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La disfatta di Adolf Hitler
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La disfatta di Adolf Hitler

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Le drammatiche e sconvolgenti vicende che accompagnarono la rovinosa caduta del Terzo Reich

La rapida ascesa e la rovinosa disfatta di uno dei più spietati tiranni che il mondo abbia mai conosciuto, Adolf Hitler, continuano a suscitare interrogativi che appassionano gli storici.
Come ha potuto uno straniero (Hitler era austriaco), la cui ideologia era condivisa solo da una minoranza e che non era neppure riuscito a diplomarsi, diventare cancelliere della Germania, giungendo a dominare i tedeschi e gran parte dell’Europa? E una volta raggiunto un simile potere, come ha fatto a perderlo in modo così drammatico, fino ad essere costretto al suicidio? Con L’ascesa di Adolf Hitler, che ha riscosso un grande successo di critica e di pubblico, Eugene Davidson, uno dei maggiori studiosi di questo periodo, ha fornito le risposte alla prima domanda. Questo nuovo volume si occupa adesso di dare una spiegazione al secondo quesito. La disfatta di Adolf Hitler analizza infatti quegli aspetti della vicenda politica e umana di Hitler che dal suo arrivo al potere lo condussero fino alla caduta e al suicidio: in che modo costruì intorno a sé il consenso dei tedeschi? Come ne risollevò il morale umiliato dalla sconfitta della prima guerra mondiale e dalle pesanti clausole imposte dai vincitori? Come riuscì a fare della Germania distrutta una potenza economica e militare? E infine, quali fatali errori di calcolo lo portarono a sottovalutare la forza della coalizione schierata contro il Reich? 

La rapida ascesa e la rovinosa disfatta di uno dei più spietati tiranni che il mondo abbia mai conosciuto, Adolf Hitler.

Tra i temi trattati nel libro:

• la presa del potere
• Röhm: il primo disincanto
• l’insurrezione in Austria
• presidente e cancelliere del Reich
• l’occupazione delle regioni del Reno
• il Saar e il riarmo
• i giochi di pace
• i generali decorati
• senza sparare un colpo
• negoziare contro tutti i pronostici
• l’accordo
• il crollo di Monaco
• la marcia su Praga
• la fine della pace
• la guerra
• l’ultimo bunker
Eugene Davidson
Autore di numerosi libri sul regime nazista, tra i quali The Nuremberg Fallacy, è stato Presidente Emerito del Congresso sui problemi dell’Europa e Presidente della Fondazione per gli Affari Esteri. È scomparso nel 2002. La Newton Compton ha pubblicato L’ascesa di Adolf Hitler, La disfatta di Adolf Hitler e Gli imputati di Norimberga.
LanguageItaliano
Release dateFeb 10, 2016
ISBN9788854192355
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    La disfatta di Adolf Hitler - Eugene Davidson

    397

    Titolo originale: The Unmaking of Adolf Hitler

    Copyright © 1996 by Eugene Davidson

    Traduzione di Rossella Grassellini

    Prima edizione ebook: febbraio 2016

    © 2001 Newton & Compton editori s.r.l.

    2016 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-9235-5

    www.newtoncompton.com

    Edizione elettronica realizzata da Gag srl

    Eugene Davidson

    La disfatta di Adolf Hitler

    Le drammatiche e sconvolgenti vicende

    che accompagnarono la rovinosa caduta del Terzo Reich

    Newton Compton editori

    Alla resistenza tedesca

    Ringraziamenti

    Mi c’è voluto molto tempo per realizzare questo libro; l’ho iniziato nel 1977, quando fu pubblicato quello precedente, L’ascesa di Adolf Hitler. Maria Abbadi ha battuto a macchina i primi capitoli, alcuni dei quali erano totalmente diversi dagli originali, ed ha avuto una capacità straordinaria di decifrare cambiamenti non sempre comprensibili. Evie Sullivan si è occupata non solo della battitura dell’ultima parte di un manoscritto altrettanto difficile da interpretare, ma del controllo delle fonti e della bibliografia e della lettura dell’intero progetto nelle fasi finali.

    Sono in debito col compianto Harold C. Deutsch per aver dato una lettura critica al manoscritto. Il professor Deutsch mi ha cortesemente messo a disposizione il testo – che non era stato ancora pubblicato – della sua intervista con l’ex Ministro degli esteri tedesco Richard von Kühlmann, contenente un racconto illuminante di quest’ultimo su come Hitler si accollò l’enorme rischio di inviare le sue forze simboliche nelle regioni del Reno, nonostante la schiacciante superiorità numerica delle truppe francesi che si opponevano loro.

    Il professor Robert H. Ferrell ha seguito fin dall’inizio lo sviluppo del libro. Ha letto scrupolosamente l’intero dattiloscritto, fornendo preziosi suggerimenti per migliorarlo e si è affannato per accelerarne la pubblicazione.

    Sono molto grato al direttore e caporedattore della University of Missoury Press, Beverly Jarrett, per il suo costante interesse per il manoscritto e alla perspicace redattrice, Annette Wenda.

    1

    La presa del potere

    Poche ore dopo aver giurato come cancelliere davanti al presidente il 30 gennaio del 1933, Adolf Hitler radunò il suo gabinetto. Fu una sessione in qualche modo artefatta, ma apparentemente armoniosa, in linea con le dichiarazioni del nuovo Hitler decoroso e conciliante delle ultime settimane, prima che Hindenburg avesse superato la sua avversione a nominare capo del governo l’uomo che chiamava il caporale boemo. All’apertura della riunione di gabinetto, Hitler cambiò immediatamente i toni di tolleranza e delle intenzioni generali che aveva adottato di recente, i modi, cioè, di apparente bonomia e decoro che erano stati di grande aiuto a Papen per convincere il presidente a nominare Hitler cancelliere. All’apertura dei lavori Hitler disse educatamente di sperare che i membri del gabinetto riponessero in lui la stessa fiducia che lui nutriva nei loro confronti.

    Questo clima di benevolenza fu esteso anche alle file dei comunisti. Hitler disse ai suoi ministri che forse poteva prendere in considerazione l’idea di bandire il partito comunista, di privare i deputati del loro mandato, e ottenere, così, la maggioranza nel Reichstag. Tuttavia, un provvedimento del genere sarebbe stato inutile. Ne sarebbero seguite sollevazioni popolari e poi uno sciopero generale. L’economia aveva bisogno di un periodo di tranquillità, e uno sciopero generale costituiva un pericolo di gran lunga superiore a quello di nuove elezioni, nonostante l’incertezza e le agitazioni che queste comportavano. In ogni caso, disse Hitler, era impossibile escludere dalla vita pubblica i sei milioni di persone che sostenevano il partito comunista.

    Quanto al partito centrista, tutti i membri del gabinetto furono d’accordo sulla necessità di avvicinarlo con circospezione. Avrebbero avuto bisogno dei loro voti, se volevano che il Reichstag adottasse il corso voluto da Hitler e lo prorogasse volontariamente. Il braccio destro di Hitler, Hermann Göring, disse al gabinetto che il cancelliere era rimasto in contatto con i leader centristi e che, anche se erano offesi per essere stati esclusi dai negoziati politici, aveva avuto, però, l’impressione che attendessero qualche segnale dal nuovo governo al quale, probabilmente, avrebbero risposto in modo favorevole.

    Era chiaro a tutti i membri del gabinetto che il pericolo imminente per il governo appena insediato era rappresentato da uno sciopero generale. Era stato proprio uno sciopero generale a porre fine al putsch di destra di Kapp del 1920, e se i comunisti e i socialdemocratici avessero unito le forze come avevano fatto i comunisti e i nazionalsocialisti poco prima delle elezioni del novembre del 1932 nel supportare lo sciopero dei trasporti di Berlino, tutta l’economia, già ingovernabile, avrebbe rischiato di affondare, e il governo con essa.

    Non vi erano dubbi che i comunisti avrebbero proclamato uno sciopero generale; l’unica incertezza era rappresentata dall’adesione dei socialdemocratici. Tutti sapevano che i due partiti di sinistra erano divisi sulle politiche pragmatiche più di quanto lo fossero i nazionalsocialisti. Non solo i comunisti si erano alleati coi nazisti per sostenere lo sciopero selvaggio dei trasporti, ma i due partiti avevano collaborato in più occasioni come i principali partiti attivisti e rivoluzionari della Germania per abbattere governi repubblicani di qualsiasi tipo, che fossero guidati dal centro, dalla destra o dai socialdemocratici. Göring sottolineò che era improbabile che i due partiti si sarebbero coalizzati in uno sciopero generale.

