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La storia di Roma in 100 monumenti e opere d'arte
La storia di Roma in 100 monumenti e opere d'arte
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La storia di Roma in 100 monumenti e opere d'arte

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About this ebook

Dall’autrice del bestseller 101 cose da fare a Roma almeno una volta nella vita

I monumenti e le opere d’arte raccontano l’eternità della capitale, la sua storia, le sue tappe dalla fondazione ai giorni d’oggi. Con la capacità divulgativa e di approfondimento storico che contraddistingue la sua scrittura, Ilaria Beltramme ripercorre i periodi salienti della città eterna attraverso le opere che meglio li hanno rappresentati e ne hanno espresso lo spirito. Dalla Roma degli etruschi e i suoi simboli, per passare a quella di Cesare, di Augusto e delle gentes; e poi ancora, il Medioevo romano e la città papalina, il Rinascimento e le gesta dei papi del tempo, per arrivare alla Roma barocca, quella di Caravaggio e dei Barberini, e poi alla Roma settecentesca degli eruditi e degli antiquari; per concludere poi con la Roma novecentesca e fascista e chiudere con l’età contemporanea. Dalla Lupa capitolina alla Piramide Cestia, dalla Domus Aurea alla basilica di San Clemente, dai dipinti di Caravaggio all’opera di Borromini e Bernini, ripercorrendo i secoli fino ai nostri giorni, fatti di street art, di contaminazioni artistiche e di risveglio delle periferie.

Dalla lupa capitolina alla street art

Ecco alcune delle opere presenti nel testo:

• la piramide cestia
• la basilica di San Sebastiano
• la torre delle milizie
• il mausoleo di Cecilia Metella come “castrum caetani”
• Il giudizio universale nella Sistina
• gli affreschi di Santo Stefano Rotondo di Pomarancio e Antonio Tempesta
• la chiesa di Sant’Agnese in Agone
• Piazza del Popolo restaurata da Valadier per Pio VII
• il mattatoio di Gioacchino Ersoch
• la casina delle civette
• il Foro italico di Del Debbio
• i sacchi di Burri
• M.U.R.O. al Quadraro e Big City Life a Tormarancia
Ilaria Beltramme
è nata a Roma nel 1973 e spera di morirci vecchia e felice il più tardi possibile. Appassionata della sua città e di storia dell’arte, è anche traduttrice di fumetti e romanzi. È ancora convinta che il Tevere sia una divinità. Con la Newton Compton ha pubblicato 101 cose da fare a Roma almeno una volta nella vita, 101 perché sulla storia di Roma che non puoi non sapere, Forse non tutti sanno che a Roma..., La storia di Roma in 100 monumenti e opere d'arte e i romanzi La società segreta degli eretici e Il papa guerriero.
LanguageItaliano
Release dateNov 16, 2015
ISBN9788854188051
La storia di Roma in 100 monumenti e opere d'arte

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    La storia di Roma in 100 monumenti e opere d'arte - Ilaria Beltramme

    es

    374

    Prima edizione ebook: novembre 2015

    © 2015 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-8805-1

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Corpotre, Roma

    Ilaria Beltramme

    La storia di Roma in 100 monumenti e opere d'arte

    omino

    Newton Compton editori

    A M. sempre

    Credetemi, io preferirei vivere a Roma e mangiare pane e acqua ed avere soltanto una cameriera, piuttosto che avere in un’altra città tutti i regni e i tesori del mondo.

    Cristina di Svezia, lettera al cardinale Decio Azzolino (giugno 1666)

    Introduzione

    L’arte è sempre espressione del suo Zeitgeist più che del tempo cronologico in senso stretto. A volte lo anticipa, altre se ne fa metafora, simbolo perfetto. Logo, a voler essere arditi con le parole. A Roma questo magnifico rapporto di causa ed effetto ha prodotto la bellezza su cui oggi ci soffermiamo incantati, certi che non esista al mondo un luogo simile. La luce, la quantità di capolavori, la stratificazione sono i primi elementi che ci affascinano, ma non sono i soli. Scavando in profondità, infatti, scopriamo che non è mai soltanto il dato estetico che ci cattura, quanto l’esperienza, anche intellettuale, di percepire nei monumenti della Città Eterna appunto, i simboli perfetti della storia. E di storia a Roma ce n’è tantissima.

    È il destino di una città nata con l’intento di essere teatro. Sul palcoscenico capitolino, infatti, si sono dati il cambio primi attori e comprimari da quasi tre millenni. Ognuno ha portato il suo personale contributo alla scenografia, facendo in modo che il suo nome, le sue aspirazioni, le sue aspettative restassero impigliate sui monumenti, su ciò che oggi consideriamo l’oggetto della nostra curiosità turistica. In questa dimensione, dentro le opere che ogni epoca si è lasciata alle spalle, è possibile leggere una storia a tratti diversa e il marchio dei cambiamenti, grandi e piccoli, che si sono verificati nel tempo. Che poi è anche il motivo per cui qui non troverete un elenco di emergenze artistiche, trattate nella loro semplice progressione cronologica. Le intenzioni di questa guida, infatti, sono quelle di restituire un ritratto della bellezza romana che provi a spiegare per quale ragione i monumenti di Roma esistono, in primo luogo. E poi perché sono diventati importanti (o dovrebbero esserlo) e quali vicende, politiche, culturali, personali, li legano ai luoghi in cui li incontriamo. Insomma, questo libro tenta di raccontare come hanno fatto alcune tonnellate di marmo, di bronzo o di tela dipinta a diventare genius loci, anime parlanti, collettori di una narrazione capitolina che, come sempre, trattiene la storia in tutte le sue sfumature, anche quelle più basse.

    Prendiamo il Colosseo, per esempio.

    Che sia un simbolo non ci sono dubbi. Ma che rappresenti anche il marchio con cui la gens Flavia si riappropriò del concetto di bene pubblico usurpato dalla politica urbanistica di Nerone, bisogna scoprirlo infilandosi nel i secolo d.C., respirando l’aria di una Roma schiacciata dalla Domus Aurea. Chiederlo alle sue sale ipogee, recentemente danneggiate dal giardino che poi, nel Novecento, le è nato sopra. Anche la flora del parco di Colle Oppio è un monumento, comunque. E racconta idee, necessità e sogni dell’epoca in cui è stato partorito. Questo rimpallo continuo di stimoli è ciò che ha ispirato il libro, in cui in fondo Roma è intesa come un’immensa galleria di ritratti di famiglia. Di questa ipotetica, splendida famiglia millenaria i cento capitoli che incontrerete vanno quindi interpretati come gli episodi più significativi. I momenti clou, quelli che non si dimenticano e quindi vanno immortalati in una loro manifestazione fisica. Non gli anni, ma le trasformazioni, i cambiamenti.

    Si scoprirà, per esempio, che il Concilio di Trento, a metà Cinquecento, rivoluzionò radicalmente il modo di intendere la pittura. E produrrà i capolavori di Caravaggio, chiese incredibili, dibattiti densi di significati. Quella del Concilio è un’ombra lunghissima che si stende su un periodo vasto che va da Michelangelo a Bernini e torna sempre, come un Poltergeist, a volte invisibile altre in modo palese. Alcuni monumenti, più di altri, hanno saputo imprigionare gli istanti in cui tali mutazioni avvenivano nella società dell’epoca. Sono capolavori non soltanto eccelsi dal punto di vista estetico, ma fanno pure da boa al cammino della cultura. A questa benedetta eternità romana, che è come un fiume tumultuoso. Ogni tanto si gonfia, oppure si blocca per un po’, in attesa di un nuovo sussulto. Roma dunque è un teatro. Questo è il suo destino, stabilito molti secoli prima della nascita di Cristo. Nel tempo, la sua antichità l’ha sempre sostenuta. E quando un’epoca richiedeva il cambiamento, i ruderi correvano in soccorso. Aiutavano la città a riconoscersi. È il motivo per cui, istintivamente, non possiamo fare a meno di provare affetto per le rovine. Ci hanno accompagnato. Sono state per la città un costante esercizio di memoria.

