo il benefico vapore strappato dal ventre della terra. Il costruttore del labirinto, sempre secondo la tradizione, ha lasciato il segno della sua magica arte creativa anche a Erice. Sarebbe stato lui, infatti, a progettare i lavori per il grande tempio di Afrodite Ericina, luogo di culto dove venivano celebrati i riti della prostituzione sacra alla quale è dedicato uno dei prossimi capitoli.

    Malta e la Sicilia: il più antico mercato comune

    C’è mistero e mistero, ma quelli dell’antichità meritano di essere analizzati e svelati perché molto spesso rivelano l’embrione della società. E allora, vogliamo capire come sono arrivate e che funzioni avevano le particolari pietre siciliane trovate nei templi preistorici di Malta?

    Esigenze industriali e artigianali per la razionalizzazione del mercato al fine di renderlo più competitivo: possono sembrare espressioni dell’epoca dell’elettronica, dell’economia di massa e della cosiddetta globalizzazione. Non è così. Tuffiamoci nel passato per scoprire gli embrioni del futuro, che è il nostro presente.

    Già nel III millennio a.C., tra la Sicilia, soprattutto la fascia costiera di Agrigento, e Malta vige un tacito accordo del tipo: «Noi produciamo materiali grezzi, come la lana, che vi vendiamo. Voi, come corrispettivo, ci fornite capi d’abbigliamento confezionati».

    L’organizzazione della produzione e della vendita rappresentava, dunque, il motivo dominante della società dell’epoca che, dal Neolitico, quando la pietra è un elemento essenziale nel contesto di un’economia fondata sull’agricoltura e la pastorizia, arriva all’Età del Bronzo, quando il metallo diventa protagonista, dopo la parentesi iniziale dell’Età del rame. Rivivere questo periodo è fonte di grande sorprese, aiuta a togliere la coltre del mito a un’epoca storica, trasportando le forme sociali sul terreno della storia.

    Questa sorta di scambio commerciale che, per molti versi, ha anche caratteri culturali, non è certo una grande novità: siciliani e maltesi del tempo hanno già esempi cui riferirsi. Nella stessa epoca, infatti, gli abitanti dell’Anatolia esportano oro e argento in Mesopotamia. In cambio importano tessuti, la cui tecnica di fabbricazione non è ancora sviluppata in Anatolia. La scoperta delle tavolette scritte a Ebla permetterà di ricostruire aspetti sociali e rapporti commerciali. Nella città siriana, il commercio con l’estero è molto fiorente. L’esempio di Ebla serve a spiegare il dinamismo delle genti, nel III millennio a.C.: nel Mediterraneo antico, dunque, popoli diversi si incontrano e scontrano, spostandosi continuamente. Eloquente è l’esempio offerto dalla epopea dei Popoli del Mare, dei quali i Siculi saranno un’espressione.

    Nel 3000 a.C., il commercio della lana è fiorente. C’è un grande numero di allevamenti ovini. Le capre danno latte e le pecore la lana. Questa diventa rapidamente un bene di primaria importanza. La lana, infatti, serve a confezionare caldi capi d’abbigliamento.

    In Sicilia, tuttavia, in questi tempi non c’è chi sa filare e cardare la lana per trasformarla in capi d’abito. Eppure il progresso procede a passi da gigante e questo permette di intuire l’opportunità di delegarne la manifattura agli abitanti del vicino arcipelago di Malta. Perché non farlo? I maltesi si spingono fin sulle coste siciliane, o viceversa. Loro hanno tradizioni fortemente permeate dagli influssi orientali. Credono alla Grande Madre, signora del creato, e le innalzano maestosi templi per ingraziarsela. E poi questa gente veste con una raffinatezza ancora sconosciuta ai cittadini siciliani. Finiscono con il convincersi che è consigliabile consegnare loro il materiale grezzo, vale a dire la lana appena tagliata dalle pecore per ottenerne in cambio abiti confezionati e pronti da indossare. Il prezzo di vendita della materia prima? Il corrispettivo per il prodotto finito? La moneta è ancora lontana da venire, trionfa il baratto. Sicuramente i Maltesi utilizzano un po’ di quella lana per i loro abiti, tutta quella restante per i Siciliani. Questo è possibile perché Malta è un’isola davvero piccola, si estende per soli 32 chilometri. E poi, aspra e pietrosa com’è, è stata sempre scarsamente popolata.