    Hitler e il suo gabinetto, che comprendeva il suo principale avversario del Partito popolare nazionale tedesco, l’industriale Alfred Hugenberg, ritenevano che il compito immediato era assicurarsi d’impedire ai comunisti di capeggiare un’opposizione attiva. Su questo l’intera coalizione si mostrò d’accordo. D’allora in poi, le strade si separarono. Hitler era determinato a indire nuove elezioni, ed era sicuro che avrebbero almeno accresciuto il numero dei parlamentari nazionalsocialisti e che questi, viste le posizioni chiave già ricoperte nel governo, avrebbero potuto ottenere la maggioranza.

    Di sicuro l’ultima cosa che voleva Hugenberg erano nuove elezioni. Era improbabile che, in un’eventuale campagna combattuta contro Hitler per il posto di cancelliere, i Nazionalisti ce la potessero fare contro gli avversari nazisti. Tuttavia, logicamente Hugenberg non poteva opporsi alle elezioni, se voleva tenere in vita la speranza di una coalizione governativa di destra operativa. Così, alla fine della riunione di gabinetto, fu deciso che Hitler prendesse contatti coi leader centristi, i cui voti erano essenziali in caso di naufragio del Reichstag. Hugenberg concordava sul fatto che non ci si dovesse inimicare i centristi, e gli fu ricordato con sollievo da Göring e Hitler che, a prescindere dal risultato delle nuove elezioni, i membri del governo attuale avrebbero mantenuto i propri incarichi. Hitler glielo aveva già detto prima del giuramento d’insediamento, e ora gli rinnovava la promessa.

    Durante la riunione non ci furono controversie. L’unico atto che avrebbe potuto far esitare gli esponenti non nazisti del governo fu uno sul quale concordò il gabinetto. Göring disse loro che aveva proibito una dimostrazione indetta dal partito comunista prevista di lì a qualche ora. Aggiunse che non credeva che i socialdemocratici si sarebbero uniti ai comunisti nel proclamare uno sciopero generale, ma che, anche se ne avessero avuto l’intenzione, non sarebbe stata data loro l’opportunità di unirsi alle dimostrazioni proibite di Berlino. Anche per la questione dello sciopero generale Hitler fu attento alla suscettibilità dei suoi colleghi ministeriali. Assicurò al generale Werner von Blomberg, l’uomo che il presidente Paul von Hindenburg aveva nominato Ministro della difesa prima che Hitler prestasse giuramento come cancelliere, che non sarebbe ricorso alla Reichswehr per reprimere un eventuale sciopero, e Blomberg, che condivideva l’opinione diffusa degli ufficiali della Reichswehr, secondo la quale l’esercito doveva essere utilizzato solo contro il nemico straniero e mai contro il proprio popolo, lo ringraziò.

    Questa fu una riunione civile, pacifica, così come lo furono quelle immediatamente successive. Il barone Constantin von Neurath, il nuovo Ministro degli esteri, disse a Sir Horace Rumbold, l’ambasciatore inglese a Berlino, che il comportamento di Hitler durante quelle sedute era stato esemplare. Neurath gli disse anche che, in alcune occasioni, durante le riunioni di gabinetto, Hitler aveva persino votato contro la posizione di due compagni nazionalsocialisti, ed era chiaro che questa era effettivamente una coalizione di governo ben lontana dalla dittatura di un solo partito che si erano prefissati tempo addietro i nazisti.

    Il sogno dei deputati non nazisti di una coalizione di tutti i partiti di destra (il cosiddetto fronte di Harzburg) nel 1931, era destinato a durare pochi giorni, o mesi, a seconda di quanto il sognatore desiderasse rimanere in questo mondo notturno¹. A quasi tutto il paese la prospettiva non appariva molto più rischiosa di quanto lo fosse stata per molto tempo. I comunisti indissero lo sciopero generale il 30 gennaio, il giorno in cui s’insediò il governo Hitler, denunciando la dittatura fascista di Hitler, Papen, Hugenberg e Franz Seldte, il leader dello Stahlhelm. L’appello allo sciopero fu rivolto al partito socialdemocratico (SPD), al centro e a tutti i sindacati, ma, ad eccezione dei comunisti che lo avevano proclamato, fu ignorato. Come aveva previsto Göring, lo sciopero generale non ebbe luogo. L’SPD, nel suo manifesto elettorale, chiese ai propri deputati di votare contro i nemici dei lavoratori e del socialismo e a favore dell’appropriazione dei grandi latifondi e della concessione di terre agli operai e ai contadini, ma non volle fare fronte comune coi comunisti. Lo sciopero generale non iniziò mai veramente. Quasi tutto il paese si adattò facilmente agli sviluppi politici. Il «Frankfurter Allgemeine» – notò con approvazione Rumbold – scrisse che era incredibile che l’uomo che si era congratulato con gli assassini che avevano picchiato a morte i comunisti a Potempa nel 1932 (un efferato omicidio commesso dalle truppe d’assalto naziste) potesse essere ora il cancelliere della Germania. Rumbold osservò anche che questo era un governo di minoranza schierato contro la grande maggioranza del popolo tedesco e dei suoi sindacati. Schierati contro i nazionalsocialisti al potere erano la Chiesa, l’esercito, gli intellettuali e i due terzi della popolazione. Un terzo della popolazione nazista – scrisse Rumbold – era un movimento costituito principalmente da uomini e donne al di sotto dei trent’anni.

    Pochi, eccezion fatta per i suoi sostenitori, si aspettavano che il governo sopravvivesse molto più a lungo di quelli precedenti. Era un’altra coalizione incompatibile, questa volta del fronte di Harzburg, che precedentemente non era riuscito a mantenere una sorta di unità e, considerando le forze che erano già schierate contro di essa, aveva solo qualche possibilità di sopravvivenza in più rispetto ai governi precedenti di Papen o Kurt von Schleicher o di qualsiasi altro governo di minoranza che aveva barcollato durante le ricorrenti crisi di Weimar. Papen e Hugenberg si erano convinti che erano loro a tenere Hitler sotto controllo, e non il contrario².

    Fu questa versione dell’equilibrio del potere politico, unitamente alla dichiarazione di Papen che il nuovo Hitler poteva essere contenuto nella cornice di un governo tradizionale, a persuadere il riluttante presidente che un governo guidato da Hitler era in grado di trovare soluzioni agli innumerevoli problemi che affliggevano la nazione.

    Il 31 gennaio, il giorno dopo la prima riunione del gabinetto, Hitler invitò ad un incontro i capi del partito centrista, monsignor Kaas e Heinrich Brüning³. Brüning era malato e fu sostituito da Ludwig Perlitus, presidente dei deputati parlamentari centristi, che annotò le conversazioni. Kaas era un prelato cattolico retto e devoto, il cui principale scopo politico era salvaguardare la posizione della Chiesa e preservare l’eredità politica cattolica in una società minacciata dagli estremisti di destra e di sinistra, dai protestanti nazionalisti prussiani, dai comunisti e dai socialdemocratici. Tuttavia, egli non aveva né l’acume politico né la spietatezza di Hitler. Kaas era cauto e circospetto: «Siamo venuti», disse a Hitler, «per avere delle informazioni da Lei; per il momento noi non abbiamo niente da dirle». Hitler, a sua volta, mostrò tutta la cortesia austriaca e un’apparente cordialità. Cominciò subito a lavorare sull’unico punto che lui e Kaas avevano in comune: l’anticomunismo. Dopo aver rassicurato Kaas sulla sua fedeltà e sulle decisamente onorevoli intenzioni di trattare col partito centrista, Hitler proseguì dicendo che il comunismo doveva essere distrutto; era un corpo estraneo nella società tedesca. Rassicurò, però, Kaas di non voler estromettere con la forza dal Reichstag i rappresentanti di milioni di tedeschi. Si era trovato a prendere una decisione difficile: o accettava l’incarico di cancelliere o ci sarebbe stata una dittatura militare. Quando Kaas protestò per il fatto che al centro non erano stati offerti incarichi, Hitler rispose in modo disarmante che non era colpa sua. Si era preparato a collaborare col centro, ma cosa poteva fare con i Nazionalisti infetti dal furor protestanticus? I Nazionalisti non erano disposti ad ammettere i centristi nel gabinetto di coalizione, un’astuzia che, sottolineò Hitler, era condivisa da Papen. Il riferimento era naturalmente volto a enfatizzare un altro animus condiviso dai due uomini. Kaas si era sentito vilmente tradito da Papen, che aveva promesso solennemente che non avrebbe accettato la Cancelleria per rimpiazzare il suo amico centrista Brüning, e poi, a distanza di poche ore, aveva accettato la carica. Tuttavia, con quella osservazione casuale, Hitler aveva esaurito gli esempi delle questioni politiche condivise con Kaas, e questi gli disse che il partito centrista non si sarebbe accontentato dei fondi del caffè. Volle sapere quello che intendeva fare Hitler, prima di sostenerne il governo. Kaas aveva in mente una serie di domande che, data l’urgenza della questione, si proponeva di porre a Hitler quel pomeriggio. Le risposte avrebbero consentito a lui e ai leader centristi di decidere se appoggiare la richiesta di Hitler di sciogliere il Reichstag per un anno, un periodo che – sosteneva Hitler – avrebbe posto fine, temporaneamente, alle discussioni parlamentari e gli avrebbe dato tempo per affrontare i terribili pericoli che minacciavano la nazione.

