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Le leggi del nostro amore
Le leggi del nostro amore
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Le leggi del nostro amore

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About this ebook

Ashley Carter è una ragazza italiana di origini americane. Seria e determinata fin da piccola, per tanti anni ha coltivato il sogno di diventare avvocato proprio negli USA, e ha fatto di tutto per realizzarlo. Dopo la laurea si è trasferita sulla West Coast per iniziare a lavorare nel prestigioso studio legale di Anthony Burke, vecchio amico di famiglia. Ospite a casa di Burke, Ashley cattura subito l’attenzione di Eric, il figlio di Anthony. È lui a consigliarle di guardarsi bene da uno degli avvocati dello studio, Robert Parker. Ashley però subisce il fascino di un uomo così misterioso e non riesce a stargli alla larga. Tra i due è odio a prima vista: Robert non sopporta la nuova arrivata e fa di tutto per ostacolarla. Finché un giorno lui e Ashley saranno costretti a collaborare allo stesso caso…

«Questo libro mi è piaciuto molto: scorrevole, intrigante e riesce a farti innamorare!»

«Molto romantico con un pizzico di magia che non guasta, anzi!»
Valentina Canale Parola
è nata a Sora nel 1995 e studia Giurisprudenza a Cassino. Adora libri e film romantici ed è proprio per questo che, in un pomeriggio d’estate del 2013, ha iniziato a scrivere il suo romanzo d’esordio Le leggi del nostro amore. Da quel giorno la scrittura è diventata la sua inseparabile compagna.
LanguageItaliano
Release dateMar 14, 2016
ISBN9788854189416
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    Le leggi del nostro amore - Valentina Canale Parola

    CAPITOLO 1

    Ho sempre amato la giustizia: già da bambina, infatti, mi vedevo proiettata in uno studio legale di gran fama, agli ultimi piani di un vistoso grattacielo a vetri.

    All’età di sei anni, mentre tutte le mie coetanee seguivano serie interminabili di cartoni animati, io avevo appuntamento fisso con un particolare programma in cui si svolgevano diverse cause giudiziarie: guardavo con gusto i battibecchi tra i due contendenti che, con sorrisini e insignificanti battutine, cercavano di accaparrarsi la simpatia del pubblico, come se poi fossero gli spettatori a emettere la sentenza al posto del giudice.

    Crescevo e, mentre le altre ragazzine seguivano le vicende amorose di viziati divi hollywoodiani, io ero ossessionata da un telefilm in cui una giovane donna, da poco diventata avvocato, alternava le intense giornate passate in un’aula di tribunale all’amore frastornato con una sua vecchia fiamma: ovviamente non ero interessata molto alla sua storia d’amore, anzi non m’interessava proprio.

    Al liceo, così come alle medie e alle elementari, ero una studentessa modello: i miei voti non andavano mai al di sotto dell’eccellenza. I miei compagni di classe mi vedevano come un’aliena venuta da chissà quale pianeta, ma a me non importava molto: ormai mi ci ero abituata e forse, sottolineo forse, mi piaceva anche stare uno o due gradini al di sopra degli altri, non per chissà quale vanto personale, ma semplicemente perché amavo dare soddisfazioni a mio padre e mia madre.

    Molto spesso i miei genitori, Carl e Rosalie, americani, mi spingevano a organizzare feste nella nostra tenuta con quelli che reputavano essere miei amici sperando che, magari, avrei trovato una dolce metà. Probabilmente temevano che il mio studio forsennato mi avrebbe portato a rimanere da sola e be’, in effetti, non sbagliavano di molto: alla mia stessa età molte mie coetanee avevano avuto una lunga schiera di pretendenti, mentre a me non dava retta nemmeno il gatto di casa.

    I miei genitori non avevano di certo ignorato la mia passione per il mondo della giustizia e, dopo che ebbi concluso gli studi presso la scuola superiore, non ci pensarono due volte prima di contattare un loro caro amico, Anthony Burke, e chiedergli di farmi entrare in futuro nel suo prestigioso team di avvocati nella tanto sognata America – può sembrare strano, ma anche se i miei genitori erano americani, non mi avevano mai portato lì, nel loro Paese natale.