    La più antica ceramica rinvenuta a Malta, poi, è certamente di provenienza siciliana. Lo dimostra lo stile, quello inconfondibile di Stentinello, anche se con qualche variazione nelle decorazioni, forse per adattarla al gusto e alle esigenze esoteriche. I disegni sui vasi hanno un significato, come si dirà, anche scaramantico. Così nelle terrecotte, a Malta, non ci sono i motivi a losanga tanto cari ai Siciliani e non risulta che siano utilizzate conchiglie del tipo cardium per ingentilire la manifattura dell’opera ceramica. Negli ultimi tempi del Neolitico, poi, sempre a proposito del punto di riferimento della ceramica, le usanze maltesi sono molto simili a quelle siciliane. Si evince dai vasi, realizzati secondo lo stesso modello, a profilo carenato e dello stesso colore rosso porporino.

    La fornitura di prodotti di prima necessità da parte dei siciliani ai maltesi riguarda anche altri generi di uso corrente. A Malta, dove l’operosità è espressa dai maestosi tempi d’epoca neolitica, secondi solo alle strutture tombali presenti in Inghilterra, c’è anche bisogno di ossidiana. I Maltesi vanno a procurarsela non solo a Pantelleria, isola di natura vulcanica, ma anche in Sicilia.

    Il rapporto tra Malta e la Sicilia è vario: non solo mercantile ma anche spirituale. Fede ed esoterismo ispirano i Maltesi che ne trasmettono il messaggio ai Siciliani. A Mnaidra e hagiar Kim, sull’isola di Malta, i grandi templi hanno già le absidi. Sono dedicati alla Grande Madre, figura divina giunta dalla lontana Asia, portata da antichissimi flussi di emigranti.

    A Tal Taxien, la statua della dea, abbigliata con una gonna a pieghe, alta più di due metri, rappresentava l’elemento centrale di un complesso statuario che comprende anche due sacerdoti che indossano lunghe gonne e parrucche.

    Questi erano rappresentati nell’atto di offrire sacrifici alla divinità. Uno dei sacerdoti, in particolare, versa il sangue delle vittime in un vaso di pietra. Ci sono anche colonne cilindriche che terminano con capitelli sagomati in forma di calice. Qui il futuro è già presente.

    Monte Kronio, il dilemma dello scheletro tra i vapori

    Il monte Kronio, a Sciacca, nell’Agrigentino, con i caldi soffi di vapore che fuoriescono dal sottosuolo, è l’antico scenario di riti magici e mistici dell’uomo che s’incammina sul sentiero che porta alla civiltà. Qui, da millenni, sono custoditi segreti impossibili da spiegare.

    Pochi luoghi come questo sono riusciti a ispirare sentimenti di venerazione per le forze del sottosuolo, gli dèi degli Inferi, secondo la terminologia classica, di quest’angolo della Sicilia stretto tra l’entroterra dai colori solari e la costa dal caldo, azzurro mare. L’idea di una forza superiore, generosa e feconda, capace di assicurare fortuna e fertilità, qui si è affermata con gran prepotenza.

    Gli archeologi hanno scoperto in una delle cavità del complesso, la Grotta del Fico, tracce del passaggio dell’uomo nel Paleolitico e Mesolitico, soprattutto ceramica ancora rozzamente lavorata. Ci sono, poi, testimonianze, alquanto raccapriccianti, di antichissime frequentazioni umane. Una molto inquietante riguarda l’identità dello scheletro, qui trovato, di un ragazzo. Perché mai un ragazzino si sarebbe dovuto avventurare tra i caldi vapori del ventre di questa montagna?

    Bisogna precisare che i resti risalgono al IV millennio a.C., dunque, a più di seimila anni fa. Il ritrovamento potrebbe significare che, a quell’epoca, nelle cavità delle Stufe di san Calogero venivano celebrati riti misteriosi dei quali sarà ben difficile scoprire la liturgia.

    Gli archeologi hanno rinvenuto lo scheletro nel 1985 in una zona nella quale i getti di vapore sono particolarmente forti. Il giovane era stato quasi sicuramente ucciso dalle esalazioni sprigionate dal terreno. Il mistero è ancora più fitto per un particolare molto interessante: quel ragazzo trasportava una grossa giara.