    Questo libro ha la pretesa di raccontare la sintassi del dialogo continuo con l’Antico e di suggerire nuovi punti di vista che mettano insieme i grandi monumenti della città turistica ad altri angoli un po’ meno noti, in cui però oggi si annidano storie cruciali per l’evoluzione dell’eternità romana. Da La Lupa capitolina, origine e madre, alla street art dei giorni nostri, Roma si svela nell’arte e nell’arte si assicura continuità affinché la sua avventura continui a essere narrata all’infinito.

    La guida che avete fra le mani tenta di farlo in cento episodi che dell’eternità sono diventati icone. O lo saranno (forse), se riusciranno ad assorbire la storia e a restituircela con la loro bellezza. L’intento ultimo è quello di offrire un altro elemento alla contemplazione, una voce in più alle passeggiate. I monumenti di Roma esistono per ragioni precise e svelano meccanismi di sopravvivenza splendidamente arzigogolati. Oggi ci permettono di riempirci gli occhi di luce, di strati e di ruderi scomposti. E, perciò, valeva la pena svelarne il cammino.

    Ilaria Beltramme

    Ottobre 2015

    L’età antica

    11

    La nascita di una metropoli

    La Roma delle origini è un sogno, un miraggio. Ne conosciamo l’essenza che profuma di tufo, di legno e di ferro, di solida arcaicità e dell’odore forte delle pecore. Ma la nostra è una conoscenza solo emotiva, letteraria per alcuni. Poco reale. Quella Roma, che viveva i sette colli come un luogo da cui puntare al cielo, non esiste. O meglio, sembra talmente tanto concettuale da non potersi afferrare. Leggendaria, aleatoria, ancestrale. Quella Roma è figlia del mito e del Pomerio, cioè i primi confini sacri. E vanta protezioni altolocate fra gli dèi, da cui discende. La città è l’idea stessa del potere, che per definizione deve essere totale, assoluto. È la prima metropoli del mondo, fondata da stranieri, grazie a un rito straniero. E a loro è dedicata.

    Potere ed equilibrio sono le parole magiche che l’accompagneranno fin dai primi giorni. L’Urbe dei primi secoli segue alla lettera il mandato affidatole dal suo protettore per eccellenza, Giove, e diventa una sua manifestazione terrena. E al dio, capo di tutti gli dèi, infatti, dedica un tempio di tufo, costruito dagli Etruschi che sarà un modello architettonico per tutte le province conquistate in futuro. Per ogni tempio di Giove costruito, però, molte altre divinità straniere entreranno a Roma e, con loro, oceani di fedeli (liberi e schiavi) che da forestieri, nel giro di poco, si faranno romani in una spirale fruttuosa di scambi, confronti e conflitti, fondamentali per il successo della città (e della sua civiltà).

    Al netto di Marte e Rea Silvia, dei gemelli e della Lupa, iniziatori mitologici del sogno di Roma, quindi, la prima metropoli del mondo, già nell’epoca dei Re si fonda su un sistema complesso di equilibri di potere e alternanze. Sui sette colli, la città dei Quiriti, è un miscuglio di etnie e tribù che balla al ritmo della musica scandita dall’imperium regio e non disdegna re stranieri, i quali – da esterni – possono redimere le contese interne ai vari gruppi che compongono la società. L’elemento individuale, la responsabilità del singolo che si impegna per tutta la collettività sono, invece, un altro Leitmotiv. Perciò ogni fase, ogni cambiamento, o passaggio della vita della città viene siglato dalla presenza di un quasi-Romolo, un nuovo fondatore che s’incarica di guidare l’Urbe tutte le volte che risorge, dopo essersi scontrata con un nuovo popolo, nuove idee, o nuove divinità.

    A queste trasformazioni, inoltre, corrisponde uno sforzo per riorganizzare la città nei suoi servizi e nei suoi monumenti sacri. In generale, è in questo momento che si stabiliscono standard, si impostano criteri che saranno la norma anche in futuro. È in questo momento, in fondo, che Roma diventa la Roma poi vagheggiata da Augusto. E infatti questa è Roma per davvero, cioè la città riconosce in sé il potenziale sistema di valori, opere pubbliche, etica e apertura mentale che la traghetterà nei secoli futuri. E la prima metropoli del mondo, infatti, nel iii secolo comincia già ad assumere la sua forma karmica definitiva, cioè diventa una grande comunità, ricca di templi policromi, dedicati a dèi non sempre autoctoni, movimentata da lingue, usi, religioni e tradizioni variegatissimi. Arricchita a ogni nuovo arrivo, educata alla bellezza. A ogni tipo di bellezza.

    Nel corso di questo viaggio, infine, il Tevere la protegge e l’accompagna. Orazio Coclite, su Ponte Sublicio, durante la transizione che siglò la morte della monarchia, mise in salvo i suoi compagni e si stagliò da solo contro l’esercito di Porsenna, re etrusco alleato dei Tarquini. Poi chiese ai suoi di tagliare il ponte alle sue spalle e, dopo aver implorato pietà al padre di tutti i romani, Tiber, si gettò in acqua pur non sapendo nuotare. E il fiume lo salvò, visto che un padre non lascia morire i suoi figli. Furono questa protezione e la determinazione dei romani che convinsero il re Porsenna a non combattere più un popolo tanto dignitoso. Molti secoli più tardi, quando imperatori corrotti insozzavano il nome delle istituzioni con il loro comportamento scandaloso, gli oppositori si appellarono a questo universo mitologico per salvare Roma. Un mondo di uomini eroi e donne integerrime. Un mondo ormai alieno dalla metropoli imperiale su cui, al contrario, si stagliavano le ombre della decadenza anche nel suo momento di maggiore espansione.

    Purtroppo, nella città contemporanea non c’è molto di questa Roma gloriosa e della sua arcaica dignità, ma quello che si può ammirare è un simbolo importante, ha ancora carattere di primo miglio, di simulacro in un cosmo di storia e valori, di gesta ed emozioni. E continua a commuovere per la sua silenziosa, solida forza che non si è mai ridotta a dispetto dei millenni, di legioni, di imperatori indegni e di tracolli che allora, quando la metropoli allargava il torace per il suo primo respiro, nessuno poteva immaginare. Oggi, alcuni di quei ruderi, si incontrano per la strada e sono scheletri di un passato veramente remoto. Sono le radici scoperte dell’albero Roma, ma raccontano una storia fondamentale, senza la quale non ci sarebbero stati i marmi, le terme, i teatri e le domus. E di certo non ci saremmo neanche noi.

    1. La lupa capitolina. Mamma Roma

    In principio fu la lupa. I suoi denti, il suo fiato, il suo latte caldo, il suo pelo ruvido odoroso di bosco. In principio furono anche il Lupercale, la sua grotta, le foglie del fico ruminalis che facevano ombra alla tana, il rumore rassicurante di una sorgente sotterranea che si gettava nel grande fiume placido. Prima di ogni palazzo, prima di ogni legione, di ogni tempio, di ogni colonna c’è soltanto questa immagine, preziosa oggi come millenni fa: l’inizio di tutte le cose.

    Ecco, la lupa capitolina, in quella sua splendida sfumatura brunastra, nello stupore che, nonostante i secoli, ancora illumina il suo sguardo è la personificazione dell’istantanea descritta poco fa. Lo sentite il rumore della sorgente sotterranea quando la guardate nella sua stanza privata ai Musei Capitolini? Dovreste. Percepite l’odore della terra del Lupercale, il profumo dell’umidità? Dovreste, anche perché la lupa capitolina è la più antica rappresentazione esistente delle origini della civiltà romana. È, insomma, il corrispettivo monumentale della leggenda dei gemelli. Ed è anche l’opera d’arte da cui si dovrebbe cominciare sempre, volendo conoscere gli aspetti più profondi di Roma attraverso i suoi simboli. Il suo essere archetipo storico. Passare a trovarla prima di cominciare un giro nella Città Eterna, allora, equivale a nascere sotto il suo segno, a guadagnarsi una benedizione dalla Mater Romanorum, per eccellenza. La lupa è la madre. La lupa è Roma.