    Burke accettò, a patto che concludessi il corso di laurea con il massimo dei voti.

    Amavo le sfide e sicuramente non avrei perso quella.

    Dopo tanti e impegnativi anni di studio, nella prima settimana di maggio salutai i miei genitori, promettendo loro che sarei certamente tornata ogni tanto, quando il tempo me lo avrebbe concesso.

    Ogni volta che ripensavo al volto rigato di lacrime di mia madre, ogni volta che ripensavo al suo Mi raccomando, stai attenta!, seguito da una carezza sulla guancia, percepivo una morsa allo stomaco: sapevo che mi sarebbe mancata moltissimo, dato il nostro stretto legame. Mio padre, al contrario di mia madre, aveva l’espressione composta di sempre, ma conoscendolo bene ero sicura del fatto che sotto sotto nascondeva delle forti emozioni: avrei quasi potuto giurare di aver visto i suoi occhi lucidi, bagnati appena da lacrime che, magistralmente, seppe tenersi dentro come se non avessero mai tentato di uscire. Mi consideravano ancora la loro bambina nonostante i miei ventisette anni, e non mi dispiaceva affatto esserlo, se questo li rendeva felici.

    Passai le dodici ore di viaggio in aereo con lo sguardo perso nel vuoto, ascoltando canzoni che avevo accuratamente selezionato prima di partire e tenendo passivamente il tempo picchiettando con l’indice destro sul bracciolo del sedile su cui ero seduta. Chissà quante volte il mio vicino – un signore sulla sessantina che era intento a leggere – avrà imprecato, dentro di sé! Lo vedevo spesso volgere gli occhi al cielo e muovere le mani, quasi per evidenziare quanto fosse infastidito.

    Nonostante ciò continuai a infastidirlo – se così si può dire – anche perché dovevo pur passare il tempo in qualche modo!

    Quasi ogni ora l’hostess di turno si avvicinava a tutti i passeggeri, uno dopo l’altro, per accertarsi che stessero vivendo serenamente il viaggio ed eventualmente segnare qualche ordine. Mi irritavano la sua petulante presenza, i suoi capelli rossi raccolti in malo modo – ero una maniaca dell’ordine – e il falso sorriso che, come da contratto, era costretta a sfoggiare. Be’, era il suo lavoro e io non avrei potuto certo impedirle di svolgerlo, purtroppo.

    Dopo aver passato la metà del viaggio con le cuffie alle orecchie, mi accorsi che avevano cominciato a fischiarmi, quasi come se implorassero un momento di riposo. Così spensi il lettore musicale – per la gioia del mio vicino – e non ebbi nemmeno il tempo di guardarmi un po’ attorno che crollai in un sonno profondo. Mi svegliai di soprassalto quando Deborah – la rossa, fastidiosissima hostess – mi scrollò per avvertirmi che ormai l’aereo era atterrato: non mi piaceva essere svegliata così, soprattutto da una sconosciuta che per di più mi era antipatica.

    La ringraziai con lo stesso sorrisetto che lei sfoggiava con tutti i passeggeri, aprii la borsetta che avevo con me, tirai fuori uno specchietto, un lucidalabbra e un eye-liner e mi ritoccai quel po’ di trucco che avevo ancora sul viso.

    Scesi dall’aereo cercando di non inciampare addosso a nessuno – appena sveglia ero più sbadata del solito – mi precipitai frettolosamente verso il mio trolley e diedi un’occhiata ai parenti/conoscenti/amici dei passeggeri che erano sullo stesso mio volo, cercando qualcuno che fosse venuto a prendermi.