    La lista delle dieci domande di Kaas fu debitamente consegnata a Hitler il 31 gennaio alle cinque di pomeriggio. Erano tipiche del metodico, laborioso e retto Kaas e della sua idea del tipo di assicurazioni che avrebbero protetto il suo partito e il Reich stesso dagli eccessi di cui sarebbero stati capaci i nazionalsocialisti. Nel suo questionario Kaas chiese quale tipo di rassicurazioni il governo fosse in grado di offrire circa la legalità costituzionale dei provvedimenti adottati. Poteva dare garanzie vincolanti che non sarebbero stati adottati provvedimenti anticostituzionali durante il cosiddetto stato di emergenza? Il governo era pronto a tornare a normali procedure costituzionali in Prussia (dove il Landtag era stato prorogato e Papen ricopriva l’incarico di Reichskommissar), e in che modo si sarebbe concretizzata tale normalizzazione? C’erano altre domande riguardanti i programmi sociali e i piani di Hitler per continuare una coalizione governativa ed impedire una nuova inflazione. Erano domande serie e avevano senso in un normale contesto politico, ma Hitler non tentò mai di darvi una risposta.

    Il giorno dopo poté prontamente ignorare il questionario, perché era riuscito ad assicurarsi da Hindenburg quel decreto per lui essenziale che scioglieva il Reichstag e indiceva nuove elezioni⁴. Hitler rispose, ancora una volta con un tono apparentemente gentile, assicurando a Kaas di aver letto la sua lettera con estremo interesse; Hitler ripeté che la tregua dall’incompetenza parlamentare era l’unico sistema con cui poteva preservare costituzionalmente lo Stato tedesco e il suo popolo. Scrisse che i quesiti sollevati da Kaas avevano senso solo se fosse passato almeno un anno prima di dare loro una risposta.

    Hitler trattò Kaas con le mosse studiate di un oratore politico nato senza concedergli nulla: niente seggi nel gabinetto, niente assicurazioni e nessuna risposta alle sue domande. Kaas poté solo ripetere impotentemente che lui e il suo partito erano stati tagliati fuori dal governo, sebbene la loro partecipazione avrebbe potuto dar vita ad una maggioranza governativa nel Reichstag e che le risposte ai suoi quesiti, anche se solo in linea di massima, avrebbero potuto far sì che egli collaborasse con la coscienza pulita. Lamentò il fatto che le trattative erano state improvvisamente interrotte e, contrariamente alla dichiarazione del presidente nel suo ordine di scioglimento, secondo la quale era impossibile dar vita a un governo di maggioranza, affermava che di fatto un governo simile era possibile. Kaas aggiunse che aveva ritenuto suo dovere inviare una copia della propria lettera al presidente. Hitler, però, almeno per il momento, non aveva più bisogno di Kaas o del centro o di rispondere alle accuse. Il Reichstag era stato sciolto e si sarebbero tenute nuove elezioni.

    Il 1° febbraio, lo stesso giorno in cui Hitler e Kaas si scambiarono le lettere, la coalizione governativa presentò all’elettorato un manifesto ad ampio spettro mirato a ottenere voti da ogni segmento della popolazione a destra dei comunisti.

    Era un documento inconfondibilmente hitleriano: autocompassionevole, pomposo e infarcito di frasi che sarebbero riapparse costantemente nei suoi discorsi. Asseriva che il governo nazionalista si era assunto una terribile eredità, il compito che si trovavano ad affrontare era il più difficile che fosse mai stato assegnato agli statisti tedeschi nella memoria dell’umanità. Il governo, però, promise di promuovere la cristianità come base di tutta la moralità e la famiglia come nucleo del popolo e dello Stato tedesco, di ridare vita alla coscienza del völkisch tedesco e all’unità politica al di sopra di ogni distinzione classista, e di fornire una base per l’istruzione della gioventù tedesca, ripristinando il rispetto per il passato germanico e l’orgoglio per le sue tradizioni.

    Il manifesto dichiarava guerra spietata al nichilismo politico e culturale e asseriva che il governo era determinato ad impedire che il Reich affondasse nel comunismo anarchico. L’economia sarebbe stata riorganizzata con due grandi progetti di quattro anni. In quattordici anni il vecchio regime aveva mandato in rovina i contadini e creato un esercito di milioni di disoccupati. In quattro anni i contadini si sarebbero risollevati dalla miseria, l’economia sarebbe rifiorita e la disoccupazione sarebbe stata finalmente debellata. Negli affari internazionali il governo riteneva che la sua missione più importante fosse la difesa del diritto alla vita del popolo e della riconquista della libertà. Era pronto a collaborare con la comunità delle nazioni alla pari per garantire e mantenere la pace. E, dal momento che amava profondamente l’esercito, portatore d’armi della na­zio­ne e simbolo del suo grande passato, il governo sarebbe stato felice se il resto del mondo, con la riduzione degli armamenti, non avesse reso necessario l’aumento della produzione delle armi tedesche.

    I rappresentanti del governo, dichiarava il manifesto, si sentivano responsabili nei confronti della storia tedesca della ristrutturazione di un corpo politico ordinato e, una volta raggiunto questo obiettivo, del porre fine una volta per tutte alla guerra di classe.

    Il governo si riteneva responsabile non nei confronti delle classi ma del popolo tedesco, insieme al quale avrebbe vinto la lotta o col quale sarebbe affondato. «Ora, tedeschi», disse, «dateci quattro anni e poi giudicateci e condannateci». Fedeli all’ordine del feldmaresciallo von Hindenburg, volevano dare inizio ai propri progetti. Chiesero l’aiuto di Dio e la fiducia del popolo, in quanto desideravano lottare non per se stessi, ma per la Germania. Il manifesto fu firmato da tutto il gabinetto, compresi Hitler, Papen Neurath, Blomberg e gli altri, e quello fu il primo e l’ultimo documento che firmarono insieme in segno di solidarietà e che durò non più dell’inizio della campagna elettorale.

    Anche se il gabinetto di Hitler, durante quei primi giorni del nuovo governo, era apparentemente caratterizzato dalla pace e dall’armonia, le strade erano lo scenario della battaglia. La dimostrazione dei comunisti a Berlino fu proibita, ma ebbero luogo scontri tra i comunisti e i nazionalsocialisti e furono arrestate centinaia di persone, di cui ottantadue – quasi tutti comunisti – a Berlino solo il 1° febbraio. Ad Amburgo furono uccise quattro persone, e ci furono morti e feriti in altre città. Alcune volte furono i nazisti ad essere arrestati dalla polizia in seguito a delle risse, ma furono principalmente gli esponenti dei partiti di sinistra a riempire le carceri dopo questi scontri. I disordini non erano una novità nelle città del Reich; la novità era rappresentata dal fatto che l’asse politico si era palesemente spostato verso i nazionalsocialisti. Era Göring che, come Ministro degli interni della Prussia, controllava la polizia locale, e perfino nelle zone del paese in cui i nazionalsocialisti non potevano dare ordini alla polizia, era probabile che fossero i loro avversari a trovarsi con le mani legate. Come minimo, la polizia poteva leggere i giornali o ascoltare la radio e informarsi da che parte soffiasse il vento.

    Le reazioni popolari al nuovo governo furono di segno diverso. Il giornale dei nazionalsocialisti, il «Der Angriff», invitò i tedeschi a imbandierare le proprie case e, mentre bandiere apparvero in città come Monaco e Berlino, nei quartieri operai non ve n’era traccia. I quotidiani nazionalsocialisti riferirono che la notte del 30 gennaio, alla fiaccolata erano sfilati 500.000 uomini sotto gli occhi di Hindenburg, affacciato da solo alla finestra illuminata della Cancelleria del Reich, mentre Hitler e Göring vi assistevano dalla finestra accanto.

    Tuttavia, osservatori non nazisti, tra cui l’ambasciatore inglese, considerarono le cifre eccessivamente esagerate. Rumbold asserì che le cifre fornite dai nazisti erano palesemente impossibili; il suo attaché militare aveva calcolato che ci sarebbero volute quattro ore per far marciare fino a un punto stabilito cinquemila soldati in file da dieci, e ritenne che non fossero più di quindicimila gli uomini che avevano partecipato alla sfilata. Alla parata, però, parteciparono anche le forze dello Stahlhelm, le Camicie brune e altre formazioni nazionalsocialiste, e il «Münchner Neueste Nachrichten», che non era mai stato troppo tenero nei confronti dei nazisti, riferì che le case di Berlino rifulgevano di colori e che un’intera generazione era riuscita ad assistere alla realizzazione di un sogno lungamente accarezzato, dopo dieci anni di umiliazioni nazionali e di passività⁵.

