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Il romanzo del grande Milan
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Il romanzo del grande Milan

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Dal 1899 a oggi, la storia del mito rossonero

Il diavolo veste in rossonero

La storia di un grande club calcistico può diventare una trama avvincente, un racconto che dura più di un secolo, l’epopea di grandi campioni ed eroi del rettangolo verde? Può, in poche parole, diventare un romanzo? È questa la sfida che si pone Giuseppe Di Cera – che alla squadra rossonera ha già dedicato due volumi, 1001 storie e curiosità sul grande Milan che dovresti conoscere e I campioni che hanno fatto grande il Milan – ripercorrendo tutte le vicissitudini del club meneghino, dalla sua fondazione avvenuta il 16 dicembre 1899 sino ai giorni nostri. Calciatori, allenatori, dirigenti, presidenti che hanno fatto parte del club (o che con esso hanno avuto rapporti di vario genere) prenderanno così vita per narrare gli indimenticabili successi (e anche qualche sconfitta) ottenuti sul campo in tanti anni. Sfogliando le pagine del libro, lettori e tifosi del Diavolo potranno rivedersi attraverso la narrazione dell’epopea della squadra del cuore, a sua volta incastonata più in generale nel contesto della storia d’Italia e del mondo sportivo dell’epoca.
Giuseppe Di Cera
nato a Taranto nel 1975, laureato in Scienze Politiche, per dieci anni ha collaborato con «Il Corriere del Giorno» e ha lavorato con diverse testate sportive. Con la Newton Compton ha pubblicato tre volumi dedicati alla squadra rossonera: 1001 storie e curiosità sul grande Milan che dovresti conoscere, I campioni che hanno fatto grande il Milan e Il romanzo del grande Milan.
LanguageItaliano
Release dateNov 16, 2015
ISBN9788854187931
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    Il romanzo del grande Milan - Giuseppe Di Cera

    369

    Prima edizione ebook: novembre 2015

    © 2014 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-8793-1

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Librofficina

    Giuseppe Di Cera

    Il romanzo del grande Milan

    Dal 1899 a oggi, la storia del mito rossonero

    Ringraziamenti

    Maria Teresa Liuzzi, Giuseppe Pastorelli, Leo Spalluto e Luca Pierri.

    A Greta Marina, con l’augurio che la tua vita

    sia ancora più titolata del Milan

    Quel giorno, quando arrivai per la prima volta a Milanello, il Milan aveva vinto la stella, i campioni d’Italia erano tutti lì e io potevo guardarli da così vicino che tutto mi sembrava irreale ma talmente fantastico da non dormirci la notte… e così andò. Poi d’un tratto un uomo di grande eleganza e signorilità mi chiese: «Da dove arrivi?». «Da Fiuggi signore», risposi. Poi mi disse ancora: «Sai sono stato a Fiuggi con la Nazionale… bel posto». «Già», gli dissi. Avevo appena parlato con lui. Era Gianni Rivera, il capitano, colui che ha stregato tanti, forse tutti, con le sue meravigliose giocate, sì proprio lui… Da quel momento i colori del Milan hanno colorato il mio cuore…

    Giuseppe Incocciati

    Introduzione

    Niente di più normale che una storia vera diventi un romanzo.

    Nulla di più semplice che un romanzo racconti una storia vera.

    Il Milan sta per compiere centosedici anni, vissuti intensamente e in parallelo alla storia d’Italia e del mondo; dominati per diverso tempo, e con merito, dal rosso e dal nero. Il rispetto e la devozione per il Diavolo si fondano su vittorie e successi unici, che in più di qualche occasione si sono ammantati di leggenda.

    Solo chi ha coscienza delle proprie origini, chi conosce la propria storia può parlare con orgoglio dei sentimenti e delle emozioni che solo il pallone può far emergere in tutta la loro dolce violenza. Nello sport si può vincere e si può perdere, ma l’amore per la squadra non tramonta mai.