    Avevo ancora gli occhi un po’ appannati dal sonno, ma riuscii comunque a leggere un cartello bianco su cui c’era scritto Miss Carter. A tenerlo fra le mani era un ragazzo alto circa un metro e ottanta, corporatura massiccia, carnagione non proprio chiarissima, capelli corti color nero corvino, occhi azzurri. La maglietta aderente bianca a maniche corte, che cadeva come un guanto fin su la vita – dove poi iniziavano i jeans – definiva ancor meglio quelli che sembravano essere dei muscoli ben torniti. Doveva essere Eric, il figlio della famiglia che stava per ospitarmi. Be’, che dire: davvero una bella accoglienza! Il ragazzo sembrava essere agitato o… spazientito: strizzava gli occhi come per voler veder meglio tra la gente, cercando di scorgere qualcuno dirigersi verso di lui, e, allo stesso tempo, tamburellava a terra con il piede destro, spostando il peso del suo corpo sulla gamba sinistra. Tentai di farmi spazio tra la folla, travolgendo con il trolley i piedi di chiunque – non lo facevo di proposito, ma dovevo pur sbrigarmi – fino a quando non mi trovai dinanzi al ragazzo. Lo guardai. «Eric Burke?», chiesi, accennando un timido sorriso.

    «Ehm sì… sono… sono io!», rispose il giovane un po’ imbarazzato, mentre si scompigliava i capelli con una mano e reggeva il cartello con l’altra.

    «Piacere, sono Ashley Carter», allungai la mia mano verso di lui.

    «Piacere mio!», me la avvolse con una forte stretta. «Benvenuta! Era già un po’ che ti aspettavo: il tuo volo è in ritardo», disse, e lasciò cadere delicatamente la sua mano.

    «Oh, mi dispiace». Non mi ero accorta degli avvisi del comandante, visto il sonno profondo.

    Ci fu qualche secondo di silenzio.

    «Vuoi che ti dia una mano con il bagaglio?». Eric, per sbloccare la situazione, si allungò verso il mio gigantesco trolley senza darmi neanche il tempo di potergli rispondere.

    «Se proprio vuoi…», feci spallucce. «Grazie!», risposi gentilmente.

    Mi fece l’occhiolino, dopodiché si voltò. «Ora seguimi».

    Avevo paura di perdermi in quel vastissimo aeroporto pieno di gente che andava e tornava: mi sentivo spaesata. Riuscivo a seguire a malapena Eric che, nonostante si stesse trascinando dietro il mio grande e pesante trolley, sfrecciava come un razzo e non si voltava mai indietro.

    Arrivati davanti alla sua macchina – una Cadillac Escalade nera –, Eric aprì il portellone posteriore, sollevò il trolley senza alcuno sforzo e lo pose nel suo interno; poi mi invitò ad accomodarmi al posto del passeggero, accanto al conducente.

    Dopo un viaggio di più di mezz’ora passato in un completo, imbarazzante silenzio arrivammo a casa. Avevo una vaga idea di come fossero le grandi ville americane, visto che i miei ne avevano costruita una di dimensioni notevolmente ridotte in Italia nella periferia della città dove vivevo, ma quella era davvero eccezionale! Dietro il massiccio cancello di ferro battuto che si stava aprendo proprio dinanzi a noi, si liberava un’immensa distesa di prato verde ben curato, degli alberi che segnavano il sentiero che avrebbe portato all’ingresso della casa e, più avanti, una piscina di dimensioni olimpioniche abbellita con scalette mosaicate e isolotti con palme: un paradiso!

    Poco distante da questa, si ergeva imponente l’umile casa: mattoncini marrone ricoprivano tutta la facciata composta da tre archi – quello centrale era il più ampio – attraverso cui si accedeva a tre diverse entrate. Sopra questi archi si stagliavano altri due piani circondati da lunghe balconate. Infine, un grazioso tetto spiovente rosso intenso fungeva da ciliegina sulla torta.

    Eric parcheggiò poco distante dall’arco sulla sinistra.

    «Prendo il bagaglio e ti faccio strada», disse, estraendo la chiave della macchina dal quadro.

    Non riuscii neanche a ringraziarlo perché la mia mascella inferiore quasi toccava terra per lo stupore, di fronte a quel posto magnifico e surreale.

    «Ashley, ci sei?». Eric sorrideva, mentre mi passava una mano davanti agli occhi.

    Scossi la testa quasi come volessi liberarmi da quell’attimo di standby. «Oh sì, sì certo. Scusami, ma casa tua è davvero… be’… meravigliosa!», non riuscii a dire altro.

    Eric rise e scosse la testa. Per lui l’infinita bellezza della sua villa non era motivo di meraviglia ovviamente, ma si rendeva conto dell’effetto che poteva destare negli ospiti.