    Dove voleva portarla? Cosa conteneva? Qual era il senso del rito che si stava compiendo? Gli esperti hanno solo accertato che il vaso trasportato dal giovane, prima di morire, apparteneva a uno stile di lavorazione molto particolare, anche questo diffuso in Sicilia, noto come stile di Malpasso. Nelle grotte del monte Kronio, scenario di manifestazioni esoteriche della preistoria, è stata, poi, scoperta una pietra lavorata. È una giadeite, materia non comune. Non finisce qui. Questa pietra risulta lavorata da mano così esperta da farle assumere la forma di una scultura in miniatura dal significato emblematico. L’ignoto artista ne aveva fatto una testa d’uccello, con un becco particolarmente lungo. Forse non ci sarebbe nulla di strano in tutto questo, se non l’ammirazione per l’artista, così lontano nel tempo, capace di esprimere in modo egregio il concetto di volatile. Cosa voleva significare?

    Segreti di un’antica macina finita in mare

    Qual era la funzione della macina di pietra scoperta nei luminosi fondali marini di Sciacca? Secondo un primo sommario esame, dovrebbe appartenere al IV o V secolo a.C. Il ritrovamento di una macina, come episodio, non rappresenta una grande novità. In questo caso la situazione lascia pensare, in primo luogo perché l’oggetto è stato scoperto in mare. È legittimo interrogarsi perché un oggetto così pesante sia trasportato via mare.

    La presenza di altri oggetti, di dubbia identificazione, sul fondale dove è avvenuta la scoperta, contribuiscono a stendere su questa una coltre di mistero che gli archeologi si stanno sforzando di rimuovere.

    Tutto è accaduto nel 2004, come i giornali hanno riportato, quando Enzo Assenso, responsabile del settore subacqueo del circolo nautico Corallo Mimmo Marchica, si è immerso per una esplorazione del fondale marino davanti alla spiaggia di Sciacca. Il sub, dopo avere individuato un masso circolare con un foro al centro, una presunta macina, ma potrebbe trattarsi di un oggetto per un uso diverso, poco distante ha individuato tra le macchie di alghe delle buche circolari. Diametro e circonferenza coincidono perfettamente, tanto da lasciare dedurre che la presunta macina dovesse essere alloggiata in queste.

    A infittire la vicenda è il tipo di pietra. Sembra uguale a quella che veniva estratta dalle cave di Cusa per la costruzione dei templi di Selinunte. Le indagini continuano.

    Empedocle, mago o moderno scienziato e pensatore?

    Personaggio emblematico, interessante, un po’ mago ma anche medico, taumaturgo e, soprattutto filosofo, anticipatore di dottrine che dopo molti anni risulteranno vittoriose, quali quelle che ipotizzano una vita eterna dopo la morte, con l’inferno per i cattivi e il paradiso per i buoni. Chi è stato Empedocle? Un mago, come la leggenda ha tramandato? Oppure un fine scienziato, anticipatore di moderne teorie, un pensatore ricco di intuizioni? Un uomo politico che ha saputo cogliere l’alito del vento nuovo, quello della democrazia che abbatte la tirannide? Proviamo a scoprirne la genuina essenza, dopo averlo, per così dire, depurato da dicerie e misteri. L’agrigentino Empedocle, uomo di pensiero, fede e azione, è riuscito a stimolare l’attenzione e la stima dei grandi pensatori dell’antichità. Lucrezio, nel De rerum natura, scriveva di lui con ammirazione: «...e quanti sono dell’idea che tutto possa prodursi / dal Fuoco e dalla Terra, dall’Aria e dall’Acqua. / Fra i primi di tutti costoro v’è Empedocle di Agrigento, / generato sul suolo dell’isola dal triplice lido. / Qui è la vorace Cariddi e qui l’Etna rombante / minaccia di addensare di nuovo l’ira delle fiamme, / affinché la sua violenza torni a eruttare i fuochi sprigionati dalle fauci, / e scagli di nuovo in cielo folgori fiammeggianti». Ma chi è stato Empedocle? vogliamo tornare nella sua epoca per conoscerlo da vicino?

    La dottrina orfica ha esercitato una forte influenza su Empedocle. È questa la prima grande verità su un personaggio anticipatore del futuro, perché scopre i grandi principi dell’anima e, dunque, dell’immortalità, del bene e del male, dell’eterno divenire delle cose e degli uomini.

