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Delitti in vacanza
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Ebook454 pages6 hours

Delitti in vacanza

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About this ebook

Se pensate di passare una tranquilla estate in città... vi sbagliate di grosso

Non tutti hanno scelto mete esotiche per le vacanze. Qualcuno, a quanto pare, è rimasto in città, o è costretto a rimanerci… In una Torino assolata, c’è un uomo che viene brutalmente torturato dal suo carnefice. In una Milano arroventata dal sole di agosto, un giornalista monta in sella alla sua vespa gialla per risolvere un nuovo misterioso omicidio. C’è anche chi, in una Monza semideserta, si ritrova coinvolto in una vendetta di cui è totalmente all’oscuro, e chi ancora, a Bologna, si trasferisce in una palazzina in cui abita una famiglia un po’ strana. A Firenze, invece, un giovane studente omosessuale si scontra con un padre violento e omofobo. E poi un omicidio dalle caratteristiche inquietanti, che tinge di rosso le vie della capitale... Anche a Napoli, dove per qualcuno estate vorrà dire morte… Niente vacanze a Bari e a Palermo, per il giudice Annalisa Manzari e il commissario Sangallo. La prima è alle prese con una decisione molto difficile, l’altro invece deve vedersela con una banda che sta organizzando un assalto ai danni di un mega centro commerciale...

Quest’anno il crimine non va in vacanza!

Una raccolta di racconti gialli dei migliori autori in circolazione

Vederli insieme mette paura
9 autori, 9 città, 9 storie che vi faranno venire i brividi anche a ferragosto
LanguageItaliano
Release dateJun 19, 2015
ISBN9788854179974
Delitti in vacanza

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    Delitti in vacanza - Massimo Lugli

    983

    Prima edizione ebook: luglio 2015

    © 2015 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    L’ape e il fiordaliso © 2015 Francesca Bertuzzi

    Il verdetto © 2015 Francesco Caringella

    L’estate del commissario Sangallo © 2015 Piergiorgio Di Cara

    Un delitto inutile © 2015 Diana Lama

    Pubblicato in accordo con pnla/Piergiorgio Nicolazzini Literary Agency

    Il bambino d’oro © 2015 Massimo Lugli

    Sorelle © 2015 Mario Mazzanti

    Pubblicato in accordo con Factotum Agency, Milano

    Bambini nel grano © 2015 Gianluca Morozzi

    Pubblicato in accordo con Nabu International Literary Agency

    Tu © 2015 Divier Nelli

    Pubblicato in accordo con Nabu International Literary Agency

    Delitto all’ortomercato © 2015 Paolo Roversi

    Pubblicato in accordo con pnla/Piergiorgio Nicolazzini Literary Agency

    ISBN 978-88-541-7892-2

    www.newtoncompton.com

    Edizione elettronica realizzata da Pachi Guarini per Studio Ti s.r.l.

    Francesca Bertuzzi, Francesco Caringella,

      Piergiorgio Di Cara, Diana Lama,

      Massimo Lugli, Mario Mazzanti, Gianluca Morozzi,

      Divier Nelli, Paolo Roversi

    Delitti in vacanza

     

     

    Newton Compton editori

    L’ape e il fiordaliso

    di Francesca Bertuzzi

    È una storia triste quella dell’ape e del fiordaliso.

    La mattina al risveglio, uscita dal suo alveare, la bella ape strofina il muso con le zampe, inizia il rodaggio delle ali che sfarfallano prima del decollo. Decollo che avviene quasi subito, ancora nottambulo, sullo strascico del riposo, con i sensi assorti. E i sensi si aprono e si eccitano sulla scia dei pollini, dei fiori che si allargano in cerca del sole, dei petali divaricati a voler toccare i raggi, dei pistilli vibranti, carichi, in cerca di sollievo dal peso dei nettari.

    E lei li sente. In armonico inseguimento. In pieno desiderio. Vola. Viaggia. Vuole.

    Il fiordaliso schiuso è di un blu elettrico, quasi viola. Eccentrico. Glamour. Un David Bowie dei campi. Il fiore singolare, che l’ape adora. E lei lo sente, le sottili ali accelerano frenetiche. È sulla pista dei suoi umori. Gli umori di un campo di un blu sovrano a perdita d’occhio.