    Entrammo dall’entrata principale: appena il portone si aprì, mi trovai dinanzi a una scala che si divideva in due e portava in diverse aree della casa. Rimasi colpita dal marmo sotto i miei piedi che era lucente al punto tale da riflettere anche i minimi dettagli.

    «Perdonami, ma i miei genitori sono al lavoro: torneranno poco prima di cena. Intanto ti mostro la casa, soprattutto la tua stanza, così potrai riposarti un po’. Immagino che il viaggio sia stato estenuante».

    Accennai un sì con la testa, accompagnato da un timido sorriso.

    «Ecco, questa è la tua camera», disse Eric dopo aver spalancato una porta.

    Un letto a baldacchino a due piazze, color beige, con tre cuscini enormi; pavimento sempre in marmo. Sulla destra una poltrona di pelle dello stesso colore del letto, poco distante dalla cabina armadio color mogano ampia almeno tre metri; sulla sinistra una lunga vetrata si apriva sul balcone con la ringhiera di ferro battuto, da cui pendevano surfinie rosa.

    «Spero ti piaccia. Ah, dimenticavo», aggiunse il ragazzo. «Questo è un piccolo omaggio per te», e indicò una meravigliosa piantina di orchidee bianche posta sul lato destro del mio letto, tra un comodino su cui poggiava un abat-jour e una scrivania su cui vi era un computer portatile che fungeva anche da televisore.

    «Wow, è a dir poco meravigliosa!». Corsi a osservare la pianta più da vicino. «Come sapevate che le orchidee bianche sono i miei fuori preferiti?»

    «Be’, potrà sembrarti strano, ma i tuoi genitori ci hanno fornito un dettagliato elenco di cosa ti piace e cosa invece no».

    Scoppiai a ridere, proprio come fece lui: forse non era carino, ma non potei resistere! E no, tanto per la cronaca, non mi sembrò strano: dai miei genitori, in particolare da mia madre, mi sarei aspettata una cosa del genere.

    «Ashley, fa’ pure quello che vuoi, io sono di sotto: qualsiasi cosa dovesse servirti, be’, basta chiamare». Mi fece l’occhiolino ancora una volta.

    Chiuse la porta e mi lasciai cadere sul letto a braccia aperte: nonostante avessi dormito durante il viaggio, avevo ancora molto sonno. Forse era colpa del fuso orario.

    Facendomi coraggio mi alzai, stropicciai gli occhi, disfeci il bagaglio e mi precipitai in bagno per una doccia veloce. Cambiai immediatamente idea quando, una volta aperta la porta del bagno interno alla mia stanza, vidi una modesta vasca idromassaggio e, senza pensarci su, mi ci fiondai dentro.

    Quella casa era davvero il massimo!

    Trascorsi all’incirca tre quarti d’ora nella vasca. Uscii frettolosamente quando mi accorsi che era passato già un bel po’ di tempo. Avevo voglia di una boccata d’aria: tutto quel vapore che si era formato in bagno stava quasi per farmi perdere i sensi. Mi avvolsi rapidamente l’accappatoio attorno al corpo e un asciugamano attorno alla folta capigliatura color castano chiaro, indossai le infradito e aprii la grande vetrata che dava sul balcone, per affacciarmi.

    Da lì godevo certamente di un ottimo panorama: una vasta distesa verde e una grande macchia azzurra proprio sotto il mio balcone.

    «Ehi!», sentii chiamare.

    Eric, mentre nuotava in piscina, notò i suoi genitori che avevano appena parcheggiato e stavano scendendo dall’automobile, una Mercedes grigia.

    In un attimo il ragazzo attraversò tutta la piscina per andare a salutare Mr e Mrs Burke, raggiunse le scalette mosaicate e, man mano che le saliva, faceva emergere il suo corpo: l’acqua gli gocciolava dai capelli per poi scendere sul petto e delineare ancor meglio i pettorali da campione olimpionico. Scrollò la testa per liberarsi dell’eccesso d’acqua, afferrò un asciugamano che aveva in precedenza posato all’entrata della piscina, si asciugò e abbracciò i suoi genitori.