    La morte e la resurrezione, infatti, sono lo scenario nel quale matura e si svolge il dramma mitico-religioso di Orfeo che colpisce Empedocle.

    Lui è soprattutto un pensatore. Medita sulla natura, indaga sui fenomeni, ne cerca il significato e la soluzione ai possibili problemi. Finisce per conquistarsi la fama di taumaturgo.

    Egli rappresenta la sintesi di espressioni religiose e filosofiche come i misteri di Dioniso e il pitagorismo, che disquisisce di anima, reincarnazione, aspetti ultraterreni, destinati a trovare un riscontro nei concetti cristiani, come quelli dell’inferno e il paradiso. Empedocle è molto convinto della verità dei principi dell’orfismo. Proviamo a riassumerli.

    La prima e più importante, volendo ricorrere a criteri, sia pur soggettivi, di priorità, è che ogni individuo ha un’anima, principio eterno, preesistente alla nascita e destinata a sopravvivere alla morte. Da ciò consegue il principio della metempsicosi secondo la quale, alla morte di un individuo, la sua anima passa dal suo corpo a un altro. Il secondo punto della dottrina orfica è quello dell’uomo espressione del dualismo fra anima e corpo, principi in irrisolvibile contrasto. Per salvare lo spirito, dunque, è necessario reprimere i sensi e purificare il corpo. A questo punto appare evidente anche l’influenza della filosofia di Pitagora, con il suggerimento di rigorosi stili di vita. Nella dottrina orfica, oggetto di approfondimento da parte di Empedocle, un importante aspetto è rappresentato dal destino dell’anima dopo la morte. Per le teorie orfiche, ma anche pitagoriche, alla stessa è riservata, come castigo, una nuova reincarnazione, oppure la liberazione definitiva dal ciclo delle incarnazioni, come premio, per ridiventare puro spirito. Chi vuole percorrere il cammino per giungere alla salvezza eterna non può prescindere da uno stile di vita ordinato, caratterizzato dall’esercizio ascetico, dall’astinenza, dalla massima pulizia del corpo.

    Empedocle, come tutti i fedeli osservanti della dottrina orfica, ama vestire con abiti semplici. Nessuno lo ha mai visto con vestiti di lana, espressione di lusso e smodatezza. Segue, poi, una drastica dieta vegetariana, che esclude anche uova e fagioli. Basta questo perché il popolino gli attribuisca il carisma di un santone.

    Il pensatore dell’antica Akragas, poi, crede nella resurrezione e spera di essere accolto, dopo la morte, nel mondo degli Eletti. Questo spiega la sua decisione, solo apparentemente assurda, di gettarsi dentro il cratere dell’Etna.

    Secondo la tradizione, l’Etna ha sputato un sandalo di Empedocle. Si è trattato di un simbolico atto di disprezzo degli dèi degli Inferi nei suoi confronti? Oppure il vulcano, porta degli Inferi, ha accettato ciò che gli è parso meritevole, vale a dire Empedocle, rifiutando quel che è materiale, ovvero il sandalo? La morte non rappresenta qualche cosa da temere, ma un’occasione di liberazione. Ed è questa un’ulteriore riprova che l’atto di Empedocle di lanciarsi nel cratere infuocato non è stato ispirato da bieca follia bensì da speranza in una futura vita migliore. Quell’atto rappresenta la sua consacrazione agli dèi. La sua anima ha raggiunto uno stadio di purezza tale da meritare di passare in un altro corpo, per essere ulteriormente mondata. Empedocle, questo va detto, non è un pensatore solitario. Ha un amico, Parmenide, filosofo di Elea, in Magna Grecia, impegnato a interpretare al meglio le dottrine di Pitagora. Non solo. È un uomo dalla vita tormentata. Nato da una famiglia aristocratica, si è schierato con la fazione dei democratici di Akragas. Poiché non ha avuto successo, è stato costretto a rifugiarsi nel Peloponneso.

    Qui ha incontrato altri pensatori dei paesi del Mediterraneo, prima di raggiungere la Magna Grecia. L’esperienza che lo attende è unica: il solenne rito di fondazione di una città, Thurion, concepita come l’espressione della pace e della solidarietà panellenica. E qui l’incontro con i migliori cervelli del tempo, da Ippodamo da Mileto a Protagora.