    Dopo la lunga caccia, eccolo. Lei si posa. Lui vibra appena per il peso leggero. E lei fa ciò che deve, ciò per cui è nata. Finalmente le ali si fermano e al centro del fiore proietta la sua cannuccia. Succhia. Si sposta. Succhia ancora. Con uno scopo più grande di sé nelle fibre del DNA. Ma in quell’attimo non è l’alveare, né le larve, futuro della specie, e neanche l’adorata regina. In quell’istante esatto è l’ape che vive il suo momento, singolo individuo, l’ape accovacciata sul fiordaliso. Il fiordaliso in eruzione. Libero. Di nuovo leggero.

    E l’ape ha fatto il suo dovere, e si è presa il suo piacere. Si rialza in volo, carica. Con le zampe molli per la fatica. E si proietta verso l’alveare. Di ritorno a casa. Pronta a diventare di nuovo il tassello di uno scopo più alto. Pronta a essere sciame.

    Qualcosa non va. Le ali faticano. Più del dovuto. Il mondo si sfoca. Un dolore indistinto ma in espansione. Perde quota. Ma continua. Un’avanzata stoica. Il dovere. L’arnia. Le larve. La regina. Solo che qualcosa proprio non va. Le ali saltano dei battiti. Il volo si fa discontinuo. Zoppo. Lo vede o è una visione? L’alveare a pochi istanti da lei. Ma si è abbassata di parecchio, fra i fili d’erba. Le ali smettono il loro moto fino a questo momento scontato. E lei è a terra. Sente le fitte ingigantirsi dentro il suo corpo, dentro quel meccanismo perfetto, forte e aggraziato che non ha mai smesso di funzionare a dovere. Le zampe. Usa le zampe. Non ne vuole sapere di fermarsi. L’avanzata continua. Disperata. Arrivare all’alveare vuol dire vita. E lei, come tutti su questo pianeta, è aggrappata alla vita. Il corpo pesante. Il nettare ancora fresco. Il fiordaliso. Quel bellissimo fiordaliso. Cosa non ha funzionato? Ora di sicuro non funzionano più neanche le zampe. Crolla su un lato del corpo. La tigre dei cieli. Ha perso il controllo. Il fiordaliso. È stato quel momento così bello, quell’istinto così forte a tradirla? Lo sa, negli ultimi istanti. Lo sa che è stato il fiordaliso a ucciderla.

    È solo per un eccesso di vanità ridicola che gli uomini

    si attribuiscono un’anima di specie diversa da quella degli animali.

    Voltaire

    Il fiordaliso non è tossico per le api. No. Almeno non per sua natura.

    Il fiordaliso è reso tossico. Da chi? Ma che domande. Da noi. Noi uomini siamo la cosa peggiore successa a questo ecosistema. Se si sottraesse l’uomo all’eden, l’eden sarebbe tale. Ma no. Invece l’uomo c’è e propaga dolore. Sì, lo capisco, ora come ora si potrebbe dire lo stesso di me. Che creo dolore. Che sto levando vita. Con l’aggravante della tortura, anche. Roba da buttare via la chiave. Lo so. Lo so. Ma io ho ragione a fare quello che sto facendo. Cristo santo, io ho tutte le ragioni di questo cazzo di mondo a fare quello che sto facendo.

    Il fiordaliso è tossico a causa dei pesticidi. Il fiordaliso e tante, tantissime altre cose. Come tossica è la mente dell’uomo, con le sue purulente perversioni di sopravvivenza. Certo, lo capisco, anch’io voglio sopravvivere. Ma c’è un equilibrio in tutto e noi lo abbiamo rotto. Rotto come è rotto il naso di questo stronzo ai miei piedi. Rotto com’è rotto il suo braccio. Rotto come sono rotte le sue costole. Almeno mi auguro di avergliele rotte. Il crack l’ho sentito. Dicono che fa un male porco avere le costole rotte. Ora, l’unica cosa che posso sperare è che la frattura scomposta non abbia spinto l’osso a perforare un polmone, un’arteria, un ventricolo. Noi non vogliamo questo… no di certo. Noi vogliamo che duri un sacco, il sacco di merda, qui ai miei piedi. E, per inciso, non è neanche troppo una metafora, perché mentre perdeva conoscenza gli ha ceduto lo sfintere e ora è ricoperto del proprio letame e, devo dirlo, puzza!

