Scampoli e strasse. Storie de sti ani
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Book preview
Scampoli e strasse. Storie de sti ani - Armando Magnabosco
Indice
Prefazione
Introduzione
I luoghi dei nostri avi
Sti ani antichi
In casa e in corte
Come eravamo (1920-1936)
I lavori nei campi (anni fino al 1935)
I letti con il pajòn (fino al 1935-1936)
Artigianato casalingo, ovvero chi fa da sé fa per tre (dagli anni ’20 fino al 1935)
La pasta fatta in casa (anni 1920–1950)
Le frìtole (anni 1928-1935)
Orzo e caffè. (anni 1925-1945)
Lo scopetòn (anni 1938-1941)
Fuasse di suentri (anni 1935-1939)
Dalla terra alla tavola (dagli anni ‘20 fino al 1936)
Il maiale (anni 1929-1935)
I cavalieri (anni ‘20–1944)
Ognuno ha la sua compagnia (anni ‘20–1945)
Igiene personale (anni ’20–1938)
La lìssia, la bròa e il broòto (anni 1925-1935)
La graspa (anni 1924-1945)
La Prima Comunione (anni 1930-1934)
La giornata delle donne (anni 1920-1936)
In paese
La Césa Nova (tempi incerti)
Artigiani e piccoli commercianti (anni ’20-1944)
La canapa (fine Ottocento-1935)
I strassari e altri ambulanti (anni 1930-1937)
Piero Toj e le scarpe (anno 1937)
Persone in vista (anni 1928-1950)
Società di mutuo soccorso e casse mutualistiche (anni 1920–1945)
La processione del Corpus Domini (anni 1930-1932)
Mezzi di trasporto (anni 1938-1941)
Rubare la frutta (1945-1946)
Santa Bertilla (anni 1926–1950)
Il dialetto (1930-1955)
Il teatro (anni 1946-1947)
Per non smentirsi (inverno 1942-1943)
Macchine agricole (1934-1947)
Nomi e soprannomi
Tradizioni, usanze e credenze
Il filo’ (anni 1926-1936)
La Stella (anni 1928–1935)
La Stria (anni 1928-1934)
Bàti marzo (1930-1935)
Anguàne e salbanéi (dai tempi remoti sino al 1934)
I Sequéri (anni 1938-1940)
Indice dei nomi
Ringraziamenti
Note
Armando Magnabosco
Scampoli e strasse
storie de sti ani
Brendola, gennaio 2016
Youcanprint
Titolo | Scampoli e strasse. Storie de sti ani
Autore | Armando Magnabosco
In prima di copertina I morari, fotografia di Laura Storato, per gentile concessione
In quarta di copertina fotografia di Loretta Magnabosco
Assistenza tecnica di Andrea Magnabosco
Editing di Silvana Magnabosco
ISBN | 978-88-93328-27-2
Prima edizione digitale: 2020
© Tutti i diritti riservati all'Autore.
Questa opera è pubblicata direttamente dall'autore tramite la piattaforma di selfpublishing Youcanprint e l'autore detiene ogni diritto della stessa in maniera esclusiva. Nessuna parte di questo libro può essere pertanto riprodotta senza il preventivo assenso dell'autore.
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Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata costituisce violazione dei diritti dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla legge 633/1941.
Alle mie carissime nipoti
Eleonora, Eva e Clara
Prefazione
Durante le mie passeggiate mattutine, nei lunghi pomeriggi tediosi, la mia mente spesso vaga in un passato lontano e riaffiorano i ricordi. A volte sono immagini nette e precise, altre volte hanno contorni più slabbrati e confusi, ma comunque per me sono sempre cariche di significato.
E i miei figli mi chiedono di scriverli, questi ricordi. Mai avrei pensato di trovarmi alla mia età a svolgere il filo della memoria per tessere trame di parole.
E’ stato come ritrovarmi davanti al mio lungo tavolo da lavoro sovraccarico di belle pezze, di tessuti finissimi, ma anche di scampoli e strasse che non sapevo bene come riordinare.
E per non buttare via niente è nato questo terzo libro, che ho scritto sempre con il mio computer, dove ho raccolto scampoli di vita di paese filtrati dalla lente della mia esperienza personale.
Brendola, gennaio 2016
Introduzione
I luoghi dei nostri avi
Prima di iniziare a mettere nero su bianco una serie di episodi che vagano nella mia memoria, vorrei spendere qualche parola in generale sui tempi andati, altrimenti le mie piccole storie restano senza uno sfondo dove collocarsi.
A grandi linee il territorio di Brendola si divide in due parti.
