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La profezia dell'Olocausto. Il codice segreto di Ester
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La profezia dell'Olocausto. Il codice segreto di Ester

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Il codice segreto di Ester

Sconcertante

Norimberga 1946
Una verità sconvolgente sta per essere rivelata

Norimberga, 16 ottobre 1946. L’ufficiale nazista Julius Streicher,
condannato a morte dal tribunale degli alleati, prima di essere impiccato urla: «Purim 1946!». Cosa intendeva dire con quelle strane parole?
Per scoprirlo, il giornalista Bernard Benyamin parte per un viaggio alla ricerca di persone che potrebbero aiutarlo, studiosi di cabala ebraica, rabbini, testimoni della Shoa, attraversando molti Paesi, dalla Francia a Israele alla Germania, nel tentativo di svelare un enigma che sembra indecifrabile. Ma la chiave per risolvere il mistero si nasconde addirittura nella Bibbia; in particolare nell’episodio all’origine della festa del Purim, una delle più sentite nella tradizione ebraica. Nel Libro di Ester, infatti, si racconta del primo tentativo di sterminare il popolo ebraico, sventato proprio dalla giovane sposa del re Assuero. Ma come possono essere collegate una storia che risale a più di 2300 anni fa e la tragedia dell’Olocausto? Quella che all’apparenza sembra solo una suggestione, assume pian piano i contorni di una sconvolgente verità: molti nazisti erano profondi conoscitori delle tradizioni giudaiche e lo stesso Streicher aveva addirittura imparato la lingua yiddish. Perché? Quali segreti codici si nascondono nel Libro di Ester?

Era tutto già scritto: il segreto più custodito della storia sta per essere rivelato.

Un mistero rimasto nascosto per secoli. Un’indagine serrata e sofferta, che rivela un segreto inaccettabile... è possibile che un libro della Bibbia avesse previsto l’Olocausto?

Bestseller in Francia

Norimberga, 16 ottobre 1946. L’ufficiale nazista Julius Streicher
prima di essere impiccato urla: «Purim 1946!».

«Un bestseller francese svela il mistero dietro le ultime criptiche parole della propaganda nazista.»
The Times of Israel

Bernard Benyamin
è giornalista e produttore televisivo. Grande esperto di America Latina, ha ideato e condotto per anni la trasmissione Envoyé spécial in onda prima su Antenne 2 e poi su France 2.

Yohan Perez
è produttore televisivo e fondatore della società informatica Appli2phone. Per scrivere La profezia dell’Olocausto, Bernard Benyamin e Yohan Perez hanno condotto una lunga indagine, intervistando molti studiosi di storia ebraica e delle scritture.
LanguageItaliano
Release dateFeb 20, 2014
ISBN9788854164512
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    La profezia dell'Olocausto. Il codice segreto di Ester - Bernard Benyamin

    collana

    189

    Titolo originale: Le Code d’Esther

    © Bernard Benyamin and Yohan Perez, 2012

    © Éditions First, 2012

    Traduzione di Alessandra Mulas

    Prima edizione in ebook: marzo 2014

    © 2014 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-6451-2

    www.newtoncompton.com

    Bernard Benyamin – Yohan Perez

    La profezia

    dell’Olocausto

    Il codice segreto di Ester

    Newton Compton editori

    OMINO-OTTIMO.tif

    Alla memoria di mia madre,

    protettrice della trasmissione

    Per Nils e Raphaël, i miei due raggi di sole

    B.B.

    Alle mie due principesse, Haya-Sarah e Magali

    Y.P.

    Il re disse alla regina Ester: «Nella cittadella di Susa i Giudei hanno ucciso, hanno sterminato cinquecento uomini e i dieci figli di Aman; che cosa avranno mai fatto nelle altre province del re? Ora che cosa chiedi di più? Ti sarà dato. Che cos’altro desideri? Sarà fatto!». Allora Ester disse: «Se così piace al re, sia permesso ai Giudei che sono a Susa di fare anche domani quello che era stato decretato per oggi; siano impiccati al palo i dieci figli di Aman».