    La testa pulsa. Il dolore. Naso. Braccio. Zigomo. Ma il petto. C’è qualcosa che non va al petto. Non respiro bene. Il corpo è rigido. Il ronzio è terribile. Puzza di merda. Una puzza rivoltante. Mi sono cacato addosso, porca mignotta. Mi. Sono. Letteralmente. Cacato. Addosso. Questo ronzio. E tutto questo buio. Dove cazzo sono finito? Chi può avermi fatto tutto questo? E perché? Non ricordo nulla. L’ultima cosa che ricordo è che ero al lavoro. Ho consegnato il fascicolo. Era ora di tornare a casa. A casa. Erica. Da quanto sono svenuto? Erica mi starà aspettando… sarà preoccupata. Devo provare a mettermi in piedi. Al di là del dolore. Erica. E Serena. Dovevo andare a prenderla in piscina. Ok. Al mio tre mi muovo. Al mio tre provo ad alzarmi. Uno. Due.

    Ah, ma tu guarda. Lo stronzo si sta riavendo. No. Non è ancora il momento. Non sono pronta. Com’è che fanno i calciatori ai rigori? Una piccola rincorsa e poi calciano, giusto? Allora indietreggio. Di quanto? Tre passi? Forse è meglio una rincorsa di cinque, sì, cinque passi indietro. Bravo. Mi alza anche la testa. Così. E corro felice e contenta. Carico il calcio e boom. La palla del cranio rimbalza all’indietro e ripiomba sul pavimento. Privo di sensi. È così che ti voglio. Ho ancora un sacco di cose da fare. E non è il momento di venire a noi.

    Dicevamo, da dove mi viene questa passione per le api? Una ragione vera e propria non c’è. Il mondo è pieno di creature meravigliose, fiere, forti e necessarie. Necessario è un termine mal gestito dalla nostra specie. È necessario tutto il nostro affannoso meccanismo di vita? Non ci siamo forse resi un po’ troppo sofisticati? Voglio dire, ci serve veramente tutto quello che pensiamo ci serva? Non so, per carità, potreste anche darmi dell’ipocrita. E lo sono, certo. Non mi faccio mancare nulla, come credo facciate voi. Sono figlia di questa società e come tale mi comporto, vizi su vizi. Non sono una santa. Neanche una paladina dell’ecosistema. No. Sarebbe pomposo e fuori luogo da parte mia spacciarmi per tale. Diciamo che rifletto. Ogni tanto. Sfiato pensieri che poi al dato di fatto ignoro. Non faccio la mia parte per migliorare le cose, oltre alla raccolta differenziata non do altri contributi. Ma posso pensare e giudicare male anche me stessa. Perché no? L’autocritica è costruttiva.

    Le api. Forse mi piacciono tanto perché quando ero bambina tutte le altre bambine scappavano come matte appena ne vedevano una. Io, invece, non battevo ciglio. No. Non avevo paura del loro pungiglione. Restavo incantata a guardarle. Anche se si avvicinavano. Anche se mi si posavano addosso. Restavo solo a guardarle con quella che potrei definire una pura e sincera meraviglia per tanta bellezza e potenza in un così piccolo corpo striato. E da lì le mie quotazioni sociali, credo fosse in terza elementare, crebbero. Mi chiamavano la regina delle api. Mi ammiravano.

    Da allora ho seguito la nomea datami da terzi e mi sono appassionata all’argomento. E ho scoperto tante cose su questi bellissimi insetti pieni di risorse. Per esempio, che vedono solo alcuni colori. Vedono perfettamente l’ultravioletto. Vedono il giallo, il verde e l’azzurro ma, non chiedetemi il perché, non distinguono il rosso.

    Infatti, fateci caso, i fiori rossi non sono molto comuni. Il motivo è che le api non portano in giro i loro pollini. Non vedono il colore e non ne succhiano il nettare, di conseguenza non s’impollinano le zampe e non spargono in giro il seme che permette al fiore di riprodursi. Se a questo punto vi state chiedendo come mai nei paesi tropicali ci siano parecchi fiori rossi, sappiate che è perché sono i colibrì a fare il lavoro che in genere è demandato alle api.

    Mi piace sapere questo tipo di cose. Curiosità. Piccole chicche. Mi fanno sentire una persona interessante. Le tiro fuori alle cene. Aspetto paziente il momento, poi ci infilo in mezzo la curiosità che più ci azzecca e tutti mi guardano sorridendo, interessati. Ora però ho troppo da fare per crogiolarmi nei miei successi sociali.