    Le pagine di questo libro narrano un’avventura straordinaria, vincente e romantica di uno dei club più titolati al mondo, e per un tempo vicinissimo a noi il più titolato. Attraverso i turbamenti, le apprensioni, le trepidazioni, le gioie e le lacrime di felicità di allenatori, presidenti, calciatori e amanti del Milan, si potrà abbattere il muro del tempo per sedersi accanto agli eterni eroi rossoneri. L’intento è di vivere ogni episodio, ogni fatto in quel preciso istante, con gli occhi del contemporaneo e non con quelli di chi sa già come andrà a finire.

    La grandezza di un uomo non è necessariamente legata ai grandi risultati professionali, ma alle piccole cose, all’umanità che sprigiona spontaneamente anche dietro un paravento da burbero, al desiderio di lavorare per costruire un futuro sportivo migliore o a un sorriso dopo aver segnato un gol.

    Il Milan non è solo una squadra, una società, uno stadio, ma rappresenta anche una città e tutti i suoi tifosi distribuiti lungo lo stivale e nei quattro angoli del globo.

    Il milanismo, si conceda il neologismo, identifica uno stile di vita, una maniera diversa di vivere lo sport e anche la vita, che insegna a non dare nulla per scontato, perché anche quando si vedono le stelle da vicino e si sta per toccarle, il cambio di una vocale potrebbe far rapidamente ripiombare nelle stalle. Sapendo che in qualsiasi momento si potrà compiere il viaggio contrario.

    Nel curriculum del milanista c’è tutto questo, frutto di oltre un secolo di calcio giocato, dietro cui ci sono uomini e donne con i loro caratteri, diversi l’uno dall’altro, ma fondamentali per scriverlo.

    Nelle pagine che seguiranno si è cercato di affrescare tutto questo attraverso spaccati di vita sportiva e privata nel rispetto di vicende avvenute anche all’inizio del secolo scorso. Dal fondatore Herbert Kilpin sino all’attuale dirigenza. Tutti hanno contribuito a rendere grande il Milan e attraverso le loro parole, le loro azioni o dialoghi verosimili si è cercato di trasmettere questa verità.

    Personaggi che si muovono nei luoghi della Milano rossonera, dallo stadio Meazza (perché Peppin è stato milanista per due anni) di San Siro, costruito dal Milan per il Milan e i milanisti nel lontano 1926, a Milanello sino a Casa Milan, attuale sede societaria. Un arco di tempo lunghissimo che verrà popolato da personalità dai tratti mitici che citare ora sarebbe come anticipare il finale di un film, con l’unica eccezione di Kilpin, fondatore di questa meraviglia umana. Ogni personaggio va scoperto riga dopo riga con i suoi pregi e i suoi difetti attraverso i ritmi dettati dalla narrazione, ora romanzata, ora più giornalistica.

    Il Milan è nato all’ombra della Madonnina, quando dei cugini l’ombra non c’era ancora: la prima sede fu in una fiaschetteria in via Berchet, dove proprio oggi sorge un Inter store. Cose che capitano…

    E in quella via, alle spalle del Duomo, si è generata una storia incredibile che proseguirà sino a quando un pallone continuerà a rotolare, perché Milan l’è un gran Milan!

    Prologo

    Mi trasferisco a Milano per lavoro, e lì formerò una squadra di veri diavoli che vi darà parecchio filo da torcere.

    Herbert Kilpin, Torino, 8 maggio 1898

    «Brindiamo alla nostra vittoria», disse con fiero sguardo Hermann Bauer, il secondo presidente del Genoa Cricket and Football Club.

    I liguri, che celebrarono il primo titolo italiano dalla loro fondazione in coincidenza con l’istituzione del campionato di calcio, levarono i calici al cielo orgogliosi del loro storico successo. Di fronte c’erano gli sconfitti dell’Internazionale Torino, che avevano persino giocato in casa al velodromo Umberto

    I

    , all’ombra della Mole Antonelliana inaugurata appena nove anni prima. Lo sfolgorante luccichio negli occhi dei vincitori, in particolare di capitan Edoardo Pasteur, si contrappose vividamente alla grigia polvere nella quale erano finiti gli spiriti piegati ma non domi dei piemontesi.

    Herbert Kilpin, tra i soci fondatori dell’Internazionale, ripensò lisciandosi i baffi a quanto inutile lavoro avesse fatto assieme ai suoi compagni.