    Per i quotidiani non nazisti gli stati d’animo che oscillavano dalle caute speranze ai forti sospetti sarebbero durati solo alcuni giorni. Grazie ai poteri straordinari concessi al governo da Hindenburg il 4 febbraio, il giornale socialista «Vorwärts» fu sospeso per due giorni, il «Rheinische Zeitung» per tre giorni e il comunista «Rote Fahne» fu chiuso dalla polizia. Presto provvedimenti simili furono adottati nei confronti di quasi tutti i giornali non nazisti, compresi quelli centristi, per aver pubblicato rapporti sfavorevoli sullo stato dell’economia o presunte false dichiarazioni sul comportamento discutibile del partito o del governo, o per altri pretesti. Il 19 febbraio il più importante giornale rappresentativo del partito centrista, «Germania», prima controllato da Papen, fu sospeso per tre giorni, insieme al «Thüringen Volkswacht» e al filonazionalista «Münchner Neueste Nachrichten»⁶. Hitler poteva parlare di tolleranza alle riunioni di gabinetto e a giornalisti selezionati, ma nelle strade e laddove i nazisti controllavano la polizia i nazionalsocialisti dimostravano l’esatto contrario.

    Hitler, però, doveva muoversi con prudenza. La sospensione dei giornali suscitò delle proteste. La Società del Reich della stampa tedesca, che rappresentava giornalisti di tutto il paese, inviò un telegramma al presidente Hindenburg chiedendogli d’impedire ulteriori interferenze con la libertà di stampa, esortando Hitler ad adoperarsi per rassicurare i giornali dell’opposizione. L’8 febbraio Hitler tenne una conferenza stampa estremamente conciliante, nel corso della quale disse ad un gruppo di editori di Berlino che lui e il suo governo non desideravano affatto imbavagliare la stampa: tutto quello che volevano era la cooperazione, il riconoscimento che uomini di buona volontà stavano facendo del loro meglio per il Volk e per la patria. La critica era necessaria e utile, ma il governo aveva il diritto di pretendere che fosse aderente ai fatti e scevra da attacchi personali. Sottolineò più volte che la critica era essenziale, anche se talvolta spiacevole, ma che favoriva il rinnovamento e teneva il governo coi piedi per terra. Quello che, tuttavia, non poteva essere tollerato erano gli attacchi di chi voleva danneggiare il Reich, e avrebbe adottato i provvedimenti più severi nei confronti di coloro che si fossero resi responsabili di azioni simili⁷. Era la voce stessa della ragione e persuase più la gente che i giornalisti e il gabinetto.

    Hindenburg rispose a Kaas e alle rimostranze del presidente del Partito popolare bavarese il quale, come Kaas, sosteneva che il suo partito era disposto a partecipare alla coalizione nazionale, con l’emanazione del decreto del 4 febbraio per la protezione del popolo, controfirmato da Hitler, dal Ministro degli interni Wilhelm Frick e dal Ministro della giustizia Franz Gürtner. Il decreto diede al governo il potere di sopprimere quasi tutte le adunanze politiche. Intimò ai partiti politici di comunicare, con un anticipo di almeno 48 ore, i comizi previsti e prevedeva che nel caso un comizio o una dimostrazione si rivelasse pericoloso per la sicurezza pubblica, potesse essere proibito. Gli assembramenti potevano essere dispersi dalla polizia, se trasgredivano una legge o un decreto legilsativo, o se l’oratore calunniava un qualsiasi funzionario od organo di Stato. La polizia inviava degli osservatori a tutte le adunanze politiche e il Ministro degli interni aveva la facoltà di bandire l’uso di uniformi o distintivi che identificassero un partito politico. Parimenti, la polizia poteva confiscare periodici o brochure contenenti materiale pericoloso per la pubblica sicurezza, e giornali e riviste potevano essere chiusi per periodi prestabiliti.

    Molto probabilmente Hindenburg aveva acconsentito a emanare questo decreto per il fatto che lo sciopero generale proclamato dai comunisti e i ripetuti spargimenti di sangue nelle città del Reich avevano spinto il governo ad agire con estrema fermezza, per evitare la diffusione dei disordini man mano che la campagna elettorale si faceva più infuocata. Tuttavia, l’unico effetto sortito fu quello di dare ai nazionalsocialisti, che già controllavano la Cancelleria e i Ministeri degli interni del Reich e della Prussia, il potere di sopprimere in tutto il Reich i comizi politici e i giornali dei propri avversari. I nazionalsocialisti non solo avevano i mezzi per imbavagliare i giornali dell’opposizione e i loro portavoce, ma controllavano anche la radio statale, che, insieme alle stazioni locali, era l’unico tipo di radio che il Reich avesse.

    Il 7 febbraio Rumbold riferì che la radio governativa aveva ripetuto il manifesto inaugurale di Hitler tre volte nel corso della stessa giornata. Era pressoché impossibile non ascoltarlo. I suoi discorsi erano registrati, nelle piazze cittadine venivano sistemati altoparlanti, e, prima delle elezioni del 5 marzo lui e gli altri oratori della coalizione del Partito nazionalsocialista dei lavoratori tedeschi (NSDAP), del Partito nazionalpopolare tedesco e dello Stahlhelm (detto il Fronte di battaglia bianco, rosso e nero) erano le uniche voci politiche che si udissero via etere. Il 23 febbraio l’«Augsburger Postzeitung» riferì che la grandine di ordini di sospensione dei giornali continuava e lamentava il fatto che, sebbene i tribunali spesso dichiarassero illegali questi provvedimenti, in molti casi i loro verdetti giungevano troppo tardi per impedire le sospensioni, che all’inizio duravano solo tre o quattro giorni.

    I nazionalsocialisti erano in una posizione di comando. Il 3 febbraio, nel suo diario, il Ministro dell’informazione e della propaganda popolare Joseph Goebbels esultò per il fatto che per condurre la battaglia elettorale avevano a disposizione tutti i mezzi dello Stato: radio, giornali e fondi governativi. L’unico problema – scriveva Goebbels – era rappresentato dalla presenza in numerose stazioni radiofoniche dei politicanti del vecchio regime (Systembonzen), dei quali ci si doveva sbarazzare prima possibile. Decise di concentrare il dipartimento di propaganda del Reich a Berlino da dove avrebbe potuto dirigerlo. Due giorni dopo Goebbels si rallegrò del fatto che la proibizione di giornali quali il «Vorwärts» e l’«8 Uhr Abendblatt», e degli organi ebraici che in passato avevano dato filo da torcere ai nazisti, avesse fatto sparire questi fogli dalle edicole di Berlino; Göring si stava sbarazzando di tutti i funzionari indesiderati; il capo della polizia di Berlino, il contrammiraglio von Levetzow, era un filonazista e incarichi simili ad Hannover e a Dortmund erano ricoperti da filonazisti⁸.

    Oltre agli atti ufficiali di repressione contro i propri nemici, va notato che la polizia e le autorità governative tolleravano quasi tutto quello che facevano i nazisti. Durante un comizio del partito centrista a Krefeld il 21 febbraio, dove Adam Stegerwald, ex Ministro del Reich, era il principale oratore, esplose un petardo nella galleria, quando Stegerwald, nel criticare la politica di Papen, menzionò il nome di Hitler. A questo seguì un attacco concertato dei nazisti, infiltrati nella manifestazione, che sfociò in una rissa. La gente, in preda al panico, si riversò sul palco per guadagnare le uscite di sicurezza, e quando arrivò la polizia non era rimasto nessuno nella sala, ad eccezione dei capi del partito centrista e gli intrusi nazisti. Stegerwald fu colpito al volto, altri due centristi furono feriti lievemente e la manifestazione fu descritta prudentemente come la Saalschlacht, la battaglia della sala conferenze.

    Il governo dell’unità nazionale era una mistificazione, nella stessa misura in cui lo era stato dall’inizio. Niente di concreto lo teneva insieme; era un espediente volto a persuadere Hindenburg ad accettare Hitler come cancelliere, dove sarebbe stato circondato da Papen, Hugenberg, Seldte e Neurath, le tigri di carta che nulla avevano in comune se non l’avversione al marxismo e il desiderio di essere al comando. Hitler svelò i suoi progetti in un discorso tenuto a Berlino il 20 febbraio ad un gruppo di venticinque industriali guidati da Krupp von Bohlen und Halbach⁹. Hitler fu accompagnato da Göring, Frick e dal banchiere Hjalmar Schacht, della cui esperienza poté avvalersi in questa occasione.