    Ester 9, 12

    Prologo

    Si deve credere al caso? Non era certo quello che mi domandavo, quella sera, mentre spingevo la porta della sinagoga di quartiere. E tuttavia, le letture di Paul Bowles o di Jorge Luis Borges avrebbero dovuto avvertirmi sulla possibilità di finire in un altro mondo al più piccolo passo arrischiato oltre la soglia di una casa sconosciuta, dalla porta socchiusa. Conoscevo, ovviamente, la teoria araba del maktub, secondo la quale tutto è scritto e le cose si compiono, inanellate le une alle altre, in base a un principio stabilito che risale a Dio. Inoltre, già da tempo, avevo scoperto il geniale ammiccamento di Albert Einstein, secondo il quale «il caso è in realtà Dio che se ne va a spasso senza farsi riconoscere»… Eppure, la questione non mi sfiorò la mente neppure per un attimo entrando nel Tempio, mentre in seguito si trasformò nella mia ossessione, al punto da farmi perdere il sonno, spingendomi a interrogarmi come davanti a uno specchio. In quel momento mi ricordai di una frase di Paul Éluard: «Il caso non esiste, esistono solo gli incontri». Ma ecco che inizio a divagare, a ingarbugliarmi… Sarà meglio, allora, cominciare dal principio.

    PARTE PRIMA

    L’inizio

    Mamma era morta da poco. Ci aveva lasciati alle prime ore di una fredda domenica di febbraio. Il sopraggiungere della morte è un fatto strano: una successione di brevi respiri, simili a disperate boccate d’ossigeno, come per trattenere ancora un po’ la notte, il giorno e la vita, e poi, all’improvviso, tutto si ferma. Non ci sono più respiri, non c’è più né giorno né notte, non c’è più vita. Brutale e violento come un pugno allo stomaco, e nel momento in cui ci si chiede «Allora è questa la morte?» è tutto già finito. La mamma se n’era andata. Le urla, i singhiozzi, le lacrime vengono dopo, in quel momento si cerca solo di ricordare gesti che nessuno ci ha mai insegnato: si chiudono gli occhi a chi non c’è più, si adagia il suo corpo su un letto che ormai non abbandonava da sei mesi, e si sente, o si immagina, che l’anima, l’entità, la personalità – qualsiasi cosa sia – si ritiri. Non ha più niente da fare qui, e così si allontana dalle lacrime e dal dolore. Ha fatto la sua parte, ora può riposare.

    Si chiamava Mirelle ed era una combattente, e allo stesso tempo una donna libera. In seguito all’indipendenza dell’Algeria, era approdata – con suo marito, Jacques, e i suoi quattro bambini – in un Paese che dicevano essere il nostro, ma che noi non avevamo mai visto. Aveva lottato per ricreare un focolare, per far crescere i suoi bambini in un ambiente dignitoso e fornire loro un’educazione di cui essere orgogliosi. Mio padre, invece, non era invecchiato. Mi ricordo ancora di lui, che perdeva la vista poco a poco e contava le stazioni della metro, i cambi di linea e i corridoi che doveva percorrere ogni giorno per arrivare al lavoro. All’inizio gli capitò di commettere degli errori, ma dopo non sbagliò più e nessuno avrebbe mai potuto sospettare, neppure per un secondo, che fosse cieco. Più di vent’anni fa, dopo una vita che non gli aveva risparmiato nulla, un cancro se l’era portato via. Mia madre aveva rialzato la testa e aveva continuato a combattere: ai suoi bambini non doveva mancare nulla, a loro spettava una vita migliore della sua. Capì velocemente che poteva realizzarsi attraverso loro, assaporare le esperienze che loro facevano – i viaggi, le promozioni – proprio come fossero state cose sue. E così, per procura, fece diverse volte il giro del mondo, e ricevette più di una conferma che i suoi figli erano davvero i più belli e i più intelligenti.