    Mi ritrassi pian piano dietro le tende del mio balcone, così da poter sbirciare senza farmi notare più di tanto.

    La signora Burke era una donna sulla cinquantina, alta quasi quanto me, cioè un metro e sessantacinque all’incirca; vestiva vintage e di lei mi colpirono soprattutto la delicatezza dei lineamenti e la morbidezza dei capelli biondi, leggermente cotonati, che poggiavano soffici sulle spalle dritte; il signor Burke forse era di un paio d’anni più anziano di sua moglie, alto poco meno di suo figlio, capelli brizzolati, corpo robusto: aveva l’aria del tipico uomo d’affari.

    Li vidi entrare in casa, così rientrai anch’io, in punta di piedi.

    Passarono circa quindici minuti e… toc toc. Sentii bussare alla porta.

    «Ashley, sono io, Eric. Volevo solo avvisarti che…». Stava urlando per farsi sentire.

    Lo interruppi, aprendo immediatamente la porta.

    «Sì, dimmi pure».

    Continuò a parlare, ma non capii cosa stesse dicendo: mi ero persa nei suoi occhi azzurri, che riprendevano il colore della maglietta che indossava. Forse non si era asciugato bene prima di vestirsi: infatti, in alcune parti la maglia aderiva di più al busto e acquisiva un colore più scuro.

    «Allora, tutto chiaro?», terminò.

    Scossi la testa, dato che non avevo capito nulla di quello che aveva detto: certamente non avevo fatto poi una bella figura.

    «Ehm», si schiarì la voce. «Dicevo che tra una mezz’oretta circa andremo a cena fuori tutti e quattro, se per te va bene», disse una volta ancora, con la voce più ferma.

    «Oh, ma certo!», risposi, rossa dalla vergogna. Per evitare che Eric lo notasse feci per chiudere la porta, ma lui la bloccò piazzandovi il piede davanti.

    «Ti dispiacerebbe scendere al piano di sotto? I miei genitori sono appena arrivati e vorrebbero conoscerti».

    Ovviamente risposi di sì, promettendogli che sarei scesa in massimo due minuti d’orologio.

    In un battibaleno mi cambiai: mi tuffai nella cabina armadio per scegliere rapidamente cosa avrei potuto indossare. Mi ricordai di un vestitino rosso con scollo a V, maniche a tre quarti, lungo al ginocchio: lo presi e lo indossai. Avevo anche delle scarpe alte color avorio e una borsetta in tinta: perfetto! Sistemai i voluminosi capelli che avevo già asciugato prima che Eric arrivasse e scesi al piano inferiore, con il cuore in gola: mi sentivo sempre in tremenda difficoltà quando dovevo conoscere gente nuova.

    Non appena arrivai giù, la signora Burke mi accolse con un caloroso abbraccio, mentre suo marito mi diede una salda stretta di mano, molto professionale.

    «Spero che Eric sia stato un buon cicerone», mi accolse la signora Burke.

    «Oh, ma certo signora», sorrisi.

    «Cara, chiamami pure Mary».

    «Ho una fame da lupi! Andiamo, il ristorante in centro ci aspetta!», ci interruppe Anthony, cioè il signor Burke.

    Raggiungemmo il ristorante con due macchine diverse: Mr e Mrs Burke con la loro Mercedes, Eric e io con la Cadillac.

    «Buonasera, sono Mr Burke. Ho prenotato un tavolo per quattro nel salone principale», disse Anthony, dopo essersi chinato sul bancone all’entrata.

    «Ben arrivato, Mr Burke. Mi segua, per favore». Il responsabile di sala accennò una piccola riverenza. Evidentemente Burke era un cliente abituale.

    «Prego, accomodatevi. Questi sono i vostri menu. Non appena avrete scelto, sarò qui da voi per prendere gli ordini».

    Mr Burke si sedette e congedò il cameriere con un cenno della mano, mentre teneva fissi gli occhi sul menu.

    «Ashley, accomodati». Eric, gentilmente, scansò la sedia dal tavolo per farmi sedere; Mary apprezzò particolarmente il gesto del figlio e dall’espressione sembrava quasi sperasse che suo marito facesse lo stesso. Anthony invece si era già seduto e non accennava a volersi rialzare.

