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Avevano spento anche le stelle
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Avevano spento anche le stelle
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Avevano spento anche le stelle

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Tra Il bambino con il pigiama a righe e L’ultimo sopravvissuto. Una storia vera.

La vera storia di Syvia Perlmutter: un racconto di coraggio, disperazione e sopravvivenza

Nel 1945 la guerra finisce. I tedeschi si arrendono e il ghetto viene liberato. Su 250.000 persone se ne salvano circa 800. Tra queste ci sono 12 bambini. Io sono una di loro.
Per oltre cinquant’anni dalla fine della guerra, Syvia, come tanti altri sopravvissuti all’Olocausto, si rifiuta di parlare del tempo trascorso nel ghetto di Łódz, in Polonia. Seppellisce il passato e guarda avanti. A un certo punto, però, si rende conto che è importante condividere la sua esperienza e così inizia a raccontare la sua storia alla nipote: dalla vita tranquilla nel ghetto, ai primi rastrellamenti degli ebrei, al tentativo del padre di nasconderla in una buca scavata nel cimitero e sottrarla così alla ferocia nazista. Fino a quando l’intera famiglia sarà in pericolo e Syvia rischierà la vita. Una storia vera, di disperazione e di salvezza insieme.

Nel 1945 la guerra finisce e il ghetto viene liberato. Su 250.000 persone se ne salvano circa 800. Tra queste ci sono 12 bambini. Io sono una di loro.

«Avevano spento anche le stelle è una storia avvincente, splendidamente raccontata, e non sarà facile dimenticarla per un bel po’ dopo averla letta. Ti inchioda dalla prima all’ultima pagina. È veramente un libro per tutte le età.»

«Le atrocità subite da Syvia e dalla sua famiglia sono inimmaginabili, ma il loro coraggio, la resistenza e la speranza sorprendenti. Avevano spento anche le stelle è un tesoro per gli insegnanti di storia, un libro indimenticabile.»
Jennifer Roy
ha già pubblicato più di 30 libri, tra i quali Israel: Discovering Cultures. È laureata in Psicologia e per diversi anni è stata un’insegnante. Attualmente vive a New York.
LanguageItaliano
Release dateMay 30, 2016
ISBN9788854194205
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    Avevano spento anche le stelle - Jennifer Roy

    402

    Questa è un’opera di fantasia. Ogni riferimento a fatti storici, personaggi o luoghi reali è completamente fittizio. Altri nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono il frutto dell’immaginazione dell’autore, e qualunque somiglianza con fatti, luoghi o persone reali, viventi o defunte, è del tutto casuale

    Titolo originale: Yellow Star

    © 2006 by Jennifer Roy

    All rights reserved

    This edition made possible under a license arrangement

    originating with Amazon Publishing, www.apub.com

    Traduzione dall’inglese di Francesca Barbanera

    Prima edizione ebook: giugno 2016

    © 2016 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-9420-5

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Librofficina

    Realizzazione: Sebastiano Barcaroli

    Foto: © Stephen Mulcahey / Arcangel Images

    Jennifer Roy

    Avevano spento anche le stelle

    La vera storia di Syvia Perlmutter: un racconto di coraggio, disperazione e sopravvivenza

    A mia madre, Robin Rozines

    Prologo

    star-of-david.tif

    «Nel 1939 i tedeschi invasero la città di Łódź, in Polonia. Costrinsero tutti gli ebrei a vivere in una piccola parte della città chiamata ghetto. Innalzarono un recinto di filo spinato tutt’intorno e misero soldati nazisti di guardia, affinché tutti rimanessero dentro. Duecentosettantamila persone vivevano nel ghetto di Łódź.

    «Nel 1945 la guerra finì. I tedeschi si arresero e il ghetto fu liberato. Di circa un quarto di milione di persone, solo ottocento uscirono dal ghetto. Tra i sopravvissuti, solo dodici erano bambini.

    «Io ero una di quei dodici».

    Estratto da un’intervista a Sylvia Perlmutter

    Marzo 2003

    Introduzione

    star-of-david.tif

    Questa è la vera storia di Syvia, ora Sylvia, Perlmutter. Quando la seconda guerra mondiale ebbe inizio, lei aveva quattro anni e mezzo. Alla fine del conflitto, ne aveva dieci.

    Per più di cinquant’anni Sylvia, come molti sopravvissuti all’olocausto, non ha parlato della propria esperienza.

    Ma una volta anziana, era arrivato il tempo. Di riportare alla memoria, di condividere. I ricordi tornavano a galla attraverso i sogni. I particolari le invadevano la mente durante il giorno. La storia di Sylvia stava emergendo in superficie e chiedeva di essere raccontata.

    Così decise di condividerla con me, sua nipote.

    Per la prima volta ascoltai la storia di un sopravvissuto dall’inizio alla fine.

    Quando venni a sapere che mia zia era una dei dodici bambini scampati al ghetto di Łódź, rimasi scioccata. Com’è possibile che non sapessimo nulla del suo passato?

    Le chiesi di raccontarmi qualcosa e le domandai se era d’accordo che la registrassi. Acconsentì. Così al telefono – lei dal suo appartamento nel Maryland, io nella mia casa a nord di New York – Sylvia mi narrò la sua storia. Più parlava, più ricordava. Questo mi fece riflettere.