    Non voglio legarlo. Troppo pericoloso. Se riesce a slegarsi e a scappare? Insomma non è che ho organizzato tutto questo ambaradan per ritrovarmi in cella. Allora, visto che non ho la minima intenzione di correre questo rischio, la risposta che mi sono data è piuttosto basilare, diciamo anche brada. Sapete come si fa a tenere gli uccelli nell’aia? Tipo le anatre, che in realtà sarebbero volatili migratori? Gli si spezzano le ali. Così che non possano far altro che aspettare il momento in cui… be’, lo sappiamo tutti come finiscono le anatre d’allevamento.

    Dunque, qui entra in gioco il martello da fabbro. È simile a quelli giganti dei cartoni animati. Pesa un sacco, ma credo fermamente nella sua efficacia. Allora, tornando al principio dell’anatra da allevamento, ovviamente noi non abbiamo le ali, quindi… Vediamo un po’, ginocchio, caviglia, o tibia? Voi che fareste? Dio, come sono indecisa, questo è sintomo d’insicurezza, e non voglio essere una di quelle persone sempre in cerca di approvazione. No di certo. Allora facciamo a fantasia. Tibia. Mi piace. Gli spappolo le tibie. Molto Misery non deve morire. Un classico. Solo che lo stronzo qui non è uno scrittore e, ci puoi scommettere il culo, io non sono una sua fan. Ok, tiro a me la gamba. Quanto puzza! La merda degli altri puzza in modo inaccettabile. È sconveniente che si sia defecato addosso, ma del resto che mi potevo aspettare da lui? Va bene, gli ho divaricato le gambe. Inizio dalla destra.

    Oddio. Oddio onnipotente. Cos’è? Chi è? Cosa cazzo si è messo addosso? Oddio. Oddio. Oddio. Sono una bambola di pezza. Sono così debole. Oddio. Devo reagire. Devo fare qualcosa. Qualunque cosa.

    «Ti prego… ti prego… ti imploro…».

    Ha alzato le spalle? Oddio. Cos’è una tuta gialla? Quella rete scura davanti al volto. Chi cazzo è? Cos’ha in mano? Oddio. Oddio. Un martello? Che vuole fare? Che vuole…

    Alzo il martello. Pesa troppo. Lo lascio ricadere aggiungendo al suo fardello la mia forza. Boom.

    «Aaaaahhhh».

    Ha aperto gli occhi e si è messo a sedere. La bocca allargata.

    Urla pure. Sfogati, dài! Qui non ti sente nessuno. Non ti sentirà mai più nessuno.

    Altro giro, altro regalo. Giù sulla sinistra. Boom. Stavolta sviene. Peccato. Non mi dispiaceva sentirlo implorare. Comunque ora posso tornare serena a casa. Non se ne andrà da nessuna parte.

    Quack. Quack. Fa Daffy Duck.

    L’uomo ha fatto della Terra un inferno per gli animali.

    Arthur Schopenhauer

    Un’altra splendida giornata è iniziata. Per la cronaca, il sole splende in cielo. Ventotto gradi centigradi. Umidità del quarantotto percento. Vento a due chilometri l’ora. L’estate promette calore a profusione. La macchina viaggia a centoventi chilometri orari sull’autostrada deserta. Profumo di bosco in lontananza. Adoro la sensazione di guidare lungo un rettilineo perfetto. Libertà. Che bella sensazione. Libertà. È ancora più bella, questa parola, sapendo che lo stronzo non la pronuncerà mai più. Non sarà mai più libero. Di decidere per sé. Di spostarsi. Di correre. Di ridere. Mai più libero di fare il suo dannoso porco comodo.