    Sembrerebbe tutto semplice, assodato, certo. E invece quest’opera-simbolo di una città e dell’idea che ne ha guidato la crescita e la gloria è ancora oggetto di dibattiti e di analisi. Grande scalpore, per esempio, ha destato il suo ultimo restauro che è terminato nel 2000. Grazie a nuove tecniche di indagine sono state moltissime le scoperte sulla tecnica di fusione, sui materiali utilizzati (addirittura sulla loro provenienza), ma soprattutto sulla datazione perché, per quanto famosa e fondamentale sia la lupa capitolina, ancora non si è capito bene quando sia stata realizzata e da chi. È etrusca? È del v secolo a.C.? È la stessa statua di cui parlano le fonti? O invece si tratta di un’opera altomedievale come pure, fra le polemiche, qualcuno ha ipotizzato?

    La discussione – cassata da illustri archeologi, va detto – è però ancora aperta, anche perché la lupa potrebbe essere, in ultima analisi, la copia medievale di un originale etrusco. E ciò però non sposterebbe comunque nulla del suo valore metaforico. Anzi, a maggior ragione, sarebbe la prova documentata e finale dell’importanza di questo monumento sacro per la vita della città, a cui ricorda chi è e da dove viene. E glielo ricorda rinnovandosi nei secoli, ma rimanendo sempre madre di un’idea, perno su cui far girare ogni cambiamento, conferma divina di ogni scelta politica.

    Quando Augusto, nel i secolo, volle recuperare lo spirito primigenio dell’Urbe, dando nuovo vigore ai suoi simboli più arcaici, fu al Lupercale che rivolse l’attenzione. Nella grotta leggendaria dove si correvano, a metà febbraio, i Lupercalia in onore del dio Marte e si adorava il dio Pan e l’immagine della fiera progenitrice (questa?), volle aggiungere anche le statue della gens Giulia che si faceva custode delle origini. Custode e continuatrice di uno spirito autoctono, puro, integro. Qualcosa di simile accadde anche in epoca adrianea, ma allora la lupa divenne addirittura simbolo araldico, nonché interprete dello Zeitgeist di quel periodo. In un momento in cui l’espansione dell’Impero era vertiginosa, infatti, si rese necessario distinguere i romani di sangue puro, dagli altri, i romani delle province. Nel iii secolo d.C., invece, la lupa sparì dalle immagini pubbliche per lasciare spazio soltanto alla desolazione dell’uomo contemporaneo. E anche questo è un segno.

    L’ultimo fra gli imperatori antichi che cercò di elevarla ancora a equivalente della parola Roma, infine, fu Massenzio, nel suo tentativo di riportare l’Urbe all’antico e centrale ruolo primigenio. Sappiamo tutti come andò a finire: fu sconfitto dai soldati di Costantino e dal cristianesimo trionfante. Non che la lupa smise di funzionare, comunque. Rimase nel Lupercale, nascosta e braccata, fino al v secolo d.C., quando papa Gelasio, nel tentativo di smorzare il fervore pagano dei Lupercalia, la spostò in Laterano in occasione della fondazione dell’ordine monastico titolare e lì la trasformò in uno dei simboli della giustizia pontificia che, infatti, cominciò a essere amministrata Ad lupam, come dicono le fonti dell’epoca. Il Lupercale, di contro, fu lentamente abbandonato e rimase sepolto fra il Palatino e il Circo Massimo per secoli, finché non molti anni fa, un’indagine archeologica sembra avere identificato la grotta più importante di Roma, a circa sette metri di profondità al di sotto della casa di Augusto, proprio sul colle degli imperatori.

    Del resto, quando ci si ritrova al cospetto della Lupa (qui la maiuscola è quasi obbligatoria), si è testimoni di una manifestazione del divino: una bestia selvaggia accoglie due neonati e li tratta come fossero i suoi cuccioli, vincendo l’istinto a cibarsene. Da questo miracolo non può che provenire una conseguenza, quei bambini non possono che diventare re. E la città che fonderanno è destinata a godere del favore degli dèi in eterno. Da queste premesse nasce Roma. Il suo potere, invece, si sviluppa soltanto grazie all’eliminazione di uno dei due gemelli, che incarnano la metafora della dualità tipica dell’Urbe soprattutto ai suoi inizi: Romani e Sabini, i due colli sacri, il Palatino e il Campidoglio, i patrizi e i plebei, e solo per fare qualche esempio. È nella dualità che risiede il segreto del potere a Roma. Chi la scioglie, chi risolve tale dualità in una terza via ha diritto di chiamarsi fondatore.

    Anche l’epilogo della permanenza della lupa in Laterano, alla fine, ci parla di questo problema. Nella città cristiana il potere ecclesiastico non si potrà dire compiuto se non assorbirà in sé anche il Campidoglio, in quanto sede del governo laico e terreno di gioco delle famiglie aristocratiche. Nel 1471, papa Sisto iv istituisce i Musei Capitolini che sono il primo museo pubblico del mondo. Cioè rende ai cittadini il loro passato, facendo loro dono dei simboli fondamentali di una storia condivisa e, nel frattempo, assume su di sé un potere a cui i papi non rinunceranno mai più. Al primo papa della Rovere, non a caso, viene storicamente riconosciuto un ruolo di novello fondatore di una seconda Roma. La Roma, appunto, sistina. Per altro, fu in occasione della donazione che vennero fusi i gemelli che oggi ammiriamo sotto la lupa. Il completamento del gruppo bronzeo fu filologico e non arbitrario perché probabilmente anche nell’antichità la statua aveva Romolo e Remo attaccati alle mammelle. Probabilmente una coppia di gemelli fu fusa dagli edili in carica nel iii secolo a.C., quindi in epoca repubblicana. Tant’è vero che già un paio di secoli più tardi nessuno ricordava più l’aggiunta di Romolo e Remo e tutti diedero per scontato che i bambini fossero contemporanei all’animale. Potere di un simbolo ancestrale.

    Questa, in ogni caso, è solo storia. Ciò che invece colpisce del bronzo, al di là di tutto, è la sua posa fiera, calma seppure attenta. L’animale sta allattando e nel frattempo si guarda intorno. Ha lo sguardo meravigliato, perché forse si stupisce da sola di non desiderare di mangiare i neonati, prende atto del miracolo divino che c’è alla base della sua scelta di maternità e lo accetta. Se la guardiamo, lo percepiamo anche noi. Se guardiamo le costole che le spuntano sui fianchi, il suo pelo che s’increspa in mille perfette ondine di bronzo non possiamo fare a meno di entrare nella tana per partecipare a questa scena soprannaturale in cui anche noi, miseri mortali, per una volta, non corriamo rischi. È un evento unico. Un’esperienza quasi magica quella che si vive nella Sala della Lupa ai capitolini. È un luogo in cui la storia si fonde nel bronzo e ritorna a noi sotto forma di palpiti del cuore, di immagini archetipiche. C’è una mappa emotiva che aspetta di essere tracciata in una visita romana alla lupa più importante che incontrerete durante il cammino. Sulla strada altre opere, altri manufatti umani conterranno il senso profondo delle epoche in cui sono stati creati. La lupa riesce a contenere tutta l’eternità dell’Urbe. E forse anche per questo, ancora oggi, è la madre di tutti i romani. È Mamma Roma.

    2. Il Tempio di Giove capitolino. Dominare gli uomini adorando gli dèi

    Grandi blocchi di tufo cappellaccio punteggiano le pendici del Campidoglio, sbucano dai giardini di Palazzo Caffarelli o su via del Tempio di Giove, s’impongono nella sala attigua alla nuovissima esedra che ospita la statua equestre del Marco Aurelio, marchio del colle più simbolico di tutta Roma. Generalmente, a questi ruderi squadrati, imponenti e severi, non dedichiamo più di un giretto veloce, leggiamo l’apparato informativo distrattamente, buttiamo un occhio agli altri reperti che completano la sala e ce ne andiamo alla ricerca di altri segni più facili, più esplicativi. Nella collezione dei Musei Capitolini, del resto, non mancano. Ci sono il Bruto e la Lupa, c’è lo Spinario, c’è la galleria di epigrafica del Tabularium e infiniti riferimenti allo sviluppo successivo di Roma. Ai capitolini è facile studiare la storia attraverso i monumenti e le opere d’arte. Il primo museo pubblico d’Europa sembra esistere quasi solo per questo scopo.