Una parte è collinare, consistente in terreni vulcanici impiegati per colture molto varie almeno sino ai quattrocento metri di altitudine.
In questa zona è tradizionale il sistema di trattenere il terreno con dei muretti a secco, formando così degli ampi terrazzamenti per le colture.
Sopra la collina il bosco, molto grande, confina sia con il comune di Arcugnano sia con Altavilla.
L’altra parte del territorio di Brendola, quella ai piedi delle colline, si apre come un grande spazio pianeggiante, un tempo solcato da molteplici corsi d’acqua che scendendo dai colli confluivano nei molti fossati della zona, con acqua permanente tutto l’anno, per poi unirsi nel Fiumicello. Ogni fosso, ogni rivo, ogni canale aveva il proprio nome, così come gli appezzamenti agricoli o le piccole località avevano tutti una precisa denominazione.¹
Nella zona di pianura il terreno era suddiviso in tanti appezzamenti paralleli ai vari fossati.
Nel corso delle arature si aveva cura di tenere costantemente il colmo del terreno molto alto, almeno più di un metro, degradando man mano verso gli scoli in modo che l’acqua potesse fluire agevolmente nei vari fossi; tutte queste opere erano fatte a mano usando le carriole per spostare la terra.
Se l’appezzamento era ampio, ogni duecento metri i contadini formavano un altro piccolo scolo che portava le acque nei fossati principali, e già dopo ogni aratura e prima di ogni semina risistemavano il terreno per evitare il ristagno delle acque.
Questa zona pianeggiante era un tempo molto, molto ricca d’acqua: vi erano sorgenti e risorgive un po’ ovunque, che, se non indirizzate con continui lavori di manutenzione, avrebbero allagato tutto.
Quindi il paese aveva allora una ricchezza d’acqua che oggi non è immaginabile: con i suoi fossi, canali, scarànti e scarantéli era il paese più ricco d’acqua dell’intera provincia e i pesci d’acqua dolce comparivano abbastanza regolarmente sulla tavola dei contadini: mia nonna Teresa era un’abile pescatrice e spesso rimediava dai fossi e dai canali qualcosa da mettere in tavola. Pescava tinche e altri pesci d’acqua dolce, anche di mezzo chilo.²
Oggi l’acqua è stata arginata, incanalata, prosciugata, tombinata, e il paesaggio di Brendola ha assunto una fisionomia completamente diversa.
Quello che salta agli occhi confrontando le immagini della memoria con l’assetto attuale del territorio non è solo l’abbondanza di edifici e di capannoni che hanno sostituito i campi di grano e di sorgo, le vigne e i moràri,³ non sono le tante strade asfaltate al posto dei viottoli, dei trodi e delle cavesàgne, ma proprio l’acqua che prima c’era e oggi non c’è più.
Da quel che ricordo, almeno nella parte del paese a me più familiare, in questa zona di pianura avevano origine i due corsi d’acqua più importanti.
Il Fiumicello, detto el Sime, che oggi come tutti gli altri fossati non esiste più, aveva la sua prima sorgente al di là della strada per Lonigo – là si chiamava Signòlo - e scorreva verso Brendola passando sotto la strada; c’è tuttora un ponte in quel punto. Già dopo una decina di metri dal ponte c’erano altre sorgenti di notevole portata, che progressivamente aumentavano il flusso e alimentavano il corso d’acqua fino allo sbarramento del mulino di Campagnaro, in località Molinetto: una parte alimentava il mulino, la parte eccedente passava sopra lo sbarramento.
L’altra sorgente, che iniziava centocinquanta metri circa al di qua della provinciale per Lonigo, alla sinistra del Sime e quindi più prossima alla via Benedetto Croce, dava origine al Bartaglian (Bartaian), che ancora oggi si può vedere scorrere a circa duecento metri dalla predetta via Benedetto Croce, ma ora non è altro che un canale di scolo.
Erano due corsi d’acqua separati che scorrevano quasi paralleli tra loro, a una distanza di una trentina di metri l’uno dall’altro. Allora erano larghi sei/sette metri ciascuno, e si riunivano trecento metri dopo il mulino in un solo ramo detto Fiumicello: lì terminava il Bartaian.
La loro sorgente principale non era affatto un semplice zampillo, ma come una fontana di sei sette metri di diametro, e in pratica nella zona c’erano risorgive un po’ dovunque.
Questo solo per quanto riguarda la parte a me più nota del territorio, che era la zona dove i miei coltivavano i campi.
In un'altra zona, ossia dopo il cimitero, esisteva un lago perenne detto Palù, bonificato credo nel periodo tra le due grandi guerre;⁴ nel corso dei lavori scavarono il fiume sino a dopo Meledo-Sarego consentendo così il deflusso delle acque, e intercalarono i vari appezzamenti con fossati larghi due-tre metri: è rimasta una piccola depressione chiamata Laghetto.