    La libertà è un concetto basilare. Importante. Un concetto su cui noi abbiamo pisciato sopra dall’alba dei tempi fino a oggi. L’altro ieri una mia amica, non faccio nomi per ovvie questioni di privacy, mi ha proposto di accompagnarla alla gita scolastica della figlia. Ormai avrete capito quanto sia importante per me piacere alla gente, quindi ho accettato. Mi sono presentata alle otto e trenta alla scuola materna della bambina. Per inciso, svegliarmi presto la mattina mi fa rivoltare lo stomaco. E così io e la mia amica siamo andate allo zoo con una nuova generazione infestante di piccoli uomini. E l’ho visto. Ho visto tutto l’infinito odio negli occhi di quei bellissimi esemplari tenuti in recinti ridicolmente piccoli. Ogni gabbia un dolore. Elefanti. Tigri. Scimmie. E poi c’era lei. Dio come mi ha fatto riflettere. Una giraffa. Aveva dato alla luce un cucciolo. Un bellissimo cucciolo di giraffa. L’attrazione del momento. E io mi sono chiesta: lo sa la giraffa che la vita della sua unica prole sarà relegata a pochi metri quadrati appestati dalle proprie feci? Lo sa? Chi può dirlo… comunque, visto che il piccolo era l’attrazione principale, erano tutti alle sbarre, compresa la figlia, a mio parere eccessivamente moccolosa, della mia cara amica. A guardare, a indicare, a fare versi mielosi. La giraffa sapete che faceva? Con il corpo fiero di chi ambisce a toccare il cielo, lei, sua maestà, si chinava, per evitare che lo osservassero. Parava il figlio dagli sguardi. Il suo prezioso avvenire confinato, protetto strenuamente dall’umiliazione della vetrina. No, non è per nulla giusto. Lasciatemelo dire, non sono posti che dovrebbero esistere, gli zoo. Ci sono andata, è vero. Ho pagato il biglietto, dunque ho sovvenzionato questa tortura insensata. Corretto. Giusta, anzi giustissima osservazione, ma come vi ho detto, non sopporto di non piacere. Dovevo farlo. L’ho fatto. Ma con occhio critico, almeno. Comunque, per chi volesse insinuare che parlo, parlo ma al dunque anche io sto segregando un essere vivente, negandogli la libertà, a questo punto l’uso degli arti inferiori, e in un roseo futuro la vita, rispondo che ne sono perfettamente consapevole. Ma, per l’amore del cielo, non dimentichiamoci che lo stronzo si merita ogni singolo secondo che ho progettato per la fine della sua merdosa esistenza.

    Erica. Amore mio. Serena. Stellina del mio cuore. Addio… questo è un addio? Non ci riesco. Non ce la faccio, non posso morire qui dentro, così miseramente, arrendermi… no. Non esiste. Ho un motivo per cui lottare e lotterò. Il dolore sfianca. Il dolore mi ha reso debole come un neonato. Sembra che mi abbiano masticato le gambe. Cristo santissimo onnipotente, aiutami. Se hai occhi per guardare la terra, aiutami. Sono qui. Lo senti il ronzio? Segui il ronzio, ti prego. Questo ronzio che mi è entrato in testa, che sta rimbalzando nel labirinto grigio della materia cerebrale. Il caldo acuisce la puzza. La merda mi si è seccata addosso. Non è più tanto quella, credo… oddio… credo siano le gambe. Cancrena? Così in fretta? Possibile? Oddio. Ho la bocca secca. Se almeno potessi bere. Va bene. Va bene. Chiunque sia ad avermi rinchiuso qui, ora non è con me. Sono solo. Provo a muovermi. Non vedo praticamente un cazzo. Ma da quel poco che distinguo sembra una rimessa. Un capanno per gli attrezzi. Da dove viene il ronzio? Mi dirigo verso il rettangolo da cui filtra la luce, è una porta. Striscio. Sono un marine che procede sui gomiti. Sento l’osso del braccio muoversi, fa male. Non concentrarti sul dolore vecchio mio, dài, avanti. Le gambe bruciano come stessero prendendo fuoco. Andiamo. Il respiro è corto. Il corpo ancora più rigido. Ma sto avanzando. Millimetro dopo millimetro. Cazzo. La porta si spalanca. È sulla soglia con quella tuta gialla. Oddio, non è possibile. Cos’ha in mano? Oddio, no. No. No.

    Da sempre, fissa comune e che accomuna i maschi è il pene. Non fraintendetemi, esattamente come gli altri animali, anche per noi esseri umani la riproduzione è un’ossessione. Motore di scontri, faide e transumanze. Vogliamo scopare. Certo. Per l’istinto che muove tutto il pianeta. La riproduzione. Ma cosa facciamo noi se il gioiellino che contiene il seme della speranza resta inerme, debole, insomma, impotente? La risposta della nostra adorata specie è semplice. Stupida. Folle. E, come al solito, cattiva.