    Ma era anche una donna libera, avida di conoscenza, curiosa di tutto, che non esitava a esprimere opinioni sulla politica che si rivelavano poco opportune o in contrasto con la tradizione nord-africana. Un giorno, uno dei suoi nipoti alla lontana, assaggiando il suo tafina di albicocche e pensando di farle un gran complimento, disse: «A questa cena non si può dire nulla, se non che il posto delle donne è davvero la cucina!». Lei, immobile davanti alla pentola fumante, rimase in silenzio qualche secondo e poi replicò: «Sono d’accordo con te su una cosa: la donna deve provvedere a dar da mangiare a tutta la sua famiglia, ma non deve esitare neppure un secondo a versare del veleno nei piatti dei maschilisti come te!». Tutta la tavola esplose in un applauso, e al povero nipote non restò che nascondersi dietro al tovagliolo. Mia madre era raggiante, e ritrovava così la sua fierezza andalusa, origine che traspariva dai capelli neri, dagli occhi a mandorla e dalla sua pelle lattea. Era lei che provvedeva a darci da mangiare, inventando di continuo nuove ricette, capaci di raccogliere i suoi bambini attorno a lei. E la cucina era il suo regno, il suo quartier generale, là ascoltava la radio, guardava la televisione e rispondeva alle sollecitazioni del mondo esterno. Fra la macchina del gas e il frigorifero, mia madre decideva le sorti dell’universo, ossia un gruppetto di edifici fra rue Saint-Fargeau e rue Henri-Poincaré, nel XX arrondissement di Parigi.

    Ancora due episodi, prima di lasciarla andare. Il suo profilo, davanti alla finestra al sesto piano, mentre spiava il mio arrivo o per farmi un gesto di saluto mentre tornavo a casa mia. Mi seguiva sin dove lo sguardo riusciva ad arrivare, come se i suoi occhi avessero il potere di proteggermi lungo la pérephérique¹. A un anno dalla sua morte, ogni volta che passo nella sua strada, non posso fare a meno di gettare uno sguardo verso la finestra. Le imposte sono chiuse, ma continuo ad avvertire la sua presenza e il suo sguardo che mi si posa sulle spalle, mentre mi allontano.

    La seconda immagine è quella di mia madre avvolta in un kimono giapponese sopravvissuto agli anni algerini, e che lei ci teneva a indossare per la festa dello Yom Kippur. Ci accoglieva, esile e felice, con i tratti tesi dalla giornata di digiuno e in mano un cucchiaio di confettura di mele cotogne preparata da lei stessa, che ci offriva affinché il nostro anno fosse dolce come quella marmellata. Poi ci abbracciava, dal basso del suo metro e sessanta, e ci stringeva come se fosse passato un secolo dall’ultima volta in cui ci eravamo visti. Sento ancora la grana della sua pelle sotto le labbra e le note vanigliate del suo profumo preferito.

    Mi accorgo ora di aver commesso un errore, uno solo, davanti alla malattia di mia madre. Aveva novantun anni ma ai miei occhi aveva smesso di invecchiare una trentina d’anni prima. Si era fatta strada in me la pericolosa, insidiosa idea che fosse immortale. Lo so, è una cosa stupida, una convinzione che si scontra con tutte le leggi più scontate della biologia umana, ma ingenuamente pensavo che mia madre fosse l’eccezione. E nonostante i segnali della malattia non arrivavo a immaginare che potesse semplicemente smettere di vivere. Perciò, quando quella mattina d’inverno il suo respiro si è fermato, mi sono ritrovato in caduta libera come uno di quegli ascensori che perdono il controllo e che sono destinati a schiantarsi qualche piano più in basso. Ero devastato, solo e nudo. Dovevo imparare a vivere senza di lei.