    Perché dunque quei blocchi di cappellaccio riacquistino una voce propria e ci parlino in una lingua che riusciamo a capire e che stimoli la nostra fascinazione, dobbiamo partire da un dato semantico. Il dato semantico è esplicitato nella didascalia stessa delle rovine. Leggetela con attenzione: Fondazioni del Tempio di Giove capitolino. Appunto, fondazioni. Siamo abituati a dare per scontata la forza della Città Eterna nell’epoca antica, come se l’Urbe fosse già nata potente e conquistatrice. O meglio, ci pare di conoscere la cosiddetta volontà di potenza della civiltà dei Cesari fin dai suoi esordi, ne abbiamo studiato la storia ma non l’abbiamo mai vista. Non ci capita, magari neanche ci pensiamo, che l’esperienza di questo momento cruciale della storia cittadina però si può fare. È lì, acquattata sotto i blocchi di tufo cappellaccio delle fondazioni del Tempio di Giove capitolino. Ci vuole parlare.

    E la prima cosa che ci dice è che i princìpi sacri su cui si basa una potenza bellica e commerciale in progress devono essere saldi, solidi come la pietra e di larghe vedute come le fondazioni di un edificio che si vuole resistente, se non eterno. La Roma del vii secolo a.C. si trovava esattamente in questa condizione, soprattutto alla fine della reggenza di Anco Marzio, che aveva lasciato una città di pastori e soldati in via di trasformazione, più aperta verso l’esterno, tentata da una vocazione mercantile che fino a quel momento era sconosciuta. Mentre i contatti con i popoli circostanti si facevano più intensi, presagio di uno sviluppo che sarà inarrestabile, fiumane di stranieri arrivavano (benvenuti) sull’onda delle conquiste e dell’accresciuta fama di Roma nel circondario. Il re, così, istituì una sorta di zona privilegiata per l’espansione urbanistica della città che s’ingrandiva. Al Foro Boario si commerciava in bestiame, lì arrivavano gli stranieri. La potenzialità metropolitana della città non era al Comizio, sede fisica delle decisioni amministrative, o alla Curia Ostilia. Era lì, dove si facevano i soldi per sostenere la monarchia. Lì da dove ai romani veniva voglia di andare a conquistare altri popoli, altre aree di commercio. La prospettiva di un’evoluzione futura è inscritta nel dna capitolino, la sua vocazione a trasformarsi in metropoli pure, le vie del sale e del traffico di bestiame, in questo momento specifico, hanno il valore di mille battaglie, un’efficacia incredibile.

    Tra l’altro, è nel momento in cui Roma diventa un centro di scambio favorito anche dalla sua posizione sul Tevere che arrivano gli Etruschi di Tarquinia, entrando dal Gianicolo. Lucumone e sua moglie Tanaquil sono fra i nuovi immigrati. Sono intraprendenti, raffinati e colti e la città li ha accolti come figli. La ripagheranno con un piano organico di sviluppo che è il primo, vero piano regolatore efficace. Con loro avviene la fondazione della Roma antica che conosciamo, che visitiamo al Foro, di cui ammiriamo i decori in collezioni come quella dei Musei Capitolini. È un modo per dire grazie dell’accoglienza ricevuta, quando Lucumone diventerà re, passando alla storia con il nome romanizzato di Tarquinio Prisco.

    Ecco, il tempio è suo, com’è sua la bonifica del Foro e a lui appartengono anche la Cloaca Massima, il Circo Massimo e tutto il futuro glorioso della capitale. Non è poco. La storia che i parallelepipedi di cappellaccio ci raccontano è la sua. E Roma, la sua Roma, nasce per la seconda volta. Il primo fondatore è Romolo, che ne traccia i confini sacri. Il secondo è Tarquinio Prisco, che la civilizza, stabilisce i suoi luoghi simbolici e la prepara per un lunghissimo viaggio prosperoso. Qualche esempio pratico di urbanistica applicata al disegno politico del nuovo re? È a lui che dobbiamo la tripartizione di Roma, figlia della bonifica della vasta pianura che si estende ai piedi del Campidoglio, del Palatino e della Velia (in seguito sbancata per costruire il Foro di Traiano), che Tarquinio Prisco realizzò a suon di canalizzazioni sotterranee, culminanti nella bocca della Cloaca Maxima. Nello spazio che si venne a creare, non lontano dalla Curia di Tullo Ostilio e dal Comizio delle origini, volle istituire una vasta area pubblica, dedicata ai commerci. Una piazza dedicata all’anima civile del suo popolo, l’embrione iniziale del Foro. Attio Nevio, il suo augure, fece trapiantare lì il vecchio ficus ruminalis sacro, affinché fosse chiara a tutti la continuità del sogno romuleo, rinforzato però da un’intraprendenza tutta etrusca. Al di sopra di essa, inoltre, cominciò a costruire una Regia, o meglio una rocca, da cui il suo popolo sarebbe stato controllato e ispirato. E infine, com’era giusto che fosse, adibì una parte di questo nuovo territorio alla protezione degli dèi. Il tempio di Giove fu dunque fondato sopra al Monte Tarpeo (questo il nome originario del Campidoglio), vicino al cielo e sopra agli uomini. Durante i lavori, poi, gli operai rinvennero una testa perfettamente conservata. Un caput. E l’augure Attio vaticinò che quello era un segno propizio, indicava il destino di capo che gli dèi avevano riservato a Roma. Da quel momento in poi, il vecchio Monte Tarpeo, venne ribattezzato Capitolium. I tre talenti di Roma – la sua natura mercantile, quella conquistatrice e la consapevolezza di agire sempre con il favore degli dèi più potenti – avevano, insomma, trovato casa. Con un solo colpo d’occhio, da quel momento in poi, si poté abbracciare simbolicamente tutto il passato, il presente e il futuro di un centro che aspirava a molto di più che essere la città più forte della lega italica.

    Tuttavia, la prima tappa del lunghissimo viaggio a cui aspirava Lucumone fu proprio dietro casa, a Monte Albano, dove la lega si riuniva abitualmente con la benedizione di Giove, a cui i popoli latini avevano dedicato un santuario dove si riunivano quando dovevano discutere come un’unica etnia, che aveva basi comuni e la stessa divinità suprema, l’ente protettore per eccellenza. Il santuario dunque era molto di più che un luogo di culto, così come poi fu il Tempio di Giove capitolino a Roma. E fu per questo motivo che Tarquinio Prisco intese l’espansione dell’Urbe anche in questa direzione, appropriandosi del Giove laziale e trasformandolo in un Giove romano (l’allusione al calcio contemporaneo non è voluta, si è evocata da sé). Consapevole che il controllo sul dio supremo, avrebbe significato un controllo anche sui popoli che lo adoravano.

    La romanizzazione della divinità per altro non fu un’idea di Tarquinio Prisco, ma piuttosto il completamento di un percorso politico e religioso già intrapreso da Anco Marzio e portato a termine nelle pietre del Tempio di Giove che, se diventa Capitolino non è soltanto perché i romani percepiscono l’esclusività della sua protezione, ma soprattutto perché così è possibile appropriarsi anche dei territori su cui la benedizione del dio si è finora poggiata. Sembra un concetto complesso, ma non lo è. E soprattutto è un passaggio fondamentale. Per tutta la storia antica di Roma, il potere militare e politico sul mondo è stato favorito anche e specialmente con la costruzione di templi dedicati agli dèi dei popoli conquistati. Quei templi erano il risultato tangibile delle evocatio, cioè della richiesta rituale alle divinità dei nemici di spostare la loro protezione su Roma. Roma dal canto suo s’impegnava a erigere un luogo di culto a quella divinità, una volta terminata la guerra. Farà anche sorridere, ma provate a guardare su una mappa le fasi dell’espansione dell’Urbe in Europa. L’evocatio funzionava a puntino.