    «Grazie», risposi con un filo di voce e il sorriso a mille denti.

    Il menu era vastissimo, non sapevo davvero cosa scegliere, così mi lasciai consigliare dal mio nuovo amico, che mi elencò una serie di piatti che, solo dal nome, facevano venire l’acquolina in bocca. Quando credevo che Eric avesse terminato di parlarmi del menu, si schiarì la voce e portò la mano destra alla bocca. «Che ne pensi del cioccolato?», disse a bassa voce, dopo essersi avvicinato al mio orecchio.

    «Direi proprio che lo amo!». Ed era vero, non lo avevo detto tanto per compiacerlo.

    «Bene, allora ti consiglio di provare la Chocolate Cake… la trovo deliziosa! Fidati di me, non è la classica torta al cioccolato». Chiuse il menu per poi riprendere a conversare. «Spero tu non sia una di quelle fissate con la linea, perché è a dir poco ipercalorica!».

    «No, no… assolutamente!». Mentre parlavo con Eric giocherellavo con l’orlo della tovaglia: temevo che guardandolo in faccia sarei arrossita. Ogni tanto gli lanciavo un’occhiata con la coda dell’occhio, sperando che non avesse scambiato il mio imbarazzo per maleducazione.

    Non mi sentivo molto a mio agio e la disposizione dei posti a tavola di certo non era dalla mia parte. Tavolo rettangolare: Eric era alla mia destra, Anthony di fronte a me. Non sapevo se a mettermi più in imbarazzo fosse l’austerità del secondo o la galanteria del primo. Fortunatamente Mary, quando notava che le mie guance cambiavano tonalità, diventando più rosse, mi sorrideva, quasi per dirmi Tranquilla, è tutto ok.

    Mr Burke attirò l’attenzione di Joseph, il cameriere, con un cenno della mano.

    «Va bene così?», concluse il cameriere non appena finì di prendere tutti gli ordini.

    «Certamente». Anthony chiuse il menu che aveva fra le mani e glielo consegnò.

    Mentre i due parlavano, ne approfittai per alzare un po’ lo sguardo e guardarmi attorno: pavimento in parquet, pareti in bianco e rosso bordeaux; sulla nostra testa c’era un enorme lampadario di cristallo con almeno una trentina di bracci che si estendevano come i tentacoli di un polipo per tutta la sala. Per curiosità, provai a fare una stima di quanti cristalli ci fossero su tutto il lampadario, ma riuscii solo a contare centoventi piccole sfere di cristallo su un singolo braccio. Tentai quindi di fare un rapido calcolo, moltiplicando centoventi per trentasei: faceva più o meno quattromilatrecen…

    «Ashley, allora, com’è andato il viaggio?». Anthony interruppe il mio complicato calcolo, addolcì il tono di voce e, con mia sorpresa, accennò un sorrisino, come per farmi capire che non dovevo temerlo.

    Schiarii la voce e dissi: «Ehm… abbastanza bene, signore. Ho passato la maggior parte del tempo ad ascoltare musica e a dormire… soprattutto a dormire. All’arrivo l’hostess ha dovuto svegliarmi: ero caduta in un sonno talmente profondo che non mi ero accorta dell’atterraggio!».

    Anthony rise di buon gusto, ma senza far passare il mio intervento come qualcosa di ridicolo: voleva semplicemente mettermi a mio agio.

    Fortunatamente gli antipasti arrivarono in fretta.

    Assaggiai un boccone di tutto per poi congratularmi con Eric per la scelta.

    «Sono contento che tu abbia gradito», rispose il ragazzo al mio timido complimento. «La prima volta che sono venuto qui con i miei genitori ho scelto proprio queste pietanze e sono rimasto… folgorato!». Parlava esaltato dell’ottima cucina del locale.

    Arrivati al dessert, tagliai la punta della cioccolatosa fettina di torta da cui scivolò fuori una rosea crema di fragole e la portai alla bocca; Anthony mi guardò, aggrottando le sopracciglia. Lo notai e il cuore iniziò a battermi a mille. C’era qualcosa che non andava in me?

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