    Sono delle cesoie… oddio, sono delle cesoie.

    Così, animali centenari come le tartarughe. Pesci fantastici e unici come gli ippocampi, specie rara per via della gravidanza maschile. Straordinari mastodonti come i rinoceronti. Dolci creature come i maschi di foca. Incredibili esempi di perfezione armonica come gli squali. Vengono predati e utilizzati come afrodisiaci. Come? Faccio un esempio per tutti…

    Grazie a Dio. Ha posato le cesoie contro il muro. La luce entra dall’esterno. Dietro la persona con la tuta non vedo altro che un campo di terra secca. Mi si avvicina. Con il piede coperto da uno stivale di gomma mi rigira supino. Provo ad aggrapparmi a una caviglia ma preme con il piede sulle costole. La fitta del dolore si espande e riaccende tutti gli altri dolori. Le gambe. Cristo, le gambe. Mi slaccia i pantaloni. Oddio.

    Gli squali. Mi piacciono i predatori. Quindi prendo lo squalo come esempio, ok? Allora. Cosa succede nel blu dipinto di blu? Che i pescatori predano il sommo imperatore dei mari. Ne tirano su a tonnellate. Qualunque squalo, dal maestoso bianco al martello. Li trascinano nelle loro merdose barchette luride. Il pescecane si dimena. Spalanca l’opera magna di Dio. Svela la tripla dentatura. Mostra cos’è perfezione. Potenza. Fantasia divina. E loro, gli uomini, iniziano. Tranciano le pinne dorsali, poi la caudale, le ventrali, le pettorali e dulcis in fundo, perché no, quella anale. Processo che ha una sua durata. Mentre lo squalo è in apnea, segano la resistente cartilagine. Sapete quanto può essere doloroso? Ve lo immaginate? Essere così fieri e poi così umiliati? Sottoposti a una perversione così inutile? Poi il tronco dello squalo viene rigettato in mare.

    Mi cala le mutande. Cazzo. Cazzo. Cazzo. Recupera le cesoie. Ti prego. Ti prego. Ti prego. Oddio, ti scongiuro, no.

    E quello affonda, ma badate bene, è vivo. Il predatore dei mari, immutato nel tempo perché macchina progettata perfettamente, ora s’inabissa. Contorcendosi. Spoglio delle proprie capacità motorie. Affonda. Condannato a una morte priva di dignità e di clemenza. E per cosa?

    Ha aperto le cesoie. Perché? Perché? Le lame si stringono intorno al mio uccello. Oh, ti prego. Questo no. No.

    Perché, una sciocchina credenza popolare dice che se mangi la cartilagine di squalo, appunto contenuta nelle pinne, allora avrai un alzabandiera da record. Provata e comprovata l’inefficacia dell’afrodisiaco, messo sul mercato un rimedio chimico di buona qualità e di notevole successo pratico, cosa fa l’uomo? Continua a cacciare lo squalo, brutalizzarlo, e affondarlo per la promessa, che oramai tutti sappiamo essere falsa, di una patetica erezione.

    Le lame stringono. Sento tutta la loro affilata minaccia. Non mi muovo più. Sono paralizzato. Respiro, un respiro affannato che non riconosco come mio, non posso far altro che ingollare aria. Sento il sangue che cola dai due tagli paralleli. Chiudo gli occhi. Stringo i denti.

    Sempre per la stessa ragione, le tartarughe vengono bollite per farne un brodo. I cavallucci marini, in estinzione, vengono essiccati per ricavarne una polvere. Il rinoceronte subisce un trattamento simile allo squalo, gli segano il potente corno e lo lasciano vivere. Storpio. Pronto alla dolorosa setticemia. E poi ai maschi delle foche si prende il pene. Per essiccarlo e mangiarlo. Lo si taglia via di netto.

    «Taglia. Cazzo, taglia. Taglia in fretta. Porca troia facciamola finita!».

    Hi hi hi. Senti che versi che fa. Sembra un porco che si ribella al macello. Poverino. Guarda come ci tiene al pistolino. Hi hi hi. Ma io sono più elaborata di così.

    Le cesoie si riaprono. Mi affranca dalle lame. Si allontana. Sta sghignazzando? Oddio, è folle. Totalmente folle.