    All’interno del gabinetto avrebbe potuto parlare della fiducia reciproca e della sua devozione agli altri ministri, tuttavia il contenuto del suo discorso fu alquanto diverso. Prima di esser nominato cancelliere aveva parlato ad un gruppo più o meno simile a Düsseldorf, e agli industriali presentò nuovamente un programma nel quale difficilmente potevano trovarsi difetti. Con le stesse parole usate nell’incontro precedente, disse loro che l’impresa privata non poteva sopravvivere in una democrazia, che l’impresa privata è concepibile solo quando un popolo ha una opinione favorevole dell’autorità e della singola personalità; che tutto ciò che nel mondo è positivo, buono e prezioso nel regno dell’economia e della cultura si basa esclusivamente sul significato dell’individuo, della personalità, qualcosa che un governo di maggioranza può solo distruggere. Tutto ciò che ha un valore – disse agli industriali tedeschi più importanti, che non avevano difficoltà a credergli – è frutto della battaglia combattuta da pochi prescelti. Con un’allusione a Goethe, disse che il popolo tedesco non riusciva mai a riconoscere appieno la coesistenza, nel proprio intimo, di due anime in lotta per la sopravvivenza: per una parte della popolazione era impossibile accettare l’impresa privata, mentre l’altra parte la voleva.

    Il principio comunista non può essere sostenuto. Non è un caso che le azioni di un uomo siano migliori di quelle di un altro. Su questo si basa l’impresa privata. Non è sufficiente dire: «Non vogliamo il comunismo nella nostra economia, e se ci ostiniamo a ricalcare il passato moriremo» [...]. La socialdemocrazia si è rafforzata costantemente negli ultimi quarant’anni da Bismarck, e questi, poco prima delle sue dimissioni, disse: «Se si va avanti così, sarà il trionfo di Marx» [...]. Mi è stato consigliato, quando volevo passare all’azione, di aspettare.

    Tuttavia, disse che doveva riconquistare ciò che era stato perso negli ultimi quattordici anni.

    Abbiamo rifiutato di accettare la grazia della tolleranza dei centristi [...] Hugenberg ha solo un piccolo movimento e ha enormemente rallentato il nostro sviluppo. Dobbiamo prima avere in mano tutti i mezzi del potere, se vogliamo inchiodare l’opposizione [...]. Ora le elezioni sono imminenti. Potrebbero essere decisive come effettivamente saranno, ma non faremo mai più passi indietro, anche se le elezioni dovessero approdare al nulla. Comunque vada, se il voto non sarà decisivo, allora la decisione dovrà essere presa in altro modo. Sono dell’avviso che al popolo debba essere data nuovamente la possibilità di decidere del proprio destino.

    Poi uscì allo scoperto sulle sue intenzioni:

    Se queste elezioni non apportano soluzioni, bene. La Germania non morirà. Ora più che mai è necessario lavorare per il successo. La necessità di sostenere sacrifici non è mai stata così grande. Per l’economia ho solo un desiderio, che si muova parallela alla ricostruzione interna verso un futuro pacifico. La questione della creazione della Wehrmacht non sarà decisa a Ginevra, ma in Germania, quando, attraverso la pace interiore, avremo riconquistato la nostra forza interiore. Non ci sarà pace interiore finché non ci sbarazzeremo del marxismo, e questo è un punto decisivo col quale dobbiamo confrontarci, non importa quanto sia dura la battaglia. Per questa battaglia, io metto a repentaglio la mia vita ogni giorno, così come gli altri che si sono uniti a me nella battaglia. Ci sono solo due possibilità: o l’avversario verrà respinto con provvedimenti costituzionali, che è lo scopo di queste elezioni, oppure la battaglia sarà combattuta con altre armi, e in questo caso saranno necessari maggiori sacrifici. Vorrei evitare quest’ultima possibilità. Speriamo che il popolo tedesco afferri l’importanza di questo momento, che sarà decisivo per i prossimi dieci o cento anni [...]. Sarà una svolta nella storia tedesca, alla quale mi dedico con appassionata energia.

    Poi Göring pronunciò parole confortanti, promettendo che non ci sarebbero stati esperimenti economici, e ribadì la necessità di penetrare nei circoli infettati dal marxismo; gli uomini delle truppe d’assalto dovevano an­da­re nei quartieri delle grandi città a battersi per ogni individuo. Alla fine dell’incontro Schacht propose di raccogliere fondi tra i presenti, e disse che sarebbero stati divisi con gli altri partiti della coalizione (cioè tra i nazionalsocialisti e il Partito nazionalpopolare tedesco), proporzionalmente al loro peso all’interno della coalizione. Due giorni dopo, Krupp von Bohlen und Halbach scrisse una lettera di ringraziamento a Hitler, e gli disse che lui e gli altri industriali presenti all’incontro avevano convenuto che ormai era giunto il momento di fare chiarezza nella politica interna tedesca – ossia anteporre l’interesse di tutti i tedeschi alle singole professioni o alle classi – e che lui e i suoi amici erano altresì convinti che l’economia e l’industria potessero svilupparsi e prosperare solo in uno Stato forte e indipendente.

    Il comizio riscosse successo. Il discorso di Hitler era abilmente studiato, adattato, come i precedenti, allo stesso pubblico di capitalisti impantanati nella depressione, spaventati dalla sinistra e incerti sul futuro. L’antimarxismo, unitamente alla necessità di un governo favorevole a una economia libera, che riconoscesse i talenti dei singoli imprenditori e i fallimenti delle misure socialiste adottate dai governi precedenti, poteva solo suscitare consensi entusiastici. Anche il tono delle critiche rivolte a Hu­gen­berg era misurato: era ovviamente un buon uomo, dal momento che era un membro della coalizione, e una percentuale dei fondi sarebbe stata assegnata ai suoi Nazionalisti tedeschi, ma era un uomo che poteva reclutare solo un seguito esiguo ed era un fardello sulle spalle di Hitler. Anche allora Hitler agì come volevano gli industriali e il presidente, cioè nel pieno rispetto della costituzione. Invocando nuove elezioni egli dava al paese l’opportunità di sfruttare al massimo la grande fortuna di averlo come cancelliere col raggiungimento di una maggioranza governativa.

    In ogni caso, avrebbe salvato la patria: se il Reich non gli avesse accordato la maggioranza, era determinato a ricorrere a mezzi extracostituzionali per liberarla dal veleno marxista. Come spiegò Göring, uno dei compiti dei nazionalsocialisti era quello d’intrappolare il marxismo nella propria tana; se fosse stato necessario combattere nelle strade, lo si sarebbe fatto per una buona causa.

    Furono affrontati tutti i temi: il Reich, la libera impresa, il culto dell’individuo e l’unità di una Germania purificata e rivitalizzata. Hitler ripeté il motto pronunciato in un grande momento di unità nazionale nel XIX secolo, ossia «Deutschland, Deutschland, über alles», cioè la patria al di sopra del provincialismo delle classi e delle professioni: avrebbe riportato l’ordine dopo dodici anni di malgoverno e favorito la ripresa economica con la pace domestica.

    Le parole di Hitler confermavano l’amputazione del socialismo dal nazionalsocialismo, e gli industriali erano certi che il corso da lui intrapreso fosse la strada giusta per sconfiggere la Grande Depressione, quella stessa strada che essi stessi avevano sempre desiderato seguire. Grazie alla pace interna e alla ripresa economica, sarebbe emersa una Germania militarmente forte, un Reich la cui potenza sarebbe stata autodeterminata e non conseguenza di interventi stranieri. Anche questo piacque loro.

    Il discorso aveva sfumature ben diverse da quello pronunciato alla riunione del gabinetto. Nel discorso, erano Hitler e i nazionalsocialisti, e non la coalizione, che erano lì per rimanere al governo.

    Sarebbero stati Hitler e il suo partito, costituzionalmente o con mezzi diversi, a soccorrere il paese. Le elezioni imminenti erano importanti, ma, se fosse stato necessario, sarebbero state scavalcate, in nome della causa trascendente della patria.

    Era anche un discorso fedele al tipico stile hitleriano, sulla scia di quello pronunciato davanti al tribunale di Monaco nel 1923 dopo il fallimento del suo putsch e di quello a favore dei tre giovani ufficiali accusati di alto tradimento per essersi uniti al partito nazista. Ricordava anche la lettera scritta alle autorità di Linz quando, nel 1913, avevano minacciato di arruolarlo nell’esercito austriaco. Ancora una volta apparve come l’eroe altruistico, pronto a rischiare la propria vita ogni giorno per la grande causa. Ora era per la salvezza della patria; da giovane il tentativo di sottrarsi all’esercito austriaco era stato dettato dalla sua salvezza morale, che nasceva dalla devozione per l’arte, per la quale aveva sopportato povertà e tentazioni. Non offrì agli elettori un piano dettagliato; chiese loro di giudicarlo dal suo operato, e, affinché essi potessero formarsi un’opinione, era necessario che gli fossero conferiti pieni poteri per governare.

