Romanzo mafioso. Cadaveri eccellenti
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Romanzo mafioso. Cadaveri eccellenti - Vito Bruschini
1
Il fumo uccide
Palermo, via Pecori Giraldi, giugno 1979
La droga, come qualsiasi prodotto commerciale, per essere smerciata con un buon profitto, si deve adeguare ad alcune regole di mercato. Innanzitutto, deve essere di ottima qualità e questa viene stabilita a seconda del terroir di provenienza. Ad esempio, la coca più buona del mondo proviene dal distretto di Cochabamba in Bolivia, tanto che il termine bamba ha finito per identificare genericamente qualsiasi tipo di droga di qualità superiore. La seconda regola è che non deve essere tagliata troppe volte. Tutti i pusher sono avidi di guadagno e la tentazione di diluirla con sostanze improbabili è davvero forte. E così la dose finisce per trasformarsi in un veleno, con conseguenze spesso drammatiche. La terza regola deriva dal maggiore o minore controllo degli organi di pubblica sicurezza su una determinata piazza: più controllo c’è, e più il prezzo sale; meno controllo c’è, e più droga circola, con il risultato di comprimere i prezzi delle dosi, favorendone quindi lo smercio.
Il commissario Boris Galeffi, sprofondato sul sedile della Giulietta di servizio, vagava con la mente tra queste considerazioni e ricordava con nostalgia ai tempi del contrabbando delle sigarette. Aveva abbastanza anni per aver assistito, nel corso della sua carriera, al passaggio dal traffico delle bionde
a quello della droga. Il contrabbando delle sigarette aveva cominciato a indebolirsi con la diffusione della moda dell’ecologia, della vita all’aria aperta, del benessere, che agli inizi degli anni Settanta aveva conquistato ampie fasce di popolazione. Ricordava con nostalgia le estati in campeggio. Anche lui, come molti colleghi, aveva acquistato una caravan e per un po’ se ne era andato in giro per l’Italia con la moglie e la figlia ancora piccola.
Ma c’erano anche altri fattori che avevano portato alla crisi della sigaretta: gli studi e le statistiche elaborate dalla ricerca sul cancro. Quelle cifre suonarono il campanello d’allarme per i numerosi fumatori, che scoprirono di avere i polmoni spalmati di catrame, come facevano vedere certe foto terroristiche pubblicate sui settimanali.
Il commissario Galeffi estrasse dal pacchetto l’ennesima sigaretta e la incollò a un angolo della bocca. Il brigadiere fu lesto a sfilare l’accendino elettrico dalla sua sede nel cruscotto, porgendogli poi il cilindretto incandescente. Il commissario tirò due profonde boccate, facendo ardere il tabacco.
Qualche secondo dopo, la Giulietta si trasformò in una camera a gas. Malgrado i finestrini aperti, la nuvola di fumo indugiava sul tettuccio dell’auto, impregnandone la tappezzeria. Poi, lentamente, trovò una via di fuga da uno spiraglio nel finestrino e scivolò fuori, fondendosi all’umidità della calda notte palermitana.
I due poliziotti non parlavano. Ognuno chiuso nei propri pensieri, fissavano le finestre spente del terzo piano di un palazzone di via Pecori Giraldi, nel quartiere Roccella. Erano in attesa che si accendessero per irrompere nell’appartamento e sorprendere il proprietario con le mani nel sacco.
L’uomo a cui da giorni stavano facendo la posta, era Leoluca Colicchia, un corleonese della banda di Ninuzzu ’u Ciancatu e di Saro Raìno, detto ’u Vasciu, per ricordare la sua modesta statura. Il commissario sperava di beccarlo con la roba, almeno così gli aveva spifferato la gola profonda
che lo aveva messo su quella pista.
Boris Galeffi aspirava lunghe boccate mentre rincorreva i suoi pensieri. Ricordava i primi carichi di morfina base, che con i suoi uomini della squadra mobile di Palermo era riuscito a scoprire e a sequestrare. Quella droga arrivava dalla Turchia e sbarcava a Trapani, oppure con i
TIR
attraversava lo Stretto, diretta a Palermo, centro di raccolta. Ma poteva provenire anche dal cielo e atterrare direttamente a Punta Raisi.
La morfina base non era ancora eroina. Andava trattata, lavorata in un lungo processo chimico. Erano necessarie apparecchiature non troppo costose, ma era fondamentale una preparazione scientifica di prim’ordine.
Con il tempo, la polizia arrestò alcuni chimici francesi, tutti marsigliesi. Questi confessarono e denunciarono i siciliani. Dissero che li avevano ingaggiati direttamente al loro Paese per mettere su, nei dintorni di Palermo, alcuni laboratori per la trasformazione della morfina in eroina.
Nel giro di qualche mese, il contrabbando di sigarette diventò un’attività di serie B. Ma non fu un’esperienza inutile per le famiglie mafiose. Le cosche, passando agli stupefacenti, si ritrovarono una struttura logistica già operante: l’intera filiera del traffico della droga, utilizzò gli stessi contatti, le stesse vie di traffico, le stesse banche e le stesse organizzazioni criminali usati per spostare le scatole delle bionde
. Con un piccolo, ma non insignificante particolare: i guadagni della droga erano mille volte più remunerativi di quelli delle sigarette.
Boris ricordava ciò che gli ripeteva sempre i primi tempi il procuratore Pietro Scandurra, quand’era ancora un sostituto: «E così quella merda ha invaso anche la nostra terra, rendendo schiavi i nostri figli e imbastardendo l’economia intera di una nazione. Con tutti quei soldi, prima o poi i mafiosi si compreranno anche i nostri politici».
Con un smorfia di disgusto, Galeffi fece schizzare dal finestrino il mozzicone della sigaretta. La scia della brace si dissolse nel buio della notte prima di toccare terra.
Lo sguardo tornò a fissare le finestre del terzo piano. Erano ancora spente.
Dal pacchetto estrasse un’altra Nazionale. Il brigadiere gli porse l’accendino incandescente e con due profonde boccate accese una nuova sigaretta. Ingoiò il fumo, trattenendolo per qualche secondo nei polmoni. Poi lo soffiò via con forza.
Quell’operazione era nata quasi per caso grazie alla segnalazione di un ristoratore. L’uomo aveva trovato una P.38 nello sciacquone del bagno del suo locale di fronte al Molo Santa Lucia, in via Francesco Crispi. Aveva avvisato la polizia e un paio di agenti si erano recati sul posto per verificare il ritrovamento. La pistola era incartata in un foglio di plastica e immersa nell’acqua della cassetta. Il commissario Galeffi, avvisato del fatto, aveva ordinato di lasciarla al suo posto e di mettere sotto controllo il locale, in attesa che qualcuno andasse a ritirare il pacco.
Da quel giorno ai camerieri veri se ne aggiunsero due finti. Gli agenti non dovettero aspettare molto: dopo neppure una settimana, nel ristorante entrarono due pregiudicati, uno era di Altofonte e l’altro della zona di via dei Mille. Ordinarono il pranzo, poi il primo si alzò e andò nel bagno. Uno degli agenti lo riconobbe e avvisò subito la Centrale.
Il criminale dopo un po’ tornò a sedersi al tavolo dell’amico. Nel frattempo, era arrivata la parmigiana, ma non fecero a tempo ad assaggiarla perché nel locale irruppero il commissario Boris Galeffi e alcuni uomini della squadra mobile. Furono silenziosi e rapidi. I due mafiosi si accorsero di loro quando ormai ce li avevano alle spalle. Si ritrovarono con la faccia spiaccicata sui piatti di melanzane e i polsi ammanettati dietro la schiena, senza aver avuto neppure il tempo di tentare un minimo di resistenza.
In questura non rivelarono il motivo per cui la P.38 era stata nascosta nel ristorante, né chi ce l’avesse portata. Non dissero se stavano preparando un attentato e a chi. Ma la fortuna questa volta fu dalla parte del commissario. Nella tasca del mafioso di via dei Mille fu trovata una ricevuta per il pagamento dell’utenza elettrica di un appartamento di via Pecori Giraldi.
***
In quelle stesse ore Saro Raìno aveva raccolto nella sua villa, nei pressi del Parco dell’Uditore, i principali boss delle famiglie corleonesi. Oltre a lui e a Piddu ’u Tignusu, c’erano Leoluca Culicchia, Bernardo Bova e suo figlio Giovanni di San Giuseppe Jato, Raffaele Iovino, un certo Mariuzzu – il più giovane tra i suoi killer – e altri quattro mammasantissima delle vicine frazioni di Corleone.
Saro aveva voluto convocare i suoi più stretti e fedeli collaboratori per un importante annuncio.
«Se vi ho scomodato», disse ai capi famiglia dopo aver versato personalmente a tutti i presenti un rosso delle sue vigne, «è perché noi corleonesi siamo stanchi di raccogliere le briciole che Stefano Bontà, Totuccio Indelicato e i loro amici hanno il garbo di lasciarci. Quei due hanno intrapreso un traffico che gli fa entrare nelle tasche una montagna di piccioli, ma si guardano bene dall’ammetterci al grosso dell’affare. Con la scusa che le raffinerie hanno un costo elevato, più di qualche chilo alla volta non vogliono darcene. Dobbiamo sempre accontentarci della loro elemosina? Voi cosa dite? Vi sta bene questo trattamento?»
«È vero quello che dice Saro. I palermitani ci trattano con sufficienza», intervenne Bernardo Bova, un anziano boss, alleato di ’u Vasciu sin dalla prima ora. «Ma cosa possiamo fare, secondo te?»
«Non essere impaziente, Bernardo, fammi sentire anche il parere degli altri». Il tono era di sfida e i boss avevano timore a pronunciarsi.
«I palermitani, come Indelicato, possono permettersi d’importare grandi quantitativi di morfina», s’intromise suo cognato Leoluca Culicchia, «perché lui ha dei cugini in America e non deve pagare sull’unghia la droga. Da noi invece vogliono essere pagati in anticipo perché non siamo loro parenti e non si fidano di noi corleonesi».
«Potremmo chiedere a Bontà e a Indelicato di concederci qualche chilo in più», fece Raffaele Iovino, un altro tra i boss più fidati.
«E quindi dobbiamo presentarci con il cappello e accontentarci di quello che loro vogliono elargirci?»,