    Ebbene, tutto ebbe inizio qui. L’istituto liturgico ancora non era stato ufficializzato, ma quella del tempio di Giove è la conseguenza della prima "proto-evocatio della storia di Roma. Il che, in altre parole, non è che l’inizio dell’Urbe come potenza militare e politica e la monumentalizzazione della sua sacra vocazione metropolitana. Da quel momento in poi, il tempio – terminato da Tarquinio il Superbo e inaugurato però soltanto all’inizio della Repubblica – divenne un modello e il simbolo della soprannaturale potenza di Roma. Prima però, la struttura dedicata a questo dio supremo si mangiò tutti gli altri templi più antichi e più piccoli di cui occupò anche lo spazio. E pure questo è un inizio fatale: la città si condannò" a eleggere il cambiamento e l’adattamento come mezzi per ottenere la sua eternità. Gli strati della storia di Roma, che si leggono come cicatrici sui suoi muri, sui capitelli consumati e sui palazzi più antichi e preziosi, cominciano quindi sempre qui, al cospetto della prima triade, composta da Giove, Marte e Romolo, che lentamente mutò di segno e cultura, diventando quella storica, di matrice greca. Definitiva. Giove, Giunone, Minerva, i protagonisti delle tre celle sacre del Campidoglio, i simboli divini della forza della città, replicati in ogni altro Capitolium di provincia. Adorati e temuti.

    Infine sopra al tempio – che al termine dei lavori misurava circa 53 metri per 63, era rialzato su un podio, a cui si accedeva da una scalinata, e ornato con colonne colossali – una gigantesca quadriga di terracotta, con cui si rappresentava la manifestazione antropomorfa di Giove, completava la struttura, grazie al contributo del grande scultore Vulca di Veio, autore di innumerevoli templi in territorio etrusco e protagonista artistico di questi decenni primigeni. La quadriga – per inciso – fu sostituita soltanto nel iii secolo con una sua versione in bronzo, commissionata dai pretori in carica quell’anno, il 269 a.C. Ricordate bene i loro nomi, perché sono importanti: i fratelli Ogulnii furono anche i responsabili della fusione della prima coppia dei gemelli per la lupa di bronzo poi sistemata nel Lupercale. Oppure ne fecero realizzare una copia, comunque lavorarono alla lupa capitolina. L’altro simbolo originario.

    Dunque c’è lo spirito più antico e prezioso di Roma nei blocchi squadrati delle fondazioni del tempio. È l’incipit di un discorso che dura da quasi tremila anni e non accenna a voler terminare. A tratti, la ruvidezza dell’opera quadrata ci ricorda le origini rustiche, quasi forastiche, del popolo romano e la conversazione prende il tono aspro di un’anima che si è formata anche a partire dal cappellaccio scelto dagli architetti di Tarquinio Prisco. E un po’ gli assomiglia. Come del resto il destino della città sembra essere stato inscritto nelle pietre del suo tempio più importante, il padre della civiltà romana. È severo, imponente ed eterno. Ci parla di speranze, stranieri accolti a braccia aperte, di culture e di rimescolamenti. Ci parla di un potere a volte brutale, ma pure inclusivo. I battiti del grande cuore di Roma qui si sentono più distintamente. Roma vive nei suoi ruderi. Che sono vivi a loro volta. Con nostra estrema soddisfazione.

    3. La Porticus Aemilia. Roma e il mare

    Roma non ha scoperto subito di essere una potenza marittima. Sono le guerre puniche contro Annibale che progressivamente le hanno dato motivazioni e risorse tali da renderla anche una forza imbattibile sui mari. Aperto il canale africano, dunque, e confermata la sua autorità sul Mediterraneo, fra il iii e il ii secolo a.C., la città repubblicana si fece ricca di merci, di uomini, di culture e di dèi, come mai lo era stata prima. Acuì i suoi conflitti sociali e le sue contraddizioni interne, non ci sono dubbi. Ma al tempo stesso ne guadagnò in vivacità e cultura. A livello urbanistico, tutto questo dinamismo legato alle guerre africane, infatti, produsse un ingigantimento della città mai visto prima. Non stiamo parlando del milione d’abitanti che abitava la grande metropoli augustea, momento in cui la forza di Roma raggiunse il suo picco di massimo splendore. Ci riferiamo piuttosto all’energia di un centro emergente che ha appena terminato la sua più grande battaglia d’espansione (fino a ora) e – giustamente – si adegua al successo recentemente ottenuto ingrandendosi, migliorandosi, raffinandosi.

    Per motivi logistici, maturati con la nuova condizione e con la guerra da poco conclusa, Roma dunque crebbe a partire dal fiume e dall’ampia pianura che un tempo era stata Testaccio, sulla riva sinistra. Lì, tra l’altro, sulle sponde del Tevere, si erano già stabiliti i Navalia, cioè i cantieri navali militari, che si servivano dei moli del porto Tiberinus, il primo di Roma, visibile nella città di oggi più o meno davanti all’area del Campo Boario. Inoltre, grazie alle recenti vittorie militari sul mare e alle conquiste nel Mediterraneo, l’Urbe doveva dotarsi di infrastrutture adeguate, così il porto originario fu giudicato inadatto e si decise per un ampliamento radicale che spostasse tutto un po’ più a valle. Il risultato fu l’Emporium, il nuovo cuore della politica navale romana, un’enorme cittadella portuale organizzata fin nei minimi dettagli che apriva Roma al mondo e le regalava, di conseguenza, nuove ambizioni, ma pure nuovi stimoli culturali e la prospettiva di un’evoluzione dagli esiti allora incalcolabili.

    Autori di questa trasformazione epocale del mondo antico, forse una delle più forti che coinvolsero l’Urbe fra la fine tragica della monarchia e l’inizio dell’impero, sono i censori ed edili Marco Emilio Lepido e Lucio Emilio Paolo nel 193 a.C.; chiamati a sovrintendere il progetto dell’Emporium a cui, una ventina d’anni più tardi, intorno al 179, si aggiunge la mole gigantesca della Porticus Aemilia, la vasta area porticata (venticinquemila metri quadrati) che completava il complesso portuale con i suoi molti magazzini, aree di servizio e di stoccaggio.

    Sembra incredibile che alle falde del Tevere, molto prima del rione che oggi conosciamo e visitiamo per la sua anima popolare, quando il Monte dei Cocci non era che una briciola di pochi centimetri nell’entroterra del porto, l’aria potesse essere tanto marina e tanto affaccendata. È una sensazione straniante, infatti, se si pensa che dal Medioevo fino all’Ottocento, cioè fino a che non si volle creare un quartiere per gli operai subito a ridosso delle Mura, qui, sul monte che digradava dolcemente fino al Tevere, pascolavano le pecore e non c’erano altro che i campi e la Piramide sullo sfondo, prima di arrivare a Porta San Paolo (ex Porta Ostiense). Eppure la toponomastica parla chiaro, ci troviamo alle propaggini della città, quelle che quasi toccano il mare. Ostia non è lontana e, se il vento è favorevole, si fa sentire con i suoi echi salmastri fin dentro il cuore di Testaccio anche oggi che a Roma è stato tolto il fiume e l’unico legame con il mare che le rimane è un trenino sgangherato, sempre troppo affollato e due strade lunghe che s’intasano di macchine ogni fine settimana d’estate.

    Allora, invece, il mare era Roma e Roma, attraverso la divinità del suo fiume, non mise freni al suo desiderio di espansione e al territorio che intendeva reclamare anche grazie alle sue navi a più ordini di remi e a una disciplina militaresca che deve aver appreso con il latte della lupa, o con i primi scontri per il predominio sui colli. Quella città comunque è scomparsa, come pure si faticano a trovare le tracce più antiche della Repubblica, al di fuori del Foro e di qualche reperto superstite, per sorte, ai grandi processi demolitori che hanno attraversato tutti i secoli dell’Urbe. Per fortuna, la Porticus è uno di quegli esempi. Ancora più importante perché ci parla di una vocazione così difficile da percepire nella città contemporanea, di un’epoca perduta in cui Roma era ancora una giovane potenza vittoriosa e di quella magnifica compresenza di epoche, che nell’Urbe è il tratto distintivo più bello, insieme alla luce.