    Io voglio solo che sappia che qualunque cosa mi passi per la testa posso fargliela. Non è forse la parte più gustosa? La promessa di una violenza truce? Ma non fraintendetemi. Mi piace anche quella vera e propria, di violenza, arrivare al dunque, insomma. Solo che rischio troppo ad amputargli il pene. Rischio che si dissangui. E, ripeto, voglio che duri… non è così che deve morire il sacco di merda.

    Ha preso una sedia, l’ha appoggiata al muro. Si accomoda. Mi fissa da dietro la retina scura. Cosa vuole? Cosa vuole da me? Devo capire chi cazzo ho davanti. Devo capire cosa vuole, offrirglielo. Contrattare. Non mi ha ancora ucciso. Posso ancora venirne fuori.

    Tra tutti gli animali l’uomo è il più crudele.

    È l’unico a infliggere dolore per il piacere di farlo.

    Mark Twain

    Una singola ape, in un’ora, percorre circa ventiquattro chilometri. Si calcola che, nell’arco della sua vita, compia all’incirca quindicimila chilometri. Instancabile.

    Noi, dopo otto ore di lavoro, intervallate da un paio di caffè, piccole scappatelle su Facebook, pausa pranzo e chiacchiere fra colleghi, torniamo a casa sderenati. Afflitti, ci attacchiamo alla tetta al plasma delle superfici luminose dei nostri sovradimensionati televisori. Per vedere cosa? L’altro giorno, protagonista del ritratto appena descritto, mi ero messa sul divano, televisore acceso e libro in mano. Leggo con la tivù che va per non sentirmi sola. Insomma, in che cosa incappo? In un programma dove un paio di persone, uomo-donna, ovvio, per dare a tutto un retrogusto che smuova quel brivido nelle mutande, sono nudi su un’isola deserta. In realtà dalle inquadrature si evince che dietro le loro peripezie c’è una troupe al completo, ergo, in realtà, hanno ogni confort a disposizione. La coppia deve sopravvivere con le proprie forze nella natura selvaggia di un paradiso tropicale. Ma siamo inetti, resi inetti dalla nostra cosiddetta evoluzione, per cui i due si affannano eccessivamente, pateticamente, per ripararsi dalle intemperie, mantenere un livello accettabile di pulizia e ovviamente nutrirsi. Questi due esemplari di esseri umani, con i genitali esposti, e insieme ai genitali tutta la miseria di corpi flaccidi e privi di maestosa bellezza, si aggirano per l’isola dei sogni. Quando ho distolto lo sguardo dal libro ho visto questa donna vicino a un lago stile Laguna Blu, che si lamentava (c’è qualcosa che ci riesce meglio del lamentarci?) dei morsi della fame. Pacifica e meravigliosa, una grossa testuggine nuotava nell’incanto delle acque. Il mostro dai capelli arruffati ha intrapreso una pachidermica avanzata verso lo splendido rettile. La tartaruga, notandola, ha iniziato a nuotarle incontro. Come fossero amiche. Come fosse ovvio per lei mostrarle la propria bellezza lucente. La donna l’ha afferrata senza grazia e, tornata a riva, ha cominciato a sbattere il possente carapace contro una pietra. Il guscio ha infine ceduto. L’ha divelto dal ventre. Due splendide uova, gli organi esposti ancora in disperato movimento. Il mostro si è voltato a favore della camera, indicando le uova e annunciando omelette. Nel frattempo, lo splendido animale muoveva le zampe, sempre più meccanicamente, cercando di portarle a protezione del ventre gravido. La telecamera indugiava pornografica sulla lenta agonia. Fino alla resa. Mentre l’obbrobrio si leccava le labbra riarse delirando su come avrebbe acceso il fuoco e organizzato la cottura.