    Quando celebra il tragico rito di lanciarsi dentro il cratere del vulcano, è impegnato nella elaborazione della sua teoria circa la diversa collocazione degli individui dopo la morte: un luogo che evoca il paradiso per i buoni e i puri, l’inferno per i non-iniziati. Il tutto sulla base della dottrina pitagorica sulla metempsicosi, il ciclo di nascite rinnovate, dal quale l’anima può giungere infine a liberarsi purificata.

    Il concetto della punizione dopo la morte, infatti, non giustifica la tesi degli dèi che consentono il successo dei malvagi nella vita terrena, e non chiarisce, tuttavia, perché essi tollerano l’esistenza del dolore umano e, in particolare, quello, assurdo, degli innocenti.

    Il principio filosofico della reincarnazione, invece, risolve le contraddizioni. Nessuna anima è innocente. Tutte, invece, debbono scontare le colpe, non sempre della stessa gravità, delle quali gli uomini si sono resi responsabili nelle vite anteriori.

    Opportuno, a questo punto, cercare di capire l’origine del principio, anche questo pitagorico, della resurrezione. È possibile trovare la radice nelle religioni orientali, definite misteriche perché i devoti sono detti mysti dagli studiosi e fondate su antichi riti legati all’alternarsi delle stagioni. Oltre che filosofo e poeta, Empedocle è anche profeta e taumaturgo. Nel poema Le purificazioni così si presenta ai concittadini: «...vengo a voi come un dio immortale, non più come mortale, da tutti onorato...». Giamblico, autore della Vita pitagorica, sostiene che Empedocle ha avuto gli stessi poteri paranormali di Pitagora. Come questi, infatti, è infallibile nella previsione dei terremoti ed è anche riuscito a fermare le tempeste, le folate di vento troppo violente e la grandine pericolosa per il raccolto.

    Al pari di Pitagora, Empedocle di Agrigento, insieme ad altri due pitagorici, Epimenide di Creta e l’iperboreo Abari, ha compiuto grandi prodigi. A lui è stato attribuito il potere di placare, per esempio, il mare in tempesta e bloccare la corrente tumultuosa dei fiumi così da renderne agevole l’attraversamento ai discepoli desiderosi di raggiungerlo.

    Empedocle è stato anche un poeta. Come Parmenide (nato a Elea intorno al 520 a.C. e morto nel 440 a.C.), suo grande amico e maestro, ha fatto ricorso a concetti espressi in forma poetica per far presa con le teorie sull’anima che, alimentando le speranze sulla vita eterna, finiscono con l’affascinare il popolo. A questa fama ha unito, poi, anche quella di taumaturgo. Gli adepti sono cresciuti numericamente. Il suo parlare poetico, certe espressioni dal chiaro sapore divinatorio, hanno finito con il presentarlo in abiti da immortale, vate dei principi di verità. Così lo crede la gente. Preferisce, a questo punto, lasciare ad altri le scontate prediche sulle piccole cose quotidiane. Il suo tema costante è quello della natura del mondo. Proclama che gli uomini sono in errore quando pensano che le cose nascono e muoiono; sostiene il principio dell’eterno divenire, anche in natura. Vale a dire che, dietro alle vicende di trasformazioni continue, rimangono costanti e indistruttibili quelle che Empedocle chiama rizomata, vale a dire radici. Ne immagina quattro: terra, acqua, aria e fuoco. Già, il fuoco! Quello che sgorga lassù, in cima all’Etna, dove il cielo incontra il fuoco e la terra. Sostiene che nascita e morte non esistono: sono solo episodi di aggregazione e relativa disaggregazione. Quest’ultimo concetto sarà ripreso prima da Aristotele e poi da Dante nell’Inferno. Spiega che sono conseguenza dell’azione di due forze che, richiamandosi al linguaggio del mito, chiama Amore e Odio.

    Queste forze operano non solo sull’universo nella sua totalità, ma anche su ciascuna delle cose che si trovano sulla terra. Quando l’azione dell’Amore prevale su quella dell’Odio, c’è una situazione di pace, che Empedocle immagina come una sfera compatta e priva di fratture nel suo interno. Le ha dato un nome: Sfero. Questo è lo stato primordiale in cui tutte e quattro le radici sono mescolate insieme ad Amore e Odio. Il primo è destinato a prevalere sul secondo. Ma poi quest’ultimo lo supererà. A quel punto inizierà il processo di disgregazione, con la separazione delle quattro radici. È questa, in ultima analisi, la sua elaborazione sull’origine del mondo: la cosmogonia di Empedocle.