    Che la Porticus Aemilia fosse gigantesca l’abbiamo già detto, ma non abbiamo ancora rivelato le effettive misure di un caso unico, un’assoluta novità architettonica della sua epoca in cui ancora non erano stati sperimentati edifici tanto inusitati. Un fronte di quasi mezzo chilometro, affacciato sul fiume (dal lato di via Vespucci), da cui partivano cinquanta navate coperte da volte a botte, a circondare la struttura centrale adibita a magazzini, i famosi Horrea che poi, mentre Roma si ingigantiva e diventava la prima potenza mondiale, si moltiplicarono a dismisura e si installarono pure fra la Porticus e il molo. Ma questo avvenne molti secoli più tardi, soprattutto in epoca traianea, quando cioè fu progettato un altro restauro per adeguare la struttura al servizio che era chiamata a fornire.

    Conosciamo queste informazioni dalle fonti letterarie, ma non mancano anche altre versioni, radicalmente diverse. Un’ipotesi, per esempio, si rifà a ciò che rimane rappresentato della zona nella Forma Urbis Severiana, cioè la mappa marmorea di Roma del iii secolo d.C. Sulla pietra della Forma Urbis, però, il frammento relativo all’Emporium riporta soltanto il rimasuglio di una parola che finisce con le lettere -lia. E non è detto che sia per forza la fine del nome Porticus Aemilia, perché invece potrebbe trattarsi pure degli Horrea Cornelia. Oppure, addirittura, dei Navalia stessi. Al di là di che cosa siano davvero le rovine che oggi compaiono fra i fortunatissimi cortili tardo-ottocenteschi del rione, dal 2011, una campagna archeologica gli sta restituendo una certa dignità, per quanto consunta. Fino a qualche anno fa, infatti, dietro la chiesa di Santa Maria Liberatrice, su via Rubattino e a via Florio, il poco che rimane della gloriosa e trafficatissima Porticus Aemilia sbucava timidamente fra le palazzine d’epoca, che ormai le avevano rubato la scena addossandole giardini, balconi, finestre e molti altri manufatti, anche abusivi, fioriti in meno di un paio di secoli di antropizzazione testaccina. Subito alle spalle della piazza omonima dedicata alla chiesa, inoltre, i pilastri di opus incertum poggiavano fra i rifiuti, recintati alla meno peggio e ignorati da quasi tutti. Tranne da chi aveva compreso l’immenso privilegio di avere un manufatto dell’Urbe repubblicana nel proprio giardino di casa.

    Lasciare il portico più importante di una Roma che non esiste più, di cui non possiamo che provare un’esperienza minima, in questo stato di abbandono drammatico sarebbe stato un crimine. Da maggio 2015, per fortuna, l’area finalmente denominata archeologica della Porticus Aemilia è diventata parte dell’offerta culturale e turistica di Testaccio, entrando di diritto in quello splendido progetto di museo diffuso che vuole raccontare le strade del rione attraverso la vastissima storia di cui è stato protagonista. Grazie anche al Monte, alla Porticus e all’Emporium e a quel filo che li lega stretti e li proietta verso il Mar Tirreno. Oggi, due dei tre interlocutori di questa conversazione millenaria sono presenti sul posto. Manca l’antico porto, così come manca il fiume a una città che sulle sue rive ha costruito la propria gloria. Ma sono tutto sommato inciampi dell’urbanistica e si verificano quando non si capisce che ogni edificio, in fondo, è come un piccolo scrigno in cui si annida l’anima di un luogo. A Roma almeno è così. Per questo è facile emozionarsi davanti all’arco monco di un portico di cui si fa così fatica a intuirne le misure. Nel suo muro di calcestruzzo – che, per inciso, è uno dei primi casi in città – è racchiuso tutto ciò di cui abbiamo bisogno per calarci nella storia del ii secolo a.C. E se a quel punto quasi ci sembrerà di sentire un odore salmastro, non preoccupiamoci. È la natura marina di Testaccio che si è impigliata sull’opus del portico. Ostia non è lontana. E da Ostia, il mondo.

    La Roma di Cesare

    Nella mutazione è racchiuso il segreto della sopravvivenza di Roma, la sua capacità di adattarsi alla situazione presente e a esprimere lo spirito del tempo in rappresentazioni artistiche meravigliose. Questo suo stato da eterna signora della storia è la spirale virtuosa entro cui si sono avviticchiati i suoi millenni: a ogni trasformazione la città diventava più importante e ciò la obbligava a produrre nuove architetture, nuova arte, mentre il gusto le si raffinava conquistando terre lontane e attraendo sempre più persone in un cerchio che non si chiude mai e va avanti, culturalmente parlando, da ormai quasi tremila anni. In questo senso, l’occhiata che il Foro e il Campidoglio si lanciano da svariati secoli è emblematica. Non fate caso all’attuale collocazione dell’ingresso al colle capitolino, spostata da Michelangelo nel Cinquecento, e provate a collocarne la fronte più o meno sul Tabularium; oppure, più semplicemente, affacciatevi al belvedere, sul retro di Palazzo Senatorio, per avere un’idea dello sguardo fra i due luoghi simbolo della capitale. Ebbene, non c’è stato cambiamento cittadino dell’epoca antica che non sia stato registrato qui, nella valle che gli etruschi avevano bonificato e cominciato a costruire già nel vii secolo a.C., all’inizio della vita dell’Urbe. Dal Sacro Pomerio, lungo la via, nei templi e nelle basiliche che popolavano il primissimo Foro repubblicano, simbolo e marchio di una romanità ancora agli esordi, si stabiliva il senso profondo di una civiltà che era anche un’idea, un valore, una divinità. Su tutto, inoltre, si poggiava l’occhio del dio supremo, Giove, che dal suo tempio sulla sommità del colle dominava una città e i suoi traffici, le sue leggi, le sue scelte. Dandogli, in fondo, giustezza, autorevolezza.

    Questo equilibrio fra trasformazioni e adattamento, anche detto resilienza, per esempio, fu messo a durissima prova sul finire dell’epoca repubblicana, quando la crisi economica cominciò a imperversare su tutti i territori italici caduti sotto il governo dell’Urbe e masse di diseredati iniziarono a entrare in città, attirati dalle occasioni, sospinti dalla speranza. Da quel magma culturale, insoddisfatto, frustrato e non aristocratico e da una classe media oppressa da una nobiltà sempre più incongrua con la dinamica società romana si scatenò la guerra civile fra Mario e Silla, ma dallo stesso trambusto emerse anche il simbolo per eccellenza di un momento storico e di un’idea generale: Gaio Giulio Cesare.

    Roma, quasi come se riconoscesse una manifestazione umana di se stessa, gli si concesse immediatamente. Fu un matrimonio proficuo e indimenticabile, che però si chiuse in tragedia, alle Idi di Marzo del 44 a.C. Ma della città che stava cambiando definitivamente, diventando la metropoli che era stata chiamata a essere fin dal suo primo giorno, Cesare fu l’interprete principale, l’iniziatore. E l’urbanistica della sua epoca non è che il riflesso di questo passaggio importantissimo. Qualche esempio? La Roma di Cesare è disposta ad accogliere e si dota di un sistema di insulae, cioè di condomini a più piani, che siano in grado di ospitare famiglie e botteghe. Nel Foro, l’antica basilica Emilia viene preparata a sostenere un peso maggiore di documenti, di cause da discutere, di affari da portare a termine e, a questo scopo, è ingrandita, restaurata, stravolta. L’antico Foro romano si prepara ad arricchirsi con il Foro di Cesare e su questa sua nuova realtà, in cui tutta Roma si specchia, trionfa colui che rivoluzionò il corso della storia dell’Urbe, si dichiara politicamente e mostra le sue intenzioni anche attraverso nuovi portici, nuovi templi, giardini, case, strade e tutto ciò che riesca a legare il suo nome a quanto di più solido possa esserci in quel momento, il travertino. Da questo momento poi, ogni nuovo sovrano vorrà apporre il suo marchio sulla città, eternizzandosi. La tradizione riuscirà ad attraversare i secoli e gli stravolgimenti culturali per pervadere senza problemi anche la Roma cristiana e le politiche urbanistiche dei papi, che agirono esattamente come Gaio Giulio Cesare aveva insegnato loro nel i secolo e con le sue stesse motivazioni.