    Avevo già pubblicato dei libri e mi chiesi se avrei potuto raccontare la sua storia. Ma ero la persona giusta per scriverla? Avevo sempre avuto paura di qualunque cosa avesse a che fare con l’olocausto. Cresciuta in una famiglia ebrea, già da piccola sapevo cosa fosse: alla scuola ebraica ogni anno ci mostravano dei filmati sulle atrocità dell’olocausto. Pile di scarpe di bambini morti, fosse comuni piene di ossa, sopravvissuti scheletrici che venivano liberati. Ma gli insegnanti non ci spiegavano mai gli eventi inserendoli in un contesto storico in modo che potessimo comprenderli. Quei filmati non erano seguiti da alcuna lezione o discussione in proposito. Solo immagini di uno dei periodi più bui della storia moderna. L’uccisione di sei milioni di ebrei.

    In quanto ebrea americana ero cresciuta consapevole del fatto che il mondo non sempre è un posto sicuro, che le persone possono considerarti un nemico anche in una società civilizzata. L’olocausto era qualcosa di enorme e inimmaginabile. Terrificante e traumatico. Ma anche qualcosa di cui nessuno parlava. Provate a chiedere a un sopravvissuto, e con ogni probabilità cambierà discorso. Durante la crescita nei sobborghi della zona settentrionale dello Stato di New York, i miei genitori parlavano di tutto, tranne di quello. Il motto dei sopravvissuti era «Mai dimenticare!», ma quelli che conoscevo non mi dicevano cosa ricordare. Neanche mio padre.

    Il mio papà, Sam, ha vissuto sulla propria pelle l’olocausto. Con la madre, la sorella e tre fratelli scamparono per un pelo al campo di concentramento in Polonia. Suo padre, mio nonno, fu separato dalla famiglia e ucciso nei massacri della Foresta Nera in Germania. Gli altri fuggirono in un campo per i rifugiati in Siberia. Mio padre trascorse lì la sua infanzia, lottando per sopravvivere fino al termine del conflitto bellico. Ne parlava raramente. E quando è morto, la sua storia è andata perduta.

    La zia Sylvia era la moglie del fratello di mio padre. Fu un onore ascoltarla, essere ritenuta degna di custodire le sue memorie. Mi ripromisi che avrei reso giustizia alla sua storia.

    E a quel punto… cominciarono le difficoltà. All’inizio provai a raccontare la sua esperienza come un resoconto d’impronta documentaristica. Troppo asciutto. Poi la riscrissi sotto forma di narrazione in terza persona. Ma continuava a non funzionare. Frustrata, riascoltai le registrazioni del suo melodioso accento europeo. A un tratto le voci di tutti i miei parenti ebrei mi investirono. Inglese mescolato allo yiddish e al polacco, toni ansiosi e tenaci. Le voci di mia nonna, dei miei zii, di mio padre. Tutti ormai defunti. E lì capii che avrei scritto la storia della zia in prima persona, come se fosse lei stessa a raccontarla.

    Questo libro è dedicato a tutti i miei parenti. A mia nonna Rachel, che lasciò la Siberia dopo la guerra e si separò dai due figli più grandi – che mandò nella nuova patria degli ebrei, Israele – portando gli altri in America, nello Stato di New York. Il più piccolo era mio padre, Sam. Poi c’erano Nathan e David, che s’innamorò e sposò Sylvia Perlmutter, mia zia, conosciuta da giovane come Syvia. Una dei dodici bambini sopravvissuti al ghetto di Łódź. Quando mi raccontò la sua infanzia, fu come se guardasse attraverso gli occhi di una bambina, che rendevano le sue esperienze reali, immediate, urgenti. Questa poesia racchiusa nelle parole di una sopravvissuta è la storia di Sylvia.

    Parte prima

    star-of-david.tif

    Prima del secondo conflitto mondiale, nella città di Łódź, in Polonia, vivevano 233.000 ebrei. Rappresentavano un terzo della popolazione cittadina e la seconda comunità ebraica del Paese.

    Molti di loro erano istruiti professionisti: lavoravano nel campo degli affari, come insegnanti, scienziati e artisti. I genitori crescevano i figli affinché diventassero cittadini produttivi.

    Intanto, in Germania, Adolf Hitler era salito al potere. Hitler riteneva che alcuni individui definiti «ariani» fossero superiori ad altri di razze «inferiori». Malgrado l’ebraismo sia una religione, non una razza, Hitler sosteneva che appartenere a tale comunità fosse una questione di sangue. Il suo piano per creare una «razza dominante» non comprendeva gli ebrei.

    Il primo settembre 1939 la Germania nazista invase la Polonia, dando inizio alla seconda guerra mondiale. I nazisti si prepararono a isolare gli ebrei polacchi in apposite aree chiamate ghetti. Uno di questi era a Łódź. 31.721 appartamenti, la maggior parte composta da una sola stanza e priva di acqua corrente. In primavera, 160.000 uomini, donne e bambini ebrei furono costretti a spostarsi all’interno del ghetto. Il primo maggio 1940 la zona venne delimitata da un recinto di filo spinato. Gli ebrei furono isolati dal resto della Polonia e tagliati fuori dal mondo.

    Autunno 1939

    star-of-david.tif

    Come comincia

    Ho quattro anni e mezzo, quasi cinque,

    sono nascosta nel mio posto speciale

    dietro la poltrona in salotto,

    spazzolo i capelli della mia bambola,

    ascolto.

    La preoccupazione dei grandi riempie l’aria,

    mescolata con l’odore di limone della torta appena cotta

    che si raffredda sul piatto.

    Tin tin, la tazza da tè di mamma trema sul piattino.

    «Dobbiamo andare, Isaac?», chiede a mio padre,

    rientrato dal lavoro

    all’improvviso,

    interrompendo il tè settimanale.

    «Bisogna lasciare subito Łódź», dice papà.

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