    Nello sport ci sta perdere, ma per l’inglese, giunto nel Bel paese nel 1891 per insegnare il football agli italiani, il vino che tingeva di un rosso cupo il suo bicchiere risultava particolarmente difficile da digerire. Il 2-1 incassato nei tempi supplementari bruciava troppo e non riuscì a trattenersi; perciò mentre i genoani, tra sorrisi e abbracci si lasciarono andare a simpatici sfottò, rimise verbalmente la palla al centro.

    «Questa è stata la vostra ultima vittoria! Sto per trasferirmi a Milano e lì fonderò una squadra di veri diavoli, che vi batterà e vi farà ridere di meno».

    I genoani lo presero in parola e brindarono alle fortune del club milanese non ancora nato, ma dal bacio scaturito dalle coppe dei contendenti la farfalla diede il via al suo battito d’ali. Era l’onore delle armi reso all’avversario vinto sul campo, ma non nell’animo!

    Poi un altro faraonico prosit gridato ad alta voce perché tutti lo sentissero: in fondo i grifoni erano campioni d’Italia e se lo potevano permettere. 

    I. Edwards, un presidente inglese

    Saremo una squadra di diavoli. I nostri colori saranno il rosso come il fuoco e il nero come la paura che incuteremo agli avversari!

    Herbert Kilpin, 1899

    Welcome to

    AC

    Milan

    Guai a non mantenere una promessa e soprattutto a non prenderla sul serio.

    Kilpin, un ventiseienne di belle speranze, e con un gran paio di baffi che gli aggiungeva dieci anni in più, fu davvero un uomo di parola.

    Meno di un anno dopo la batosta rimediata dal Genoa era a Milano, anche per questioni di lavoro, ma la sua ossessione era il calcio, che nella classifica stilata nel profondo della suo cuore occupava il primo posto, avanti a questioni forse più importanti. Alle passioni, però, non si comanda, poiché sono libere di correre, come le idee.

    «Non posso tirarmi indietro», ripeté ossessivamente ad alta voce il britannico e non importava che davanti a lui ci fosse solo uno specchio.

    La voglia di fare calcio gli scaldò il sangue sino a cento gradi centigradi, ma una società non si poteva fondare in poche ore. Soprattutto in una città nella quale già ne operava un’altra, la Società di educazione fisica Mediolanum, che però seguiva un regolamento diverso, oscillante tra il calcio e la ginnastica. Kilpin si diede da fare per cercare di riunire attorno a uno stesso tavolo cultori italiani e inglesi della palla di cuoio. Per sua fortuna non impiegò molto tempo a trovarli, perché conosceva esattamente i loro luoghi di ritrovo: i primi avevano l’abitudine di riunirsi nella birreria Spaten-Bräu, i secondi nell’American Bar. Bisognava rintracciare, poi, un luogo dove farli incontrare. Il luogo adatto ad accogliere quei carbonari della palla di cuoio di fine secolo fu individuato in un hotel francese, il Du Nord et des Anglais, che faceva la sua bella figura nel piazzale antistante la stazione centrale.

    Trovato un numero sufficiente di soci, Kilpin diede loro appuntamento per il 16 dicembre. Gli invitati si ritrovarono ai piedi del maestoso albergo, che presentava una grande facciata con trentacinque finestre. Varcato l’ingresso in tutta fretta, anche perché faceva freddo, i soci della futura società si ritrovarono immersi in belle e ampie sale, sotto magnifici lampadari di pregevolissima fattura.

    Tra i numerosi futuri soci presenti ci furono gli italiani (milanesi doc) Pietro Pirelli, Giannino Camperio, Guido Valerio e i fratelli Francesco e Daniele Angeloni, oltre agli inglesi sir Edward Nathan Berra, sir Alfred Ormonde Edwards, Patrick Neville, Samuel Richard Davies, David Allison e naturalmente lo stesso Kilpin.

    Tutti, o quasi, furono d’accordo sul nome da dare alla nascitura società, che avrebbe dovuto richiamare non solo la città di Milano, ma anche ricordare ai posteri la sua origine inglese. E Milan accontentò la platea.

    Il suggerimento piacque molto ai presenti che, per alzata di mano, diedero il loro assenso. Tuttavia solamente Milan non bastò, e si aggiunse anche Cricket and Football Club, perché lo sport è sport e non esisteva solo il calcio. Edwards venne insignito della carica di presidente della sezione calcistica, mentre a Berra venne affidato il doppio incarico di massimo responsabile della sezione riservata agli amanti della mazza e del guantone e di vice di Edwards, i cui impegni lavorativi erano molteplici.

    Ma tra il dire e il fare corse il canale della Manica e oltre ai ruoli fu necessario decidere tanto altro: l’emblema, i colori sociali e una sede, giusto per incominciare. «Ci penso io», disse Kilpin, con quel suo italiano caratterizzato dal marcato accento di Notthingham, la sua città natale.

    «Questa è la mia proposta», aggiunse, mentre beveva un bel bicchiere di vino, una delle sue più che note debolezze.

    «Saremo una squadra di diavoli. I nostri colori saranno il rosso come il fuoco e il nero come la paura che incuteremo agli avversari».

    La frase, sparata con la stessa potenza di un mortaio, ebbe l’effetto sperato tra lo stupore generale. Un po’ forte per i presenti, specialmente per i soci di lingua italiana costretti ad appoggiare una società che a maggioranza decise di riconoscersi nel diavolo. Un simbolo carico di significato, proprio nella terra dove imperava la Chiesa. Anche in questo caso bisognò cercare un compromesso tra cattolici e protestanti: Kilpin, infatti, era anglicano, e un piccolo dispettuccio alla Chiesa cattolica non lo avrebbe reso di certo insonne.

    «Rossoneri… scommetto che il rosso l’hai scelto per il tuo Notthingham», disse Berra, britannico tutto d’un pezzo, nonostante fosse nato in Francia.

    «Be’, non posso dirti di no. Però l’ho scelto anche per i nostri amici italiani: rosso come la camicia di Garibaldi».

    Qualcuno ridacchiò.

    «Va bene il diavolo, vanno bene i colori sociali, ma dove avremo i nostri uffici?», gli domandò Valerio pensando di metterlo in difficoltà.

    Domandare è lecito, rispondere è cortesia, ma Kilpin, nonostante un aspetto un po’ burbero e un carattere non facile, replicò con gentilezza che il sancta santorum l’aveva già trovato.

    «La nostra sede sarà in una fiaschetteria». Un modo per unire l’utile al dilettevole, che scatenò un’ilare reazione.

    «È la fiaschetteria Toscana, che si trova in via Berchet al numero 1, angolo via Ugo Foscolo».

    La creatura, dunque, aveva un nome, un cognome, tanti genitori e persino una casa dove pascere in santa pace.

    «E dove giocheremo le nostre partite?», chiese Richard Davies.

    «Come siete impazienti!», rispose Kilpin. «Tranquilli, ho pensato anche a questo», aggiunse sogghignando. «Giocheremo al Trotter e per iniziare andrà bene».

    «Ci accontenteremo», disse Daniele Angeloni, evidentemente poco felice della scelta.

    Ogni particolare era stato attentamente valutato.

    Qualche ora dopo venne stilato lo statuto, nel cui incipit si poté leggere: «I sottoscritti soci, che appongono la firma per l’impegno che si assumono, dichiarano di fondare una società sportiva che prende la denominazione di Milan Cricket and Football Club, con lo scopo di diffondere il gioco del football e di praticare il cricket nella misura più ampia possibile».

    Messo il punto sul foglio, Kilpin alzò il capo e disse: «Ho da darvi le ultime quattro indicazioni. Primo, ho già dato incaricato una sartoria di cucire le nostre maglie: saranno delle belle camicie in seta con bottoncini bianchi e croce di San Giorgio sulla sinistra. Secondo, il capitano della squadra sarà David Allison».

    «Ma…», intervenne subito lo stesso Allison.

    «Niente ma…, David. Dicevo, terzo: io sarò l’allenatore della squadra e, quarto, i signor soci sono invitati a dare 25 lire per il 1900 e il debito va saldato alla prossima riunione di inizio anno. E ora possiamo dare la notizia ai giornali».

    «Sì, per forza», esclamò Pirelli.

    Berra, intanto, si avvicinò all’orecchio destro di Allison sussurrandogli: «Oggi, 13 dicembre, festeggeremo la tua nomina a capitano!».

    Allison rimase interdetto, poi aggiunse a bassa voce: «Nathan, sono felice di essere il capitano del Milan, ma sei sicuro che oggi non sia il 16?».

    «Avvisiamo il Corriere dello Sport, e La bicicletta», affermò Edwards.

    «Il presidente ha finalmente parlato», rispose Kilpin.

    «Herbert, vorrei che fosse il nostro giornale. Il nostro organo ufficiale», aggiunse il presidente guardando di sottecchi Kilpin.

    «Va bene, ma diciamolo anche alla Gazzetta dello Sport», disse Kilpin, con fare sicuro, appoggiato dalle decine di soci che stavano contribuendo alla nascita del Milan.

    Lunedì 18 dicembre la «Gazzetta» diede la notizia in questi termini:

    Finalmente! Dopo tanti tentativi infruttuosi, finalmente anche la sportiva Milano avrà una società pel giuoco del football. Per ora, sebbene non ci si possa dilungare d’avvantaggio, possiamo però di già accertare che i soci toccano la cinquantina e che le domande di ammissione sono copiosissime. Lo scopo di questa nuova società sportiva è quello nobilissimo di formare una squadra milanese per concorrere alla Coppa Italiana della prossima primavera. All’uopo, la presidenza ha già fatto pratiche e ottenuto per gli allenamenti il vasto locale del Trotter. La nuova Società avverte che chiunque desideri imparare il football non avrà che a recarsi al Trotter nei giorni stabiliti e troverà istruttori e compagni di giuoco.

    Il dado era tratto.

    I primi passi del Milan

    Il primo passo ufficiale fu l’iscrizione alla

    FIFA

    : per farlo ci vollero trenta giorni e il 15 gennaio l’affiliazione divenne cosa fatta. Poche ore dopo l’iscrizione Kilpin si ritrovò nell’American Bar di via Vittorio Emanuele

    II

    , per sorseggiare del buon whisky accanto a David Allison e Saint John, un altro dei soci del club.

    «Ora non possiamo più tornare indietro», sentenziò Kilpin, che riprese: «È importante che si proceda compatti senza titubanze. Dobbiamo puntare subito allo scudetto, ma per farlo dobbiamo allenarci tutti assieme».

    A queste parole i suoi due compagni di bevuta sorrisero immaginando chissà quali imprese. Kilpin salutò e tornò nel suo appartamento di via Giotto 9.

    Il passo successivo fu comprare i palloni per allenarsi in attesa della prima gara ufficiale, ma prepararsi non fu facile perché il Trotter era in terra battuta e non in erba. Il fastidio maggiore era dovuto all’assenza di spogliatoi e servizi igienici. Per il resto si definiva campo di gioco solo per la presenza delle linee tracciate con il gesso usato per delimitare il rettangolo di gioco. In più mancavano le reti, ma solo perché non erano state ancora inventate: la porta era composta da tre assi di legno, due posti verticalmente e uno orizzontalmente. Era tutto, diciamo, molto artigianale.

    Mano a mano che passavano i giorni, crebbe l’eccitazione per l’esordio assoluto della società fissato l’11 marzo 1900. Fu un derby amichevole: l’avversario era la Mediolanum, fondata tre anni prima! Il Milan, sostenuto dagli studenti del liceo Cattaneo, non si fece travolgere dall’emozione e sul campo amico ebbe ragione dei concittadini con un netto 2-0: i primi marcatori della storia rossonera furono Allison e lo stesso Kilpin, che corse a perdifiato urlando per la felicità.

    «La Gazzetta dello Sport», il quotidiano di riferimento dei milanesi assieme al «Corriere della Sera», ne riportò la notizia il giorno dopo con un breve articolo:

    Ieri alle 15 ha avuto luogo al Trotter la gara fra la Mediolanum e il Milan Football Cricket Club. Direttore del giuoco il signor Carlo Nardi. Giudici del campo ragionier Daniele Angeloni e professor Daniele Marchetti. Capitano della Mediolanum ragionier Luigi Bosisio; degli inglesi signor Allison. La partita ha durato 80' in due riprese con la vincita del Milan Football Cricket Club di due porte contro zero. Per la verità bisogna aggiungere che la Mediolanum si è presentata senza stabilire prima le regole; credendo di usare quelle del compianto Gabrielli (tradotte dall’inglese) che hanno valso finora nei campionati italiani. È seguita una lotta che sarà inglese fin che si vuole, ma non consona al carattere che ama bensì la forza, ma rifugge da tutto ciò che anche lontanamente ha l’aspetto di brutale.

    «Ma cosa hanno scritto, questi della Gazzetta?». In società l’articolo mandò Edwards su tutte le furie e così il sodalizio rossonero si vide costretto a rispondere al quotidiano con una missiva scritta dal suo segretario Davis.

    Cinque giorni dopo la gara, nella rubrica Giuochi Sportivi, la replica del Milan trovò opportuno spazio.

    Illustrissimo signor Direttore della Gazzetta dello Sport – Milano,

    sotto la rubrica Giuochi Sportivi ho trovato la relazione della sfida fatta il giorno 11 corrente, al Trotter del giuoco del football.

    In questa relazione vi sono delle inesattezze tali che hanno bisogno di essere rettificate. Infatti è stato scritto che: «La Mediolanum si è presentata al giuoco senza stabilire prima le regole; credendo di usare quelle del compianto Gabrielli che hanno valso sinora nei Campionati Italiani».

    Ciò non è esatto poiché, di comune accordo con la squadra Mediolanum, venne stabilito di osservare le nostre regole che sono quelle universalmente in uso e ufficialmente riconosciute e prescritte dalla Federazione Italiana del Football. E neppure è esatto che le regole del compianto Gabrielli valsero nei campionati italiani, poiché avendovi fatto parte insieme ad altri nostri soci essi insieme con me possono rilevare l’errore. Il signor professor Marchetti, se crede di convincersi e rilevare anche lui l’errore in cui è caduto, favorisca domenica 17 al Trotter quando vi sarà la Società Torinese, e si persuaderà allora della verità di quanto io affermo.

    S. Davies, Segretario del Football Club Milanese.

    La stessa energia con cui si replicò all’articolo della «Gazzetta» non fu messa in campo, per l’esordio nel campionato italiano, Prima categoria, il 15 aprile 1900 al velodromo Umberto

    I

    di Torino. Il Football Club Torinese, forte di sei anni in più di esperienza, buttò fuori il Milan dalla competizione per il titolo di campione d’Italia. A nulla valse lo schieramento ad albero di Natale scelto da Kilpin, capitano al posto del pur presente Allison: il 4-3-2-1, infatti, non servì a evitare un pesante 3-0.

    Qualcosa andava rivisto, vero, ma per lo meno si ruppe il ghiaccio. I mesi volarono tra allenamenti e speranze, sino a quando non tornò il campionato e la

    FIF

    fissò per il 21 aprile 1901 la gara unica di semifinale tra i rossoneri e la Juventus.

    «Non possiamo andare a Torino», disse Kilpin a tutto il direttivo riunito in via Berchet. Berra abbassò il capo. «Non abbiamo macchine a sufficienza».

    Allora intervenne il portiere Hoberlin Hood, che si era intrufolato alla riunione. «Fa ridere che non si possa andare nella città dove hanno da poco aperto una grande impresa automobilistica».

    «Appunto potremmo chiederle alla… Come si chiama?», disse Berra.

    Allora prese la parola un imbarazzato Kilpin. «

    FIAT

    , si chiama

    FIAT

    . Va bene ma questo non ci interessa. Va avvisata la Juventus con un telegramma. Diciamo solo che per il 21 sono improvvisamente venuti meno alcuni giocatori. Bisogna rimandare l’incontro».

    La partita venne rinviata di una settimana.

    Il 28, sul terreno di piazza d’Armi a Torino, il Milan affrontò per la prima volta la Juventus: fu un incontro difficilissimo, che i rossoneri vinsero in rimonta con la doppietta di Negretti e la firma decisiva di Kilpin per il 3-2 che valeva la finale.

    La vendetta stava per essere consumata a distanza di soli tre anni: il 5 maggio 1901, il Milan sfidò il Genoa per il titolo di campione d’Italia e la mente di Kilpin si affollò improvvisamente di tanti ricordi. Tutto sembrava contro i rossoneri: la forza degli avversari detentori del titolo, il campo di gioco, che per regolamento doveva essere lo stesso dei campioni d’Italia uscenti, e quindi anche il pubblico, quasi interamente di fede rossoblù.

    Invece i miracoli possono interessare anche le sfere ludiche. Il Milan scese in campo carico di emozioni, mentre il Genoa fu pieno, pure troppo, delle proprie sicurezze. Troppe certezze fecero male ai liguri che incassarono un severo 3-0. Sul terreno di Ponte Carrega, i locali, sostenuti da un buon tifo, vennero sopraffatti dalla rete di Kilpin e dalla doppietta di Ettore Negretti. Una squadra di diavoli ebbe ragione dei pericolosissimi grifoni, costretti a chinare il capo. La soddisfazione dei rossoneri, per aver conquistato il primo campionato di Prima categoria fu enorme, soprattutto per la convincente prestazione sottolineata dall’applauso dello sportivo pubblico genoano.

    Forse presagendo il successo, la società milanista preparò per i propri calciatori la medaglia in ricordo della fantastica giornata, che rappresentava due giocatori nell’atto di contendersi il pallone.

    «Che grande vittoria!», sentenziò ancora qualche giorno dopo Kilpin, aggiungendo: «Sapevo che avremmo vinto e che mi sarei preso ciò che il Genoa mi ha tolto tre anni fa. Peccato che i giornali non ci abbiano dato il giusto spazio».

    Così dicendo Kilpin si accese una sigaretta e sfogliò «La Stampa», che Davies e Allison gli avevano fatto gentilmente recapitare, fermandosi subito a pagina due.

    «Solo otto righe e messe persino sotto la gara di tiro a segno di Brescia, ma ve le voglio rileggere». E giù un sorso di liquore, il suo preferito, aperto appositamente per festeggiare il titolo. Il primo.

    Venti giorni dopo, il 25 maggio, il brivido della rivincita corse lungo le schiene dei ginnasti della Mediolanum, in occasione della semifinale della Medaglia del Re, un torneo creato per onorare il monarca Umberto

    I

    di Savoia e secondo per importanza solo al campionato. Il risultato fu uguale al precedente tra le due compagini, 2-0, ma dei marcatori non è rimasta traccia. La finale si giocò due giorni dopo, sempre nel medesimo stadio, contro la Juventus e fu nuovamente 2-0 con le reti di Camperio

    II

    e Allison.

    Un buon viatico per chi aveva appena iniziato, ma Kilpin aveva ancora il dente avvelenato con il Genoa, sin dai tempi dell’Internazionale Torino. La vendetta è un piatto che va servito freddo e il papà del Diavolo lo sapeva benissimo.

    Il Milan ci riprova

    Trascorso un anno dalla conquista del primo storico scudetto il Milan si ripresentò ai nastri di partenza da campione d’Italia.

    Undici mesi per prepararsi direttamente alla finale, senza affrontare altri turni, secondo il discutibile regolamento della

    FIF

    . Indubbiamente un bel vantaggio e per di più si giocava anche in casa, ma il Milan cambiò idea e chiese di essere ospitato. Motivazioni di tipo logistico e una manifestazione con il mitico Buffalo Bill a Trotter negli stessi giorni influirono in maniera determinante sulla proposta rossonera. Il Genoa, dalle cui bocche dei calciatori si scorse nitidamente l’acquolina della rivalsa, accettò volentieri.

    «Giocare a Genova. Ma, Herbert, siamo impazziti?», affermò Berra.

    «Nathan, non possiamo fare diversamente», rispose Kilpin

    «Ma siamo noi i campioni d’Italia, non possiamo giocare in un’altra città».

    «Dispiace anche a me».

    «Herbert, dobbiamo cambiare campo, non possiamo andare avanti in questa maniera: un giorno uno spettacolo equestre, un altro giorno la corsa dei cavalli, un’altra volta la pioggia. Basta!», disse ancora Berra.

    Perciò i rossoneri, il 13 aprile 1902, furono ancora di scena in Liguria, ma la magia della prima volta si dissolse corrosa dalla salsedine del mar Tirreno. Il 2-0 dei genovesi fu netto, anche se il Milan recriminò per qualche occasione di troppo sprecata sotto porta.

    Al triplice fischio del signor Savage, calciatore della Juventus e amico di Kilpin, si festeggiò come sempre la vittoria assieme agli sconfitti. Si andò al ristorante Cambio per un «banchetto in onore dei milanesi», così scrisse «La Gazzetta dello Sport» il giorno dopo.

    I meneghini tornarono a casa tristi e adirati con se stessi per aver giocato al di sotto delle proprie possibilità, ma di fronte c’era pur sempre l’allora squadra più titolata del Regno d’Italia, che aveva vinto il suo quarto scudetto in dieci anni di vita.

    Milan, nuovo stadio, nuova vita

    Alla delusione per la sconfitta si aggiunse, un anno dopo, una bega con il Comune, che invitò il Milan Cricket and Football Club a sloggiare dal Trotter.

    Gli ingegneri e gli architetti dell’epoca, infatti, pensarono di costruire la nuova stazione di Milano, attualmente in uso, proprio sul terreno di gioco milanista. Edwards, e con lui Kilpin, non si adirò più di tanto: in fondo il Trotter procurava grossi problemi alle squadre, soprattutto quando pioveva, e non erano poche le caviglie che saltavano. «Obbediamo», affermò laconicamente il presidente Edwards rivolgendosi al sindaco di Milano, Giuseppe Mussi.

    Trovare un nuovo campo divenne l’incombenza più urgente da risolvere. Dopo una rapida consultazione, l’assemblea dei soci approvò la scelta dell’Acquabella, un piccolo stadio situato in via dell’Indipendenza nelle vicinanze di un omonimo albergo. Il 22 marzo il Milan bagnò il nuovo campo con un pesante 0-2 in favore della Juventus, che si guadagnò la finale del campionato con il Genoa. Per tutti fu una grossa delusione, raddoppiata dal furto in sede della Medaglia del Re vinta un anno prima.

    I propositi di gloria del Milan furono momentaneamente messi da parte, per cui in società si accontentarono di plaudire al primo volo di uno strano apparecchio con le ali, che guidato dai fratelli Wright si alzò in volo il 17 dicembre 1903.

    Con i torinesi il conto rimase aperto anche nella stagione 1904 (data l’esiguità delle formazioni iscritte, si giocava sempre in poche settimane primaverili) quando il Milan il 20 marzo, sempre in semifinale, piegò la testa con un risultato peggiore: 3-0.

    Intanto, nel mondo, il calcio si stava organizzando: il 21 maggio a Parigi venne fondata la

    FIFA,

    (Fédération Internationale de Football Association), per coordinare il lavoro delle federazioni nazionali, ma l’Italia non vi aderì.

    Anche nel 1905 il Milan mostrò una condotta remissiva, perdendo addirittura lo scontro diretto delle eliminatorie contro l’Unione sportiva Milanese.

    L’unico lieto evento della stagione fu il matrimonio del papà del Milan, Herbert Kilpin.

    «Ragazzi, mi sposo», disse un giorno ai suoi colleghi rossoneri.

    «Allora alla fine ha vinto lei?», rispose Berra.

    «Ridi pure, Nathan. Sì, comunque la signorina Maria Capua a breve sarà la mia signora», replicò con tono solenne Kilpin, un atteggiamento che poco gli si addiceva, ma utile a difenderlo dallo scherno.

    Fu una grande festa, a cui partecipò anche il presidente, che di anno in anno, a causa dei molti impegni (era pur sempre il viceconsole di Gran Bretagna in Italia), si allontanava sempre più dal progetto Milan. Era l’8 gennaio 1905 e Herbert Kilpin continuò così il suo processo di italianizzazione.

    Il bis e il tris del Milan

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