    Non sappiamo quanto consapevole sia stato Sisto iv di questo filo rosso che attraversa la storia di Roma, quando nel 1471 donò un’immensa collezione d’arte al colle del Senato e inaugurò il primo museo pubblico d’Europa, i Musei Capitolini. Anche la Roma del primo papa della Rovere aveva urgente bisogno di rispondere all’esigenza di trasformazione che le chiedeva la sua epoca. Il papa la ascoltò e le permise di cambiare, rinnovandola, conservandola e mostrandole tracce del suo passato imponente. Così facendo consegnò il suo nome all’eternità, si fece artefice della continuazione del destino cittadino. E chiuse il cerchio che Giulio Cesare aveva tracciato per primo. È il motivo per cui oggi, passeggiando fra le opere di una delle raccolte d’arte antica più prestigiosa al mondo e poi ai Fori, si può aggiungere una voluta alla spirale storica che avvolge l’Urbe dai suoi inizi. È più di una visita turistica quello che esigono questi luoghi, infatti. Ciò che ci chiedono è un contributo alla costruzione di un’eternità che con Cesare si è solidificata, ha preso una forma stabile e, con i papi dell’epoca moderna, ha aggiunto strati ulteriori, spessori inaspettati. Questa Roma è un monumento alla mutazione, alla crescita, all’evoluzione, anche se è tutta rovine. Contiene un messaggio sentimentale fortissimo e lo esprime con la forza della sua bellezza. Per incontrarla basta sapere che ci si sta confrontando con un simbolo, un’icona e che l’incontro avverrà fra i ruderi dei Fori imperiali e fra le statue dei Musei Capitolini.

    4. Il Tempio di Venus Genetrix. La madre del dictator

    Ci racconta Svetonio che nel 46 a.C. Cesare convocò il Senato per l’inauguratio del nuovissimo tempio dedicato a Venus Genetrix in una porzione del Foro che da quasi dieci anni ormai era oggetto di un ampliamento significativo. Nella cronaca della giornata, aggiunge Svetonio, non mancarono tensioni, come quando Cesare accolse i senatori eccezionalmente accorsi sul posto rimanendo seduto sul podio del suo tempio ad attendere i rappresentanti delle istituzioni repubblicane più sacre. Il gesto non passò inosservato e, nonostante l’uomo avesse già abituato l’opinione pubblica a veri e propri atti blasfemi contro le leggi romane (come passare il Rubicone in armi), risultò evidente la provocazione. Il dictator si comportava come un re. Il dictator mostrava segni evidenti di tirannia. Peggio, Cesare osava paragonarsi a una divinità. E a Roma, a quei tempi, la parola tirannia continuava a evocare il giusto omicidio di Tarquinio il Superbo e l’eroismo di Bruto. Per non parlare della divinizzazione di una personalità politica in vita, che è un concetto ancora offensivo nell’Urbe repubblicana.

    Avendo alle spalle la forza che gli proveniva dalla sua divina progenitrice, del resto, Gaio Giulio Cesare doveva sentirsi sicuro, oseremmo dire benedetto da un tocco soprannaturale, e quindi, anche giustificato a compiere gesti di rottura con la tradizione custode delle più importanti istituzioni cittadine. E infatti il tempio era nato anche per questo motivo. Rappresentava cioè un argomento inoppugnabile per rivendicare l’origine divina della sua politica (gesti di rottura compresi) e della sua gens. Anzi, gli dava un’urgenza e un’importanza determinanti pure nella celebrazione dei successi militari fino ad allora ottenuti. Il luogo sacro che quella mattina erano chiamati a inaugurare, d’altro canto, era di per sé un ex voto offerto per celebrare la vittoria delle legioni cesariane su quelle di Pompeo nella storica battaglia di Farsalo del 48 a.C.

    Tutto, insomma, combaciava alla perfezione. Tempi, discendenze, risultati avevano creato la trama e l’ordito della veste da capo che Cesare sentiva di dover indossare per realizzare il suo destino. Ma il suo destino correva sovrapposto a quello della città. E Venere Genitrice, quindi, forniva l’appoggio necessario e la spinta propulsiva a questa considerazione, in quanto antenata di Ascanio Iulo, figlio d’Enea e progenitore della gens del dictator. In altre parole, quella mattina del 46 a.C., Cesare – rimanendo seduto – comunicava al Senato la sua sostanziale superiorità sulle istituzioni romane. O meglio, avvisava i senatori che lui solo poteva incarnarle e manifestava la sua definitiva volontà di proporsi come il nuovo perno su cui si sarebbe evoluta Roma. Per Cesare – che non è mai stato un eversivo – non era un atto di superbia né di tirannia, visto che dio – o meglio, la dea – lo voleva, l’avrebbe protetto, lo benediceva. La decisione era, per usare un termine appropriato al tempo e al luogo, fatale. Ma c’è di più. Perché restando seduto al centro del podio, Cesare affermò anche altro. Cioè si trasformò in una sorta di dio vivente, in una congiunzione di significati religiosi e politici che dopo sarà la norma per gli imperatori, ma ora è una mossa azzardatissima, ai limiti della blasfemia. Ebbene, dai suoi detrattori quel tempio fu considerato una manifestazione tangibile di questo desiderio. Per un politico romano come Giulio Cesare, invece, rappresentava il completamento di un’opera estremamente simbolica: il suo Foro, teatro nel teatro più importante della civiltà romana. Ora parte del cammino cittadino gli apparteneva e portava il suo nome. La memoria era salda come la pietra con cui venivano edificati edifici in cui i posteri avrebbero letto l’imponenza dell’azione cesariana sull’Urbe.

    Ecco, oggi, quando calpestiamo i lastroni levigati del Clivus Argentarius che ci conduce al Foro di Cesare dovremmo tenere a mente quella mattina del 46 a.C.: l’uomo seduto sul podio, i senatori nervosi e l’aria tesa come una corda di violino. Tre colonne con i capitelli corinzi si stagliano sui ruderi, qualche metro prima di arrivare alla chiesa dedicata ai santi Luca e Martina. Un fregio a tema naturalistico le tiene insieme a memoria di origini arcaiche e divine e sogni di gloria che – come sappiamo – si conclusero tragicamente due anni dopo quel giorno in cui Cesare non si alzò davanti ai senatori. Potrebbe sembrare poca cosa come documento di un’epoca tanto lontana quanto fondante della storia romana, ma è sufficiente a evocare la sensazione di percepire un destino che si compie sotto i nostri occhi, fra le volute di foglie d’acanto dei capitelli e i girali di fiori del fregio. Quelle tre colonne isolate e dignitose portano ancora il marchio di un disegno politico. Pensatele come un fulcro, l’asse di una ruota, e immediatamente diventeranno più che ruderi. Si trasformeranno in simboli, custodi di una mattina che fece la storia.

    Da quelle tre colonne, poi, provate a ricreare l’edificio originario che chiudeva il Foro nel suo lato occidentale appoggiandosi alla Velia, la sella che un tempo univa il Quirinale al Campidoglio, poi sbancata quando Traiano costruì il suo di Foro, cioè i Mercati che sono dall’altro lato di via dei Fori imperiali. È difficile tentare una ricostruzione mentale, comunque, il paesaggio da allora si è molto confuso, ma provate a immaginare lo stesso un’alta costruzione contornata da otto colonne, a cui si accedeva da due scalinate laterali che conducevano alla sala principale in cui era ospitata la statua della dea realizzata da Arcesilao, insieme ad altre opere, acquistate dallo stesso Cesare e poi collocate all’interno del tempio e per tutto il Foro. Ecco, tutto il complesso – da un punto di vista estetico, religioso e dinastico – si reggeva sul tempio che coronava il lato corto di questo nuovo spazio pubblico fatto costruire da Cesare. E da lui pagato (a dircelo, stavolta, è Cicerone) 60 milioni di sesterzi, che andarono soprattutto a risarcire i proprietari delle case private che occupavano l’area. Al termine dei lavori, però, la somma impiegata toccò i cento milioni, circa trecento milioni di euro, se dovessimo spenderli oggi.