    Lo Sfero, tuttavia, non è statico. Questa è un’intuizione geniale del grande Empedocle. Sembra proprio un’anticipazione di talune teorie sulla trasformazione molecolare, a quei tempi ancora lontane dall’affacciarsi alla finestra della scienza.

    Con il ritorno alla vittoria dell’Amore, si ripristina lo stato primordiale di totale aggregazione, pronto a disgregarsi con il prevalere dell’Odio e così via, alternando il ritmo che, secondo Empedocle, regola il divenire del mondo. Quest’ultimo, poi, è a metà strada tra Amore e Odio. Con il raggiungimento di questo, è destinato a distruggersi per poi tornare a rinascere. La visione ciclica del mondo, per Empedocle, durerà fin quando, dal punto di partenza, vale a dire l’Amore, non si giungerà all’opposto, ossia l’Odio. Il principio di aggregazione e disgregazione non esclude l’umanità: anche il corpo umano, scatola dell’anima, si forma in questo modo, per poi distruggersi con il prevalere dell’Odio.

    Empedocle, tuttavia, è persuaso che l’aggregazione, foriera della creazione degli uomini, e d’ogni altra realtà, non è immediata e complessiva. L’uomo, vale a dire, non si forma tutt’insieme in un preciso istante. Gli organi, insomma, nascono autonomamente, per poi unirsi così da dar vita all’uomo. Un esempio concreto di aggregazione, secondo Empedocle? Il Minotauro, frutto dell’amore adulterino tra Pasifae, moglie del re cretese Minosse, con un toro. Ricorrendo alla scienza e non solo alla filosofia, Empedocle crede al racconto mitologico, fino ad arrivare alla conclusione che, l’assenza di altri Minotauri è giustificata dalla circostanza che non possono sopravvivere. Ecco dunque la deduzione empedoclea: in natura, il futuro è assicurato solo ai migliori.

    Empedocle taumaturgo? Certo, questa qualifica, nei tempi che stiamo rivivendo, equivale a quella di medico. Come tale la tradizione lo presenta.

    Egli sembra coltivare interessi anche per i fenomeni della vita, come la procreazione o la respirazione. È convinto che il sangue e il respiro si muovano entro gli stessi vasi corporei. Più esattamente il sangue li riempie e poi, fluendo, esce da questi per lasciare spazio all’aria che entra. L’arrivo del sangue corrisponde all’abbandono del corpo da parte dell’aria. Empedocle enuncia la teoria secondo la quale il corpo respira attraverso i pori della pelle. Per spiegare il fenomeno, immagina l’immersione in acqua di una clessidra, vaso con un collo stretto e un’ampia base con piccoli buchi. Se essa è immersa in acqua con l’orifizio superiore tappato, l’acqua non entra attraverso i buchi. Questo accade perché, all’interno, la pressione dell’aria lo impedisce. Aprendo l’orifizio superiore, così da permettere l’uscita dell’aria, l’acqua ha la possibilità di entrare. Viceversa, se l’apertura è tappata quando la clessidra si colma d’acqua, questa non può fuoriuscire dai piccoli fori sul fondo. I due momenti della respirazione, cioè l’inspirazione e l’espirazione, corrispondono alle fasi in cui la clessidra, rispettivamente colma d’acqua e d’aria, viene aperta nell’orifizio superiore consentendo l’ingresso di aria in un caso, di acqua nell’altro.

    All’acqua della clessidra corrisponde il respiro e all’aria il sangue. Concetti scontati? Certo, per noi dell’epoca dell’informatica. Ma per gli uomini dell’età di Empedocle, quando Roma è ancora poco più di un villaggio che cerca di aprirsi alla società, le intuizioni di Empedocle sembrano strabilianti, da gran scienziato, quale è in effetti.

    Proviamo a riassumere ciò che per l’Agrigentino rappresenta il pensiero? A suo avviso, risiede nel sangue che affluisce nel cuore. La deduzione è ovvia: l’attività del pensiero è legata alla struttura anatomica e alla fisiologia corporea. Essendo il corpo umano espressione delle stesse radici che sono alla base di tutte le cose, è possibile istituire una corrispondenza biunivoca tra i costituenti del corpo

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