    Di fatto, si sbarazzò del marxismo, ma impose anche regole di ferro all’industria che furono tanto inibitorie per il libero mercato quanto quelle messe a punto dal Cremlino. La difesa dell’individualità da lui tanto decantata non riguardava altri che se stesso, e non gli industriali o i banchieri come Schacht, che erano stati parte attiva durante la riunione ma che a breve sarebbero stati messi da parte. E il vago accenno ai mezzi extracostituzionali cui Hitler avrebbe fatto ricorso, se necessario, per mantenere il suo governo al potere non era che un blando eufemismo.

    Da quando aveva iniziato la sua carriera politica nel 1919, aveva anche promesso di distruggere la costituzione di Weimar, il sistema parlamentare e i «criminali di novembre». Prima e dopo l’elezione, fece ricorso a qualsiasi mezzo fosse utile allo scopo. L’unico ostacolo era rappresentato dal presidente.

    La rapida ascesa di Hitler al potere assoluto tanto agognato fu enormemente accelerata da forze ed eventi totalmente al di fuori del suo controllo. Non sarebbe mai riuscito ad ottenere una maggioranza in un’elezione libera o semilibera, ma poteva conquistare i mezzi per controllare l’elettorato e il governo senza ricorrere alle elezioni. Un fattore psicologico che agevolò i suoi piani fu il continuo rifiuto del governo francese di consentire al Reich l’uguaglianza militare, promessa pochi mesi prima dalla Francia e dalla Gran Bretagna, o di ridurre i propri armamenti, così come previsto dal trattato di Versailles¹⁰. L’atteggiamento negativo del governo francese nei confronti della possibilità del riarmo tedesco sotto Hitler è indubbiamente comprensibile, tuttavia le dichiarazioni del primo ministro Edouard Daladier a Parigi e degli inviati francesi guidati da Joseph Paul-Boncour a Ginevra erano appositamente studiate per rafforzare il sostegno pubblico alla promessa di Hitler che non gli stranieri, ma i tedeschi avrebbero determinato la forza delle proprie difese.

    La Francia non avrebbe ridotto il proprio armamento, né permesso alla Germania di aumentare quello della Wehrmacht. I rappresentanti francesi a Ginevra e il governo di Parigi continuarono per molti mesi a dare le spiegazioni più sofisticate circa i motivi per i quali non potevano acconsentire ad alcun piano pratico che permettesse alla Germania d’iniziare a raggiungere l’uguaglianza militare, che le era stata promessa a Ginevra nel 1932. L’uguaglianza militare teorica era stata la massima concessione fatta dai francesi dopo la richiesta dei tedeschi – avanzata tredici anni prima – dell’inizio del disarmo generale promesso dal trattato di Versailles; qualsiasi suggerimento concreto per un aumento del potenziale della Wehrmacht o per una diminuzione di quello dei vincitori, sia che fosse proposta dai socialisti, dai centristi o dagli esponenti di destra, in Francia suscitava sempre un uragano di proteste. Con Hitler al potere un’uguaglianza reale era impensabile. Le proposte concrete avanzate dalla Gran Bretagna, dal Reich o da qualsiasi altro paese non erano mai accettabili per Parigi, né riuscivano a persuadere la Francia ad attuare quanto aveva garantito in principio.

    L’agitazione di un latente antisemitismo, durante il punto più basso della depressione, non solo in Germania, ma anche in altri paesi agevolò ulteriormente Hitler. Le spiegazioni della recessione catastrofica, che nessuna società sembrava in grado di gestire, considerate per molto tempo stravaganti, apparivano ora ragionevoli agli occhi dei disoccupati cronici che riuscivano a malapena a sopravvivere.

    Quando parlò agli industriali di Berlino, Hitler non accennò minimamente agli ebrei; per tutto il discorso parlò dei marxisti, ma non fece riferimenti diretti agli ebrei. Goebbels, invece, attaccò direttamente la «stampa ebraica», minacciandola con sanzioni terribili qualora avesse violato il nuovo decreto sulla stampa. Definì ebrei, appellativo per ogni opposizione, quasi tutti i giornali che fece chiudere. Anche osservatori obiettivi come Rumbold, però, adottarono una posizione moderatamente antisemita come quella dei tedeschi.

    Fin dai tempi della rivoluzione, agli ebrei è stata concessa, in questo paese, l’uguaglianza delle possibilità in tutte le professioni, col risultato che la loro superiorità razziale si stava imponendo, almeno agli occhi dei tedeschi, in modo quasi allarmante. A qualsiasi osservatore è evidente che il tedesco medio, pur essendo superiore all’ebreo sotto molti punti di vista e pur essendo dotato di qualità notevoli come la tenacia, l’operosità e la sobrietà, è decisamente inferiore all’ebreo tedesco in un senso artistico e perfino intellettivo. Ogni volta ch’entrano in gioco la fantasia, l’acume finanziario o il fiuto per gli affari, l’ebreo tende a distanziare il suo rivale tedesco, e nel campo delle conquiste intellettuali, i risultati ottenuti dagli ebrei sono di gran lunga superiori a quelli dei tedeschi.

    In un paese in cui difficilmente raggiungono il 2% della popolazione, hanno praticamente monopolizzato alcune professioni e ottenuto ottimi impieghi in moltissime altre [...]. È naturale che i giovani accademici di questo paese si risentano amaramente del successo degli ebrei, specialmente in un periodo in cui le professioni liberali sono disperatamente sovraffollate [...]. I finanzieri ebrei hanno il controllo dell’apparato finanziario di questo paese. L’ostentato tenore di vita di banchieri e finanzieri ebrei – una tradizione che si perpetua dall’epoca in cui l’ex imperatore aveva conferito il titolo nobiliare agli ebrei che avevano costruito yacht d’alto mare e grandi scuderie – ha suscitato inevitabilmente invidia col dilagare della disoccupazione.

    Rumbold sottolineò anche che gli ebrei russi e galiziani erano emigrati in Germania dopo la rivoluzione del 1918, e c’erano stati scandali famigerati. «Immigrati come Sklarek e Barmat, che avevano una propensione naturale per la finanza illecita, sono diventati il centro di scandali finanziari e politici che hanno screditato gravemente i partiti di sinistra e fungono tuttora come esempi della tipologia dell’ebreo ripugnante per lo spirito nordico o nazista»¹¹.

    Il rapporto di Rumbold al Segretario degli esteri a Londra, Sir John Si­mon, esprime con chiarezza quella che era indubbiamente l’opinione corrente di moltissimi moderati e tolleranti, ben lontani dal fanatico antisemitismo dei teppisti nazisti. Fece un quadro tipico di critici garbati ed educati delle nazioni occidentali, che dichiaravano di ammirare gli ebrei, o almeno alcuni di loro, anche se talvolta ammettevano di essere disturbati da certe differenze rispetto alle proprie norme e caratteristiche fisiche. Il grande fardello per gli ebrei, nonostante i loro tentativi d’integrazione, era rappresentato dal fatto che erano sempre visti come diversi, chiaramente distinguibili dalle popolazioni indigene dei paesi nei quali erano emigrati, a prescindere dalla durata della loro permanenza in quei posti o dalla padronanza della lingua natia. Le fotografie di soldati tedeschi di origine ebrea uccisi durante i combattimenti, che furono raccolte in un album pubblicato dagli ebrei di Monaco dopo la Prima guerra mondiale, raffigurano quelle che molti tedeschi videro come facce aschenazite poste incoerentemente sotto gli elmetti tedeschi; facce di giovani che morirono per la stessa patria che ora si preparava a respingerli. Anche allora gli ebrei erano istruiti; per ragioni storiche, nonché per motivi pratici, si erano gettati su professioni come la medicina, il giornalismo e la giurisprudenza, per le quali mostravano una predisposizione superiore a quella dei tedeschi stessi, e, nella infinita depressione economica, sottolineava Rumbold, a molti tedeschi sembravano operare bene tanto quanto prima del collasso economico.