    Voglio dire, non è orribile? Quanto cattivo gusto ci vuole? A chi cazzo interessa di questa femmina nuda che deturpa splendore? E guai a chi mi fa notare che però io avevo l’apparecchio sintonizzato sul programma e che quindi sono proprio io il tipo di persona che guarda certa robaccia. Non lo ammetto. Stavo leggendo un libro e ho solo messo un canale a caso. Lo sapete, se c’è da essere onesti so farlo. Ma questa roba non la guardo. Scommetto però che è uno di quegli show che al sacco di merda non dispiace affatto. Uno dei tanti, tantissimi reality che non guarderà mai più. Ma mi sto perdendo in chiacchiere mentre è ora di agire. Allora, il flacone…

    Sono una brava persona. Ho un lavoro. Ho una moglie. Una figlia. Sono una brava persona, in fondo… cos’ho fatto di tanto brutto per meritarmi questo? Chi c’è dentro quella tuta? Ok, ok, vecchio mio, ragiona. Il concorso, può essere? Eravamo pochi. Una trentina, grosso modo. Ho barato, ho copiato, mi ero portato i fogliettini e ho barato. Ero raccomandato e non meritavo di vincere. Quel tipo bassino ed esile. Era lì a ripetere l’esame per la terza volta, mi pare. Quello che invece si vedeva lontano un miglio che era preparato. Quello che mi sedeva accanto. Quello che mi ha visto fare l’occhiolino al commissario d’esame… lo hanno bocciato. Hanno dovuto fare le pulci al suo scritto per non farlo arrivare al punteggio. Per far passare me. Me lo ricordo. Me lo ricordo come fosse ora. Mi si è avvicinato, ha sistemato gli occhiali sul naso. Ha detto: «Non finisce qui». Ma poi? Poi non l’ho più visto in vita mia. Troppi anni, sono passati troppi anni perché sia lui. Quand’ho superato il concorso? Quindici anni fa… non è possibile. Chi è? Chi è? Andrea? Può essere… anche questa è roba vecchia, prima di Erica… ma forse… non mi ha mai perdonato, questo lo so. E ha ragione lui a non avermi perdonato. Scopargli la moglie. In quel modo poi. A casa sua. Poche settimane dopo le nozze. Ero persino il testimone. Fratelli. Eravamo come fratelli e io… al diavolo. Succedono. Cose che succedono. È lui che non ha saputo rialzarsi, no? È lui che ha dato di matto. Lei non gli ha chiesto neanche un soldo dal divorzio, e poteva. E io, be’, in fondo gli ho fatto un favore. Quella era una troia da podio alle olimpiadi della zoccolaggine. Meglio perderla che trovarla. Meglio così, prima che gli passasse una qualche malattia venerea, no? E lui cosa fa? Beve, il coglione. Lo sanno tutti, una sbronza è concessa dopo una batosta ma non deve diventare un’abitudine. Così, alla fine, si è fatto licenziare. Così è diventato un patetico rottame come ce ne sono tanti. Uno di quelli che arranca, che si arrabatta, che aspetta di staccare da un lavoro a salario minimo per andare a ficcarsi nel primo bar che trova. Non ha tirato fuori le palle e sarebbe colpa mia? Ma che sto dicendo? Sto delirando. Sto impazzendo. Non può essere Andrea. Andrea è uno e novanta. Spalle larghe. No. Non può essere Andrea.

    So che prima ho parlato dei rimedi contro l’impotenza. Non vorrei che questo mi facesse apparire come una femminista convinta. Non sono una femminista. So benissimo quanto sia orrido essere considerata tale. Puoi essere bella quanto ti pare, ma se sei una femminista sprofondi nel reparto delle inscopabili, note ai più come fighe di legno. A nessuno piace una donna che te la mena per le pari opportunità. Ti rimanda subito a quei cortei settantini in cui le ragazze non avevano a cuore la cura della propria femminilità. Io non sono così. Io ci tengo. Mi trucco. Vado dal parrucchiere una volta ogni due settimane e dall’estetista una volta al mese. No. Non sono quel tipo di ragazza che ti attacca la pippa al ristorante sul fatto che non le dovresti offrire la cena. Certo che me la devi offrire, che cazzo. Ci mancherebbe. Ma so che parlando dei rimedi contro l’impotenza potrei essere tacciata di misandria. Perché ciò non sia, sarò onesta e diretta. Invecchiamo. Invecchiamo e indovina? Non piace a nessuno. Né agli uomini né alle donne. Soprattutto alle donne. Non so chi, ha sparso la voce che le donne con l’età sfioriscono mentre gli uomini acquistano fascino. Va be’, non bisogna essere femministe per dire che è una cazzata bella e buona. I ventenni sono i migliori. Per tutte e due le categorie. Più prestanti, più forti, più sodi, più… gnam!!! Ma la nostra società non ne vuole sapere. Dopo i trenta sei merce avariata. Dunque, quindi, le non più ragazze lottano. È tutta una guerