Prima di incontrarti. Dieci piccoli respiri 0.5
By K.A. Tucker
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About this ebook
Cole Reynolds è un ragazzo che ha tutto. Finché una notte prende una singola, tragica decisione sbagliata… e perde ogni cosa
Un bicchiere di troppo e il rientro dopo una festa al college si trasforma in tragedia. Muoiono sei persone e da un momento all’altro la vita di Cole Reynolds, uno dei superstiti, cambia irreversibilmente. Non è facile per lui fare i conti con le proprie responsabilità nell’accaduto. In passato avrebbe chiesto aiuto ai suoi amici di sempre, quelli che sono cresciuti con lui e gli sono stati accanto da quando ha mosso i primi passi, ma non ci sono più. E a causa sua ora c’è una ragazza di soli sedici anni che lotta per la vita in un ospedale, un’esistenza distrutta a causa di una birra e di un mazzo di chiavi.
Tutti gli dicono che non è colpa sua, che non avrebbe potuto prevedere ciò che poi è successo, ma Cole non può fingere di non notare quegli sguardi su di sé, quei sussurri alle sue spalle. Né può ignorare il devastante senso di colpa nei confronti di quella ragazza nel suo letto d’ospedale. Vorrebbe incontrarla per chiederle scusa, ma non gli è concesso. Con il passare dei mesi, la vergogna e la solitudine prendono il sopravvento, e Cole perde interesse in tutto ciò che prima reputava importante: il college, la sua ragazza, il suo futuro. La sua vita. Finché non arriva a toccare il fondo, ed è allora che intravede una via d’uscita dal suo inferno personale: il perdono. Ma c’è solo una persona al mondo che può concederglielo…
K.A. Tucker
Vive vicino Toronto con il marito e le due figlie. I suoi romanzi, inizialmente autopubblicati, grazie al grande successo sono stati acquisiti dalla Simon & Schuster, uno dei maggiori gruppi editoriali di lingua inglese. Dieci piccoli respiri, Una piccola bugia, Quattro secondi per perderti e Cinque ragioni per odiarti sono stati pubblicati in Italia dalla Newton Compton.
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Prima di incontrarti. Dieci piccoli respiri 0.5 - K.A. Tucker
Capitolo 1
26 aprile 2008
«L’ultima e poi ce ne andiamo».
«Starai scherzando, spero». La voce profonda di Derek viaggia sopra il battito costante della musica house. Consegna una bottiglia di birra vuota a un tizio di passaggio in cambio di due piene e me ne lancia una. «Cos’è», dice guardando l’orologio, «appena mezzanotte. E per arrivare ci abbiamo messo un’ora!».
Svito il tappo e bevo una grossa sorsata, il liquido mi rinfresca come una brezza gelata in un giorno torrido. Anche se siamo ad aprile in Michigan e fuori la temperatura supera a malapena lo zero, qui dentro si soffoca dal caldo. «Te l’avevo detto che non volevo fare tardi. Domattina devo mettermi a studiare come un matto o sono nella merda». Quattro esami in tre giorni. Sono nella merda in ogni caso. Forse è per questo che stasera le birre Miller scendono giù che è una bellezza. Sono decisamente più rilassato di quando sono arrivato.
«Sarai a casa entro domattina. Ma fino ad allora…». Lancia un’occhiata al soggiorno di suo cugino – stipato di ragazzi del college e autoctoni – indugiando su due bionde che hanno tutta l’aria di frequentare ancora il liceo.
«Se non ce ne andiamo ora, sarò distrutto e lo sai». Non c’è da stupirsi che Derek mi stia rompendo le palle per restare. Non si perde mai una festa. Di solito dobbiamo trascinarlo via a forza. Ma stavolta avevo acconsentito solo a guardare la partita di hockey – dopotutto i Red Wings sono in finale – e non so come siamo arrivati a questo. Se non fosse il mio ultimo venerdì sera in Michigan, avrei detto subito di no. «Ma non hai degli esami anche tu?».
Derek fa spallucce, bevendo un’altra sorsata di birra e poi posando gli occhi sulla mora incuneata nel minuscolo spazio accanto a me sul divano. Michelle, mi pare abbia detto di chiamarsi. È dolce e carina e la sua coscia mi ha sfiorato un numero di volte sufficiente a farmi capire che le piaccio. Ma anche se sono ormai passate sei settimane dall’ultima volta che è venuta a trovarmi Madison e muoio dalla voglia di farmi una scopata, non mi va di tradire la mia ragazza. Soprattutto per una botta e via.
Ignoro il sorrisetto idiota di Derek. «Dov’è Sasha?».
Inclina la testa a sinistra. Seguo la direzione che mi indica e vedo il nostro amico impegnato in uno scontro verbale con un tipo muscoloso che indossa una maglietta blu dei Wolverines. Le labbra tese si muovono con rapidità. Sono pronto a scommettere che la loro amabile chiacchierata
riguarda la nostra partita di tre mesi fa contro l’altra squadra universitaria di football del Michigan – vinta da noi – e le cose stanno trascendendo. Di certo non aiuta che Sasha stasera, pur sapendo che ci saremmo infiltrati nel territorio dell’Università del Michigan, si sia messo la maglietta con la scritta: «Spartans al comando, Wolverines allo sprofondo».
«Fantastico», mormoro, sollevando dal divano la mia stazza da uno e novanta. La stanza ondeggia e io incespico leggermente, zigzagando tra gli spazi vuoti.
Nelle ultime quattro ore ho bevuto molto più di quanto mi fossi prefissato.
Cazzo.
Stasera tocca a me guidare.
Allora mi sa che resteremo qui ancora un bel po’. E probabilmente mi sono fottuto gli esami.
Mi avvicino a Sasha e gli metto la mano sulla spalla, piuttosto saldamente nel caso debba tirarlo indietro. Sasha non si può certo definire un nano: è più basso di me di appena un paio di centimetri e grazie a un intenso programma di allenamento fuori stagione, ha la mia stessa corporatura. È in grado di cavarsela da solo. E chi può saperlo meglio di me? È da quando portavamo il pannolino che ne combiniamo insieme di tutti i colori.
«Tutto bene qui?». Osservo il tizio che gli sta di fronte, un ispanico monociglio con la pelle olivastra e l’espressione minacciosa. Non ricordo di averlo visto in campo, ma indossiamo tutti i caschi e di solito non perdo tempo a guardare altro che il numero da eliminare.
Sasha si passa la mano tra gli scarmigliati capelli castani – il cui colore è quasi identico al mio – ma non mi risponde, con gli occhi fissi sull’altro ragazzo. L’ho già visto così. Finisce quasi sempre in una scazzottata.
«Sash? La prossima settimana cominciano gli esami», gli rammento. Saranno difficili anche senza occhi neri e labbra spaccate. Oltretutto, con la spalla in via di guarigione, non posso farmi coinvolgere in una rissa.
«Sì», biascica, e poi sorride. «Facciamo i bravi. Solo uno scambio di suggerimenti utili. Le regole basilari, diciamo, tipo come lanciare un cazzo di pallone al tuo ricevitore».
Mi frappongo tra i due a mo’ di barriera, mentre l’altro fa per avvicinarsi.
Grazie al cielo, proprio in quel momento arriva dalla cucina Rich, il cugino di Derek, notevolmente grosso anche lui. «Andatevene fuori, non voglio farmi distruggere casa».
Sasha alza le mani con i palmi in fuori, in segno di resa. «Non c’è bisogno di andare fuori. Facciamo i bravi». Colpendo amichevolmente la mano a Rich, mi tira via, non senza voltare la testa e ammiccare a Monociglio.
Scuoto la testa ridacchiando. «Sei proprio uno stronzo». Quando hai vissuto porta a porta con un tizio per diciotto anni, ci hai condiviso puck da hockey, nasi ammaccati e confidenze sulle scopate con le ragazze di scuola, puoi permetterti di dire cose del genere senza alcuna conseguenza.
Sasha è il fratello che non ho mai avuto.
Quel suo sorriso idiota non è scomparso. «Lo so. E mi sa che ci conviene alzare il culo da qui perché con quello stronzo ho davvero esagerato. Tra un po’ mi prenderà a pugni. È sicuramente quello che farei io se fossi in lui».
«Spiacente, caro. Dobbiamo restarcene ancora un po’ qui. Ho perso il conto delle birre». È una bella rottura. Vorrei davvero tornarmene a casa. Forse Rich conosce qualche ragazza ancora sobria da cui può andare Sash. Forse…
«Guido io», propone Sasha.
«Sul serio? Sei in grado?». Questo sì che renderebbe tutto più semplice.
«Certo. È un’ora che tracanno acqua. Anche io ho gli esami».
Mi rilasso per il sollievo.
«Dài». Indica con la testa la porta e tende la mano. «Andiamo».
«Va bene». Estraggo dalla tasca dei jeans le chiavi della mia Suburban. In realtà è il suv di mio padre. Durante le vacanze di primavera ci siamo scambiati le auto in modo che quando tornerò a casa per l’estate potrò caricare l’essenziale.
Le lancio a Sasha.
Deve tuffarsi per acchiapparle e muove qualche rapido passo per rimettersi in equilibrio e raddrizzarsi. «Già dimenticato come si lancia?», mormora con un sorriso.
«Resta per i corsi estivi!». Sasha ingrana la quarta mentre dinanzi a noi si allunga il rettifilo buio e silenzioso verso Lansing e il nostro appartamento vicino al campus. È ancora incazzato perché me ne tornerò a Rochester fino a luglio. Quando gliel’ho detto, non mi ha parlato per due giorni.
Saremmo dovuti restare a Lansing, ma poi nell’ultima partita mi sono strappato la cuffia dei rotatori e mi sono dovuto operare durante le vacanze di primavera e sono fuori gioco per il prossimo futuro. Forse per sempre.
Sotto sotto, sono contento di tornare a casa per un po’. Sono ancora più contento di non dover spingere slitte in salita e correre i cento metri ogni giorno alle sei del mattino. Per quanto sia un bravo giocatore – e lo sono, altrimenti non sarei mai approdato a una squadra come gli Spartans – non ho particolari ambizioni che mi spingano ad andare oltre il campionato universitario.
Però, io e Sasha non siamo mai stati separati per più di una settimana.
«No… Madison mi ammazzerebbe se ora cambiassi idea». Appoggio la testa che gira al poggiatesta e chiudo gli occhi. Potrei quasi addormentarmi qui. Forse dopotutto, riuscirò a farmi una notte quasi decente di sonno.
«Può venire a trovarti», brontola Sasha.
Dal sedile posteriore, Derek erompe in una grassa risata. «Non vorrai startene sul serio a sentire Cole che si tromba la tua sorellina nella camera accanto?»
«Chiudi quella cazzo di bocca, Maynard». Apro un occhio e vedo le nocche di Sasha bianche sul volante. C’è voluto quasi un anno perché si abituasse all’idea di me e Madison. Dopo quattro anni, ancora s’innervosisce quando qualcuno accenna alle scopate di sua sorella.
«È solo per qualche mese, fratello. Tornerò in men che non si dica», dico, cercando di placare l’ira di Sasha.
«Be’, io se non altro sarò felice come un maiale nella merda quando te ne sarai andato», annuncia Derek. Quando l’ho detto ai ragazzi, Derek ha colto al volo l’occasione per prendersi la mia stanza. Abita con i genitori in una casetta poco fuori Lansing e, anche se i suoi sono carini, non lo biasimo per voler avere un po’ di spazio per sé.
Conosco Derek più o meno da quanto conosco Sasha. La famiglia di Derek per alcuni anni ha vissuto con i nonni a tre porte da casa nostra, mentre il padre di Derek cercava di mantenere il lavoro nella ditta informatica in fallimento. Dicono che mia madre sia andata a salutarli – con un apple pie in mano e me aggrappato a una gamba – e Derek ci abbia accolto con un abitino a pois rosa. Scelto proprio da lui. Non me lo ricordo, ma vi assicuro che io e Sasha l’abbiamo preso in giro per anni. Anzi, mi sorprende che abbia mantenuto i contatti con noi dopo che si sono trasferiti a Lansing.
Ridacchio. «Serviti pure, ma lasciala pulita».
«Sei proprio sicuro, Cole?», ridacchia a sua volta Sasha. «Hai visto cosa raccatta».
«Ehi dico…». Il tono indignato di Derek non fa che istigare Sasha.
«Come si chiamava l’ultima? Tia? Ria?»
«Sia».
«Sia», fa eco Sasha. «Quella squinzia era…».
Ciao, mi chiamo Tara. Sono un paramedico. Riesci a sentirmi? Hai avuto un incidente. Siamo qui per aiutarti.
Ciao, mi chiamo Tara. Sono un paramedico. Riesci a sentirmi? Hai avuto un incidente. Siamo qui per aiutarti.
«Ciao, mi chiamo Tara. Sono un…».
«Cosa?». Quell’unica parola mi gratta la gola. Apro gli occhi e vedo il cielo buio sopra di me, con la visione periferica luci rosse e blu intermittenti. Il suono di sirene, lontane e vicine, mi assale le orecchie.
Tantissime sirene.
Una donna è china su di me. Mi guarda negli occhi e parla con tono tranquillo. «Ciao, sono Tara. Sono un paramedico. Hai avuto un incidente. Andrà tutto bene. Puoi dirmi come ti chiami?».
Mi sforzo di comprendere le sue parole. «Cole». Inghiottire mi fa male.
C’è qualcun altro che mi sta accovacciato accanto. Cerco di voltare la testa per vedere chi è, per capire cosa sta succedendo.
Ma non riesco a voltarmi.