    Gli scrittori tedeschi avevano a lungo deriso le assurdità dei nuovi ricchi, degli uomini di successo, degli uomini d’affari emergenti, che cercando d’imitare goffamente la nobiltà, la superarono enormemente in sfoggi notevoli. Quando i cristiani riempirono le vasche dei pesci di champagne, il gesto fu attribuito ad una volgarità di classe, alle buffonate dei filistei con troppi soldi e nessuna nozione di come andassero spesi. Tuttavia, quando l’arrivista ebreo fece la stessa cosa fu satireggiato non come membro di una classe, ma di una razza. Un uomo estremamente civile come Walter Rathenau, ex Ministro degli esteri assassinato nel 1932, al quale difficilmente potevano essere ascritte certe stravaganze, anche se aveva cercato disperatamente di vedere gli ebrei semplicemente come un’altra tribù germanica, non riuscì mai a considerarli al pari degli altri tedeschi, che amava così tanto. Cercò di conciliare questi sentimenti con l’elaborazione di due categorie generali, quelle dei Mut-Menschen e dei Furcht-Menschen, delle coraggiose razze nordiche bionde e dei pavidi uomini del sud dai capelli scuri e la testa piena di fantasticherie, ma non si sentì mai altro che un cittadino di seconda classe, nonostante il suo alto incarico, l’amicizia col Kaiser e il suo ingresso in società nella corte degli Hohenzollern. A prescindere da quello che aveva realizzato, per il Reich o per chiunque che, come Hugo Stinnes, fosse irritato dalla sua politica, non riuscì mai a scollarsi l’etichetta di fremdrassige Seele, un’anima di razza straniera.

    Nel 1933 i tedeschi erano disposti, molto più di quanto lo fossero in precedenza, a tollerare un antisemitismo manifesto e datato e che, di fatto, era scomparso dalla scena politica con l’approssimarsi della Prima guerra mondiale. Gli emigrati russi, quasi all’unanimità, attribuirono agli ebrei la colpa della rivoluzione bolscevica, sebbene gli ebrei fossero stati una piccola minoranza nel partito e nella sua leadership, ma perfino un uomo come Rumbold poté simpatizzare col risentimento nutrito dai tedeschi nei confronti degli ebrei, man mano che la depressione metteva a nudo la cruda realtà della lotta per l’esistenza.

    Tuttavia, nessuna di queste questioni, prese insieme o singolarmente, avrebbe potuto essere abbastanza potente da consentire a Hitler di ottenere la maggioranza in un’elezione libera. Fu costretto a ricorrere alle altre misure extraparlamentari di cui aveva parlato. La notte tra il 24 e il 25 febbraio la polizia fece una retata nella sede centrale comunista in casa di Karl Liebknecht, scoprì stampatrici e notevoli quantitativi di materiale volto, stando a quello che riportava il giornale, a rovesciare il governo. Il «Deutsche Allgemeine Zeitung» riferì di come fossero stati scoperti labirinti di passaggi sotterranei che avevano consentito ai comunisti in fuga di sottrarsi alla polizia. Era una storia sensazionale, ma anche notevolmente esagerata, come ammise in seguito Diels, capo della polizia¹². Nel 1945 Diels dichiarò che il materiale trovato era interessante ma non sensazionale. Che i comunisti avessero progettato e organizzato una rivoluzione era noto a tutti i tedeschi, ma credere che esperti leader di partito fossero così sciocchi da lasciare alla polizia di Berlino, controllata da Göring, prove di tradimento davvero incriminanti non sarebbe stato affatto plausibile. La retata e altre come quella che ebbero luogo fuori Berlino sortirono unicamente l’effetto di dare agli oratori e alla stampa nazisti ulteriori armi per una campagna che non avevano bisogno di combattere per incitare i propri seguaci, e che era inutile contro i comunisti, tranne per giustificare i continui veti posti alle loro adunanze e pubblicazioni.

    L’effetto che avrebbe potuto avere avuto sul pubblico generale è ignoto, perché la vera bomba esplose la notte tra il 27 e il 28 febbraio, quando il Reichstag andò a fuoco. Fu uno degli incendi più fatidici della storia del Reich. Nessuno sa con certezza quanti piromani appiccarono il fuoco, sebbene concordarono tutti sul fatto che Marinus van der Lubbe, un ex muratore confuso, passato dalla sinistra agli anarchici ed ex membro del Partito comunista olandese, fosse uno dei maggiori responsabili della vicenda. Il potente fuoco illuminò il cielo notturno di Berlino; folle sterminate lo guardarono consumare la grande cupola dell’edificio, compresi Hitler, Göring, Papen e Goebbels, insieme a drappelli di poliziotti e ai pompieri di Berlino. Tuttavia, l’effetto più importante sortito dall’incendio fu quello di dare a Hitler l’opportunità necessaria per persuadere il gabinetto e il presidente ad accordare al suo governo i poteri straordinari cui aspirava dal 1919.

    Hitler e gli altri capibanda del partito capirono immediatamente che erano stati i comunisti ad appiccare il fuoco: Hitler disse al gabinetto che dovevano agire immediatamente e senza pietà contro il Partito comunista, senza pensare alla legalità. Dopo l’incendio non ebbe più dubbi che il governo potesse conquistare almeno il 51% dei voti, e propose di emanare un decreto straordinario per la protezione della società contro il pericolo comunista. Göring affermò che il fuoco non era stato appiccato per rappresaglia in seguito alla retata alla casa di Liebknecht, ma perché i documenti trovati dimostravano che i comunisti si preparavano ad incendiare altri edifici pubblici, ad avvelenare le cucine pubbliche, a prendere ostaggi dalle famiglie di importanti ufficiali e a distruggere le centrali elettriche e le metropolitane: l’incendio era il segnale dell’inizio della rivoluzione marxista. Göring fece perfino il nome del leader del complotto, Willi Münzenberg, e disse che erano già stati arrestati altri due comunisti. Avevano imposto provvedimenti precauzionali di pubblica sicurezza: la chiusura di musei e castelli, la proibizione della pubblicazione di giornali comunisti e socialdemocratici, la chiusura delle sedi comuniste e l’ordine di arrestare tutti i deputati e i funzionari comunisti del Reichstag. Alcune accuse erano frutto della confessione di van der Lubbe. Van der Lubbe, sebbene avesse negato che fossero coinvolte altre persone, dichiarò che l’incendio che aveva appiccato al Reichstag era il primo di una lunga serie; ad esso sarebbe seguita la distruzione di altri edifici pubblici ed era volto a provocare l’insurrezione dei lavoratori contro il regime di oppressione. Disse anche di essere convinto del fatto che il governo di concentrazione non sarebbe stato tollerato dagli altri paesi e che avrebbe scatenato la guerra. Van der Lubbe era stato arrestato sulla scena del delitto. Aveva reso subito una piena confessione ammettendo tutto, indicando con precisione ad un detective che lo interrogava dove e come si fosse introdotto nell’edificio, come avesse trasportato il materiale incendiario (accendini per accendere i fuochi di carbone), come avesse usato la camicia, il panciotto e la giacca come torce e come fosse, infine, passato di stanza in stanza per appiccare il fuoco a tende e tendine, ad un divano e una sedia imbottiti, alle coperte dei mobili, a un mucchio di asciugamani di carta nel bagno e a tutto ciò che potesse bruciare.

    Pochi, però, credettero alla storia di van der Lubbe. Sembrava impossibile che un solo uomo potesse aver appiccato un incendio così diffuso senza complici, e annunci ufficiali dichiararono che era stato aiutato dai comunisti e dai socialdemocratici. Entrò in azione l’intero apparato nazionalsocialista. Furono arrestati centinaia di comunisti e di socialdemocratici, tutti i loro giornali furono chiusi e i loro comizi proibiti. I comunisti reagirono accusando i nazisti stessi di aver appiccato il fuoco dopo aver messo a punto un piano sofisticato, e i propagandisti comunisti iniziarono – riscuotendo molto più successo di quello che avrebbero mai avuto i nazionalsocialisti – a convincere il mondo che stavano rivelando la vera identità dei responsabili. Fu dichiarato che una squadra incendiaria degli uomini delle truppe d’assalto – ossia le SA – insieme a van der Lubbe, si era servita di un passaggio sotterraneo in cui c’era un corridoio ad altezza d’uomo, destinato al riscaldamento dei condotti, che conduceva dall’ufficio di Göring nella Cancelleria del Reich al Reichstag. A prima vista, era una storia molto più plausibile di quella raccontata dai nazisti... Perché i comunisti avrebbero dovuto appiccare il fuoco al Reichstag, dando così a Hitler il pretesto necessario per arrestare tutti i leader politici che la polizia poteva trovare? D’altra parte, i nazisti avevano tutto l’interesse a incenerire qualunque cosa a Berlino, se questo offriva loro l’opportunità di sbarazzarsi dei nemici marxisti prima delle elezioni.

    Entrambe le parti si adoperarono per dimostrare la colpevolezza dell’altra. Nel Reich, nel corso di retate massicce, furono arrestati quattromila comunisti e intellettuali di sinistra. Quattro comunisti, Ernst Torgler (un deputato del Reichstag che si era arreso volontariamente alla polizia di Berlino), tre deputati del Partito bulgaro – Georgi Dimitrov, Simon Papov e Vasili Tanev – e van der Lubbe furono accusati di essere gli esecutori del crimine e furono protagonisti di un processo spettacolare. I comunisti risposero con una delle più vittoriose e ineguagliate campagne propagandistiche contro il nazionalsocialismo e tutte le sue malefatte. Uno dei più abili attivisti del Comintern nonché il deputato parlamentare più giovane, il quarantaquattrenne Willi Münzenberg, di origine tedesca, organizzò una Commissione mondiale per le vittime del fascismo hitleriano, con ramificazioni in Europa e negli Stati Uniti, una commissione – disse Arthur Koestler – che aveva solo due noti simpatizzanti comunisti, Henri Barbusse e J.B.S. Haldane, in una lunga lista di persone celebrate a livello internazionale, nessuna delle quali era comunista¹³. Münzenberg fondò anche, sotto l’egida della commissione mondiale, una Commissione investigativa sui retroscena dell’incendio del Reichstag, di cui faceva parte un altro gruppo internazionale di noti giuristi. Tra questi c’era l’ex presidente del consiglio italiano Francesco Nitti, Arthur Garfield Hays (il difensore di Sacco e Vanzetti negli Stati Uniti), un giurista svedese, George Branting, un francese, Gaston Bergery, e un inglese, D.N. Pritt. La prima riunione di questa commissione avvenne a Londra, nel tribunale della London Law Society, sotto la presidenza dell’eminente liberale Sir Stafford Cripps.

    Münzenberg, che era riuscito ad attraversare il confine svizzero la notte dell’incendio, due settimane dopo istituì un quartier generale a Parigi nel quale produsse una serie di documenti e testimonianze di valore. Uno dei primi fu un libro di 382 pagine, ampiamente illustrato, il Libro Bianco sull’incendio del Reichstag e sul terrore di Hitler, che fu pubblicato nell’agosto del 1933 a Basilea e a Parigi. Fu scritto da uno dei collaboratori più stretti di Münzenberg, Otto Katz (alias André Simonne) e fu tradotto in diciassette lingue. Conteneva una prefazione di Lord Marley, insigne deputato della Camera dei Lord e presidente della commissione mondiale¹⁴.

    Lord Marley era altamente rispettato, fortemente antihitleriano e non comunista, ma, secondo un ex deputato parlamentare comunista del Reichstag, Maria Reese, che conosceva sia Münzenberg che Marley, gli fu pagato un onorario estremamente generoso per la sua prefazione.

    Il Libro Bianco sull’incendio del Reichstag e sul terrore di Hitler non solo documentava la responsabilità avuta dai nazisti nell’incendio, mostrando come van der Lubbe avesse fatto parte di una cricca omosessuale insieme a esponenti nazionalsocialisti di primo piano, ma descriveva anche i campi di concentramento già predisposti per il trattamento di migliaia di prigionieri politici. Uno dei documenti addotti da Münzenberg era un presunto memorandum di Ernst­ Oberfohren, ch’era stato presidente della delegazione parlamentare del Partito nazionalpopolare tedesco, ma che si era dimesso in seguito ad una discussione con Hugenberg sulla linea programmatica del partito¹⁵.

    Si suppose che la dichiarazione di Oberfohren fosse stata scritta nel marzo del 1933, poco prima che si suicidasse. Descriveva come una squadra di piromani, guidati dal leader delle SA Schlesiens e dal deputato parlamentare nazista Heines, si fosse servita di un sottopassaggio sotterraneo, lungo circa 132 metri, per entrare dall’ufficio di Göring nel Reichstag e appiccare il fuoco programmato dai morfinomani Göring e Goebbels. A Schlesiens e i suoi uomini si unì van der Lubbe, al quale era stato dato, oltre al passaporto olandese, un volantino comunista e un documento che lo identificava come appartenente ad un gruppo comunista scissionista.

    In seguito, simultaneamente alle occasioni propagandistiche che si presentarono con gli omicidi di Röhm e altri leader delle SA, fu fornita, sotto la guida di Münzenberg, ancora un’altra versione. Durante la deposizione, Karl Ernst, Gruppenführer delle SA, presentò un racconto dettagliato di come lui, il conte Helldorf (un nazista di primo piano e capo della polizia di Potsdam), Edumund Heines (l’Obergruppenführer delle SA e capo della polizia di Breslavia) e altri avessero programmato, su ordine di Göring e Goebbels, tutta l’operazione e di come Ernst, con due fidati compagni delle SA e van der Lubbe, avessero appiccato il fuoco¹⁶.

    Le storie riscossero un enorme successo; i nazisti si misero sulla difensiva da quando Münzenberg iniziò a operare a Parigi, e, nonostante l’allestimento di un maxiprocesso a Lipsia dei presunti autori comunisti del crimine, quasi tutta la stampa mondiale diede credito alla versione comunista. Vi prestarono fede moltissime persone in Oriente e in Occidente, che capirono immediatamente che erano i nazisti quelli che avrebbero guadagnato di più dall’incendio. Tutti sapevano, grazie alle numerose prove addotte, che i nazisti erano capaci di qualsiasi crimine permettesse loro di portare avanti la propria causa. La contraccusa comunista fu così efficace, che fu presentata anche negli anni successivi in occasione del processo a Göring a Norimberga, dove la pubblica accusa citò testimoni che dichiararono che Göring aveva ammesso in più occasioni di essere stato l’artefice della distruzione del Reichstag. Riaffiorò perfino negli anni Settanta sotto gli auspici di un’altra commissione internazionale.

    Ulteriori indagini hanno rivelato che erano improbabili sia le versioni dei comunisti e dei nazionalsocialisti. Göring spiegò che, dal momento che la stampa estera lo accusava di essere il principale autore dell’incendio, aveva detto per scherzo che sarebbe diventato presto un concorrente di Nerone e che la gente lo avrebbe visto suonare la lira in mezzo alla strada, con indosso una toga rossa, mentre il Reichstag andava a fuoco. Tuttavia, ammise di non essersi dato pena per l’architettura del Reichstag e di non aver provato dispiacere quando la Camera legislativa andò a fuoco e di aver sperato di costruirne una migliore. Probabilmente erano falsi anche i racconti contenuti nei documenti, forse scritti dal franco tiratore di Hugenberg, Oberfohren, e dal leader delle SA, Ernst¹⁷. La polizia segreta russa e l’apparato propagandistico non erano nuovi nell’addurre prove e confessioni che sostenessero la loro tesi, come dimostrarono successivamente, negli anni Trenta, durante gli spettacolari processi di Mosca, in cui ex alti funzionari del governo e del partito ammisero vilmente delitti che non potevano in alcun modo aver commesso. I racconti di Oberfohren ed Ernst erano inventati, e Arthur Koestler ed Erich Wollenberg, entrambi membri del gruppo che faceva capo a Münzenberg, da allora descrissero l’operazione in modo piuttosto dettagliato. Come fa osservare lo scrittore tedesco Fritz Tobias, gli autori del crimine non si preoccuparono nemmeno di usare la carta da lettera ufficiale dei nazisti, di cui pure erano in possesso, per presentare alcuni documenti, ma si limitarono semplicemente a batterli a macchina senza carta intestata.

    Ironia della sorte, ora sembra che per l’incendio del Reichstag sia i comunisti che i nazionalsocialisti debbano essere considerati innocenti. Il tribunale di Lipsia che processò i quattro comunisti era ancora composto da giudici tedeschi della vecchia guardia, e Torgler, Dimitrov e altri bulgari furono assolti. Il caso contro i bulgari era effettivamente così debole, che lo stesso principale accusatore chiese la loro assoluzione. Solo van der Lubbe fu arrestato e condannato a morte¹⁸. Dimitrov, che in seguito divenne il segretario generale del Comintern, era riuscito a tenere testa a Göring al punto di comparire come testimone al processo; di fatto, il successo di Dimitrov fu così sensazionale, che è stata conservata la trascrizione dello scambio tra lui e Göring, e i visitatori della città di Lipsia nella Repubblica democratica tedesca poterono ascoltarne la registrazione fino al 1992¹⁹.

    Anche la commissione investigativa diretta dai comunisti, che divenne la commissione dei giuristi internazionali di Londra, fece alcune scoperte. Otto membri provenienti da Francia, Stati Uniti, Gran Bretagna, Danimarca, Belgio e Svezia riuscirono, dopo indagini scrupolose a scoprire che van der Lubbe non aveva agito da solo, che non c’era uno straccio di prova che il Partito comunista fosse coinvolto nel complotto e che i comunisti accusati al processo di Lipsia erano tutti innocenti. La commissione riferì che le prove dimostravano che i piromani si erano serviti del sottopassaggio che metteva in comunicazione il palazzo presidenziale col Reichstag, e dichiarò che, effettivamente, i nazionalsocialisti avevano tutto da guadagnare dall’incendio. La commissione, inoltre, ritenne che ci fossero forti sospetti che confermavano il coinvolgimento di leader di spicco del Partito nazionalsocialista. Parte del rapporto riferiva che Göring aveva impedito che suonasse l’allarme antincendio ai pompieri di Berlino, che van der Lubbe

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