In questo contesto idraulico già degno di attenzione la situazione poteva precipitare a seguito di eventi particolari. Devo ricordare a questo proposito le periodiche inondazioni dovute alla rottura dell’argine Agno-Guà; io mi ricordo che nell’immediato dopo guerra un evento di questo tipo fece allagare la pianura sino alla casa natale di Santa Bertilla.
Così si spiega come mai le abitazioni sin dai secoli scorsi venivano costruite nella quasi totalità sulle colline, e con rare eccezioni in altri luoghi comunque in genere leggermente sopraelevati.
Deduco che questo terreno pianeggiante sia il risultato di secoli di lavoro e che la coltivazione di questi terreni sia stata per vario tempo pesantemente condizionata dalle condizioni climatiche.
Oltre al mulino che ho ricordato, a Brendola allora erano presenti altri due mulini ad acqua: il mulino del Vo’, alimentato dal Fiumicello, e il mulino di Val del sole, nella frazione Canove-Rondòle, alimentato da un altro fiume il cui nome non mi è noto.
Il fossato che fiancheggiava la via Benedetto Croce per buona parte della sua lunghezza, e precisamente dall’Orna fino ai Pontesei, era il luogo dove le donne di Goia andavano a lavare i panni: era stato scavato uno spiazzo apposito, e la grossa pietra che ancora esiste al bordo della strada a questo incrocio ne è la testimonianza.⁵
Lo stesso fossato devia poi verso il Molinetto per confluire infine nel Bartaian.
Lungo la via Santa Bertilla, da entrambi i lati, scorrevano acque in altri ampi fossati.
Quello di sinistra dando le spalle al Molinetto era alimentato dapprima dalle sole acque torrentizie che scendevano dal Pozzetto - pompa comunale in località Muraroni – e poi dalle acque piovane sino a centocinquanta metri dopo la casa di S. Bertilla; di lì in avanti, all’interno del fossato sgorgavano delle piccole sorgenti, quindi il fosso aveva acque permanenti.
La sua portata si ingrossava notevolmente con l’innesto della Fossona, corso d’acqua che ancora si può notare dietro la casa di Marchetto; il fossato si univa all’incrocio dei Pontesei con quello che andava al Bartaian, quindi sempre con acqua perenne.
Erano corsi d’acqua limpida, molto ricchi di gamberetti e di spinose, che noi ragazzini andavamo a pescare usando il crivelo, il setaccio del grano. Invece nel Bartaian si pescava pesce più grosso, come i marsoni che si prendevano in modo rudimentale sollevando lentamente le pietre: i marsoni erano lì, fermi, e noi, se eravamo fortunati, riuscivamo a infilzarli con una forchetta.
In tutti questi corsi d’acqua erano presenti le rane, che si catturavano facilmente anche nei terreni vicino ai fossi, ed erano molto numerose al Palù, dove in tanti si recavano a prenderle con l’amo.
Sti ani antichi
1. Fine Ottocento-primi Novecento.
Tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento Brendola era un paese che viveva esclusivamente della propria agricoltura: questo consentì al paese di mantenere le proprie caratteristiche, conservando le modalità di vita e di cultura del vecchio mondo rurale.
Non mancano altri aspetti: pur essendo di dimensioni ridotte e nonostante non avesse un gran numero di abitanti, Brendola conobbe una certa notorietà negli anni in cui il conte Felice Piovene, che di Brendola fu anche Sindaco, proprio qui fissò la sua residenza e diede al paese un vigoroso impulso anche di carattere culturale: a quei tempi a Brendola era attiva una compagnia teatrale di tutto rispetto ed anche una banda musicale di un certo livello, tanto che i suoi concerti venivano richiesti in centri molto importanti, e arrivò più di una volta a esibirsi sino a Roma.
Ma, in generale, lo sviluppo era limitato, l’economia era ancorata alla terra e l’innovazione agricola era ostacolata dalla presenza di molte piccole proprietà, fondi ripetutamente frazionati nel tempo in relazione alle vicende delle famiglie proprietarie, e quindi con terreni di dimensioni piccole o medie; in paese mancavano quindi sia la proprietà terriera di una certa dimensione, sia il capitale necessario a finanziare le trasformazioni.
Anche le caratteristiche del territorio pesarono nell’ostacolare i mutamenti: gran parte del territorio di pianura era soggetto a periodiche inondazioni, fattore di per sé che scoraggiava gli investimenti.
Questi diversi elementi di fatto impedirono