    Nella settimana successiva, abbiamo cercato di rispettare la tradizione religiosa (mia madre era molto credente) che riguarda i decessi. Il corpo posato direttamente a terra, avvolto in un drappo bianco teso sul muro, simile a una tenda, che sottrae il defunto agli sguardi dei vivi; la esequie nel cimitero (è stata posta a riposare accanto al marito), dove non ho osato pronunciare una sola parola per paura di scoppiare in singhiozzi, la camicia lacerata dal rabbino, affinché si vedesse anche da lontano che eravamo in lutto; e poi i sette giorni, passati insieme, sorelle e fratelli, durante i quali abbiamo riso e pianto sull’onda dei ricordi, come una catarsi – geniale invenzione della religione di molto precedente le teorie freudiane –, e che ci hanno guidato dolcemente verso l’accettazione della morte e una lenta ripresa della vita quotidiana.

    Era giunto infine il momento di separarsi e di tornare nelle proprie case, rimaste nel mondo esterno, quello dei vivi, i quali non sapevano nulla di ciò che avevamo appena sperimentato. Scocca l’ora della verità, nella quale ognuno porta su di sé la sua pena, senza l’aiuto dell’altro, e deve continuare ad andare avanti nella tragica banalità dei gesti quotidiani. Non ci sono alternative, ci dicevano i rabbini, ormai lei vive in voi e voi dovete rispettarne la memoria amando la vita. Sì, forse era così, ma di certo non era una cosa facile. Si respira profondamente e ci si mette in marcia, si solleva la testa e si pagano i conti, ci si chiude in bagno per nascondere un momento improvviso di tristezza e si indossa una maschera davanti ai colleghi d’ufficio. Ma di nuovo, come fosse un’assistenza clienti, attraverso la recita del Kaddish la religione ha provveduto a tutto.

    Tre volte al giorno, i figli di una persona defunta devono andare in sinagoga per recitare il Kaddish, chiamato a torto la preghiera dei morti mentre non c’è una sola parola che faccia riferimento al lutto. Si tratta di una delle parti centrali della liturgia ebraica, in armeno, la lingua più usata all’epoca di Babilonia. Si rivolge a Dio perché il suo nome sia glorificato, elevato e magnificato. Alla fine, l’abnegazione dell’orante non potrà che influenzare positivamente il tribunale celeste davanti al quale compare l’anima del defunto. Immaginate, allora, quanto grande sia la responsabilità dei figli dopo la morte dei genitori. Se non recitano il Kaddish coscienziosamente, rischiano di ritardare il momento in cui il padre o la madre verranno accolti in Cielo. E non si può usare come scusa una riunione di lavoro, un contratto da firmare o, molto più semplicemente, la fatica di fine giornata: un’assenza mette in pericolo l’anima dei propri genitori. Così, in preda al panico, mi sono messo alla ricerca di una sinagoga che potesse accogliere il mio Kaddish e salvare così l’anima di mia madre dall’oblio.

    Internet fu il mio salvatore. Nel giro di pochi minuti, mi fornì l’indirizzo di un Tempio a un centinaio di metri da casa mia. Mi recai lì, non senza una certa apprensione. Era uno degli edifici Eiffel, con i suoi archi e le travature in acciaio, tipiche del geniale costruttore dei monumenti più emblematici di Parigi. All’interno di una corte, nascosta sul retro dell’edificio, si trovava la sinagoga, difesa da un imponente portale di legno massiccio, e la cui facciata forniva un solo indizio su quale fosse la sua destinazione: una mezuzah, un piccolo contenitore cilindrico con dentro un estratto delle sacre scritture e che dovrebbe servire a proteggere il luogo.

    Con una fitta di paura al ventre, mi decisi a varcare la porta. L’ingresso era deserto. Sui muri compariva qualche foto, cerimonie che si erano svolte nella sinagoga, insieme a un tabellone con gli orari delle preghiere in rapporto al sorgere e al tramontare del sole. In fondo all’atrio, un appendiabiti a disposizione dei fedeli, vuoto. A sinistra, una sala tappezzata di libri nella quale troneggiava un immenso tavolo dove, a una delle estremità, era seduto un uomo che stava studiando, e che io interruppi.

    «Mi scusi…».

    L’uomo sollevò la testa. Attorno alla quarantina, moro, con una barba che gli inghiottiva il viso, vestito con un abito scuro e una cravatta blu. Mi ricordo di aver pensato: Ma chi è che ai giorni nostri porta ancora le cravatte, a parte i politici e i presentatori del TG delle 20:00?. E, subito dopo: Non può che essere il rabbino.

    «Mi scusi», ricominciai, incerto, «questa è una sinagoga, vero?»

    «Molto di più», rispose lui con un sorriso. «Questa è casa sua!».

    Era una frase da nulla, poche parole, una formula di cortesia, un momento di gentilezza, eppure riuscì a commuovermi. Ero ancora fragile, lo sapevo bene, e dovevo fare attenzione alla più piccola emozione, ma iniziavo a pensare di aver fatto proprio bene ad aprire quella pesante porta di legno. Gli spiegai il motivo per cui mi trovavo lì, la morte di mia madre, il Kaddish ecc.; e poi gli dissi anche che volevo far parte, per un po’, della sua comunità. Si avvicinò a me e inaspettatamente mi abbracciò, mi fece le sue condoglianze e mi assicurò che lì avrei trovato tutto l’aiuto necessario per rispettare i riti legati alla morte di un genitore. Mi fece qualche domanda per sapere chi fossi, da dove venissi, cosa mi aspettassi da lui e infine mi invitò nella sinagoga attigua al suo ufficio.

    «La funzione inizierà fra un quarto d’ora», mi disse, «ma intanto venga, la voglio presentare ai fedeli che sono già arrivati».

    La sala presentava lo stesso marchio Eiffel, con archi d’acciaio che la attraversavano da parte a parte. Avevano aggiunto un controsoffitto bianco dal quale pendeva un immenso lampadario che dominava tutto lo spazio. Alla sinistra, il pulpito dal quale ufficiava il rabbino; di fronte, il luogo destinato ai rotoli della Legge, protetto da pesanti tende di velluto ocra e, fra i due, banchi di legno che potevano accogliere dalle duecento alle trecento persone. Nessun lusso ostentato, anzi, la disposizione rivelava una certa severità temperata solo dalla dolce luce che entrava dalle finestre. Conobbi Samuel Toledano, uno splendido ottuagenario originario di Meknes, e un vero pozzo di scienza per quello che riguardava la liturgia. E poi due uomini sui vent’anni che il rabbino mi presentò come due delle voci d’oro della sinagoga. E altri ancora, di cui ho dimenticato i nomi, ma che, con un gesto, un sorriso o una parola, mi offrirono conforto. Infine, un po’ in disparte, nell’ultima fila, era seduto un uomo sulla quarantina, con lo sguardo spento, e che il rabbino ci teneva molto a presentarmi. Era rasato in modo approssimativo, e aveva la camicia a brandelli; riconobbi così un compagno in quel momento di dolore.

    «Ha appena perduto suo figlio», mi sussurrò. «Aveva undici anni».

    Un pezzo del mio dolore si sgretolò di colpo. Chi ero io, che avevo perso una madre di novantun anni, davanti a un padre che piangeva la morte del figlio? La mia sofferenza faceva parte dell’ordine naturale delle cose. La sua no. Sono i figli a dover seppellire i genitori, non il contrario. Fu allora il mio turno di dimostrargli vicinanza, quasi scusandomi per la banalità di ciò che mi era capitato. Gli feci le condoglianze, con un sorriso dolce-amaro sulle labbra. In quel momento il Kaddish rivelava tutta la sua efficacia psicologica: la situazione di quell’uomo mi aiutò a relativizzare il mio dolore, a sentirmi meno solo, ad accettare l’ineluttabile come parte integrante dell’esistenza dell’essere umano sulla Terra.

    «Ecco, si sieda dove preferisce», mi disse, sospingendomi verso il centro della sinagoga. «La funzione inizierà fra poco. Intanto vi lascio in compagnia di questo libro».

    Tirò fuori da uno degli scomparti che si trovavano sulla spalliera di ogni panca un testo rilegato in cuoio, con la copertina beige. Era un libro di preghiere trascritte foneticamente, una vera àncora di salvezza per tutti i miscredenti assaliti da un improvviso impeto di fede, ma per i quali i caratteri ebraici restavano comunque indecifrabili. I miei maestri di letteratura avevano ragione: in un quarto d’ora ero arrivato in un altro universo, la mia sofferenza si era (un po’) alleviata e cominciavo ad ammettere che non ero poi l’uomo più sfortunato del mondo. E tutto questo solo aprendo la porta di un edificio sconosciuto. Ah, i dottori della fede che avevano fissato l’insieme dei principi di vita ebraici sapevano il fatto loro!

    Immerso in quelle riflessioni, ancora stordito per la valanga di sentimenti che mi era franata addosso, non mi ero accorto che un uomo si era venuto a sedere accanto a me. Anzi, per essere precisi, ero io che mi ero andato a sedere vicino a lui. Nella sinagoga ogni fedele aveva il suo posto, le sue abitudini, il suo scomparto privato, nel quale, alla fine di ogni funzione, riponeva i libri e, a volte anche il suo talit, lo scialle da preghiera. Mi salutò in silenzio, poi accennò un sorriso vedendo il libro con la copertina beige che tenevo in mano, offrendosi di indicarmi la pagina corrispondente all’inizio della funzione. Lo lasciai fare, colpito dalla sollecitudine che mi dimostravano così tante persone mai viste prima. Quell’uomo sulla quarantina era moro, magro, con un abito grigio e una camicia bianca, dal colletto aperto – una strana commistione di John Turturro e Christophe Willem – e la kippah sul capo. Avevo appena incontrato Yohan.

    La preghiera ebbe inizio. Facevo fatica a seguire, nonostante la mia lettura assidua di Ebraico per negati! Venne anche il momento del Kaddish. Fu il signor Toledano, seduto subito dietro di me, che mi diede un colpetto sulla spalla e mi sussurrò: «Tocca a lei… Forza!». Mi ritrovai in piedi, davanti all’assemblea che mi osservava con interesse, al fianco del padre che aveva perso suo figlio, a salmodiare la preghiera per i morti. In previsione di quel momento, mi ero esercitato a casa, a dire e ridire quelle parole che per me non significavano nulla e che dovevo scandire con voce salda e chiara. L’armeno si agitava nella mia bocca, cascate di consonanti si riversavano dalla mia gola a un ritmo sfrenato, come fossero un treno lanciato a tutta velocità, senza alcun controllo. Ma io tenevo botta, e mi aggrappavo al foglietto plastificato che un rabbino pietoso mi aveva regalato al cimitero, alle esequie di mia madre. Quando giunsi alla fine della mia preghiera, decine di sorrisi di incoraggiamento mi riaccompagnarono al mio posto. Il mio vicino mi accolse con lo sguardo caloroso di chi ti ha accettato nella sua comunità.

    «È andata benissimo! Te la sei cavata egregiamente», si complimentò Yohan passando al tu, mostrando all’improvviso una specie di complicità. «Adesso fa’ dei bei respiri e preparati al prossimo Kaddish. Ce ne sono altri due prima della fine della funzione».

    Per poco non svenni di fronte alla scoperta di quegli altri due Everest da scalare. Tremavo, ma sapevo di aver superato la prima prova, il mio rito di iniziazione. Sarei riuscito ad ammetterlo? Nel giro di una settimana finii con il salmodiare la preghiera come fossi un sacerdote di Babilonia, orgoglioso dei miei progressi, pronunciando l’armeno come se non avessi fatto altro in tutta la mia vita.

    I giorni passavano, le preghiere si succedevano al ritmo del Kaddish, Yohan e

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