    In questa sorta di regno ideale (utile e celebrativo al tempo stesso), il dictator si collocava come unico interprete delle sorti di Roma e si permetteva il lusso di convocare i senatori per ammirarlo. Da questi, infine, si faceva trovare assiso in trono. Re del suo spazio. Discendente della dea. Frutto del suo amore immenso e della sua potenza. Non c’era nulla che si poteva fare. Gli argomenti offerti erano talmente tanto drastici da non prevedere soluzioni di compromesso, negoziati politici, accordi. I pochi metri in cui si ammassano le pietre del Foro di Cesare – ne vediamo giusto un terzo, il resto è ancora sotto terra – dovrebbero trasmetterci questa sensazione: la vibrazione minima di una tragedia annunciata. Nel gesto quasi sacrilego di mancare di rispetto al Senato, facendosi forza sulla dea che diede origine alla gens Giulia, Cesare determinò la sua condanna e la sua fine, in fondo. Rese inevitabile l’attentato. Suo malgrado si trasformò in tiranno. Ma l’ascesa della civiltà romana si basa interamente su quel gesto e sulle sue conseguenze.

    Fu Ottaviano Augusto a terminare fisicamente il Foro di suo zio e a completarne il disegno politico, in un atto che, va da sé, ci parla di continuità e della realizzazione di un destino segnato dall’intervento divino. E, per inciso, ci conferma che la visione cesariana, almeno in termini di Fato, era corretta. Era questo il messaggio della gens Iulia nel momento esatto della nascita del suo potere immenso. Questo è ciò che rappresentano, collateralmente, quelle tre colonne solitarie che ci parlano scavalcando la loro stessa indefinitezza, il loro essere ruderi muti. Chi non è stato fra i fortunati spettatori dell’iniziativa curata da Piero Angela e Paco Lanciano in cui è stato possibile, grazie a splendide ricostruzioni di luce, passeggiare fra queste strutture in un Viaggio nei Fori (un grandioso successo del 2015), potrà appigliarsi soltanto a una sensazione volatile ma potente.

    Le tre colonne che si stagliano davanti ai vostri occhi ancora si aggrappano alla memoria di un uomo che rimase seduto davanti ai senatori e a essi si oppose, rivendicando la giustezza delle sue azioni e la congruità della sua scelta e di tutto se stesso, senza timore di scomodare gli dèi di Roma. Per evocare tutto ciò bastano loro, tenaci come i pini che le circondano. Amorevoli e regali come la dea che ancora celebrano.

    5. La basilica Iulia al Foro romano. Roma è di tutti

    Spianata, pianura, distesa di rovine. Il Foro oggi è una piatta scogliera di ruderi, dove ogni tanto l’epifania di una colonna, di un podio, lo spettro di un’arcata di mattoni ci ricordano che tutto ciò che vediamo dovrebbe essere alzato, al fine di ricostruire mentalmente un paesaggio di piazze chiuse da porticati, decorate da statue a non finire, animate da un viavai continuo di persone affaccendatissime nel luogo pubblico per eccellenza della civiltà romana. Infatti, al contrario delle agorà greche, e soprattutto quando al Foro romano si aggiunsero quelli imperiali, questa qualità tutt’altro che pianeggiante si declinava in file di colonne di ogni tipo, scalini, lastre di marmo e architravi imponenti. Dal vii secolo a.C., la vita pubblica di Roma, la sua amministrazione, gran parte dei suoi commerci, dei suoi scambi, delle transazioni finanziarie e delle cause legali si celebravano in questa cittadella governativa che è il cuore dell’Urbe fin dalla sua nascita. A una vasta area centrale occupata dalle basiliche più antiche, si andarono via via aggiungendo gli spazi dedicati e costruiti da vari imperatori che, appunto, cominciarono a delineare la fisionomia dell’area dei Fori come un agglomerato di piazza chiuse, a volte circondate da alti muri. Piccoli regni simbolici per la memoria del princeps e poi degli imperator, che così rimaneva eterna.

    Ciò che un tempo era svettante, in sostanza, oggi è un panorama sdraiato, punteggiato dal bianco dei marmi superstiti e sostenuto dai fusti dei pini, in cui eserciti di turisti rischiano insolazioni alle prese con un’azione di decodificazione che spesso, alla fine, lascia esausti. E infatti ai Fori è sempre meglio andare dopo essersi concessi del tempo a prepararsi, tentando di ricollocare i monumenti integri nel loro tempo e sul loro territorio. Il lavoro preparatorio, però, non si può fare soltanto sul posto, dove invece saremmo sopraffatti dalla bellezza. È possibile, invece, passare prima al Museo ospitato nei Mercati di Traiano, oppure ci si può arrangiare, avendo a disposizione una mappa o una guida dettagliate per studiare un po’ il paesaggio. Ma comunque decidiate di interpretare e tradurre lo spettacolo di ruderi che avete davanti, sappiate che in generale gli edifici del Foro si muovono secondo precisissime esigenze funzionali e segnano con la loro presenza fasi ben definite dello sviluppo romano. Qualsiasi cosa vedrete dunque, anche la roccia più incomprensibile che sembra abbandonata lì per caso, ha un senso e si fa documento di qualche cambiamento cittadino, di qualche evento, in qualche modo ne custodisce l’atmosfera e ce la restituisce in forma di minuscole emozioni da decifrare in uno stato di calma. Anche per questo è sempre bene dedicarsi un po’ di tempo per una visione d’insieme.

    Fra gli edifici che in qualche modo siamo obbligati a riconoscere, affinché la visita non sia soltanto un viaggio onirico nel concetto di consunzione, per esempio, ci sono senza ombra di dubbio le basiliche, la cui etimologia è, oltre che segno distintivo della civiltà romana, anche il trait d’union con la città successiva, quella cristiana, che utilizzò i tratti distintivi delle basiliche pagane e civili e li adattò alle sue esigenze religiose. Da qui dovrebbe partire ogni viaggio non solo all’interno del Foro ma in tutta Roma, dove una parola di origine greca si è incaricata di tenere insieme il volto cittadino nell’arco di quasi tre millenni. Ecco, per esempio, che se facciamo andare gli occhi dal Campidoglio verso il Colosseo, sulla destra, il primo gruppo di rovine che incrociamo è una piattaforma lastricata di marmo su cui sopravvivono dei pilastrini. Poco più avanti, una colonna svettante – la colonna dell’imperatore Foca collocata lì nel vii secolo d.C. – può aiutare a orientarsi.

    Il podio lastricato è ciò che rimane della basilica Iulia, marchio architettonico della Roma di Cesare e simbolo del rapporto fra il dictator e la città. Al lato, non distante dalla zona centrale del Foro romano, un altro scheletro di marmo allude a un ulteriore edificio basilicale, la basilica Aemilia, ancora più antica, con cui la Iulia è in rapporto e in comunicazione. Bene, ora che la visione originaria può sovrapporsi alla distesa di rovine, è possibile provare a immergersi nel tempo e nel clima che questi due luoghi civili custodiscono. Cento metri di lunghezza per quasi cinquanta di larghezza, un’aula centrale a tre piani, circondata da un vasto porticato sorretto da coppie di colonne scanalate: sono le dimensioni, a partire dal 54 a.C., con cui la società romana si dota di un’altra sede per altri tribunali. È una scelta indicativa, ci dice quanto sia cresciuta Roma in questo periodo e quali siano le priorità di Giulio Cesare in merito all’urbanistica. Per altro, la data è identica a quella della costruzione del suo Foro personale – primo vero esempio di foro all’imperiale – e al restauro della basilica Aemilia, che però diventa ufficialmente insufficiente per contenere la mole di carte, questioni e utenti delle varie realtà ospitate negli edifici basilicali del Foro.

    Ci vollero venticinque anni per terminare la nuova struttura costruita sulle fondazioni di una basilica ancora precedente, la Sempronia, che a sua volta, era stata edificata da Tiberio Gracco nel 170 a.C. abbattendo la casa di Scipione l’Africano, tra l’altro. E Cesare, ovviamente, non ebbe il piacere di vederla terminata. L’onore e l’onere toccò invece al nipote Ottaviano Augusto che s’incaricò di completare la visione urbanistica e politica di suo zio, legando per sempre questa parte determinante dell’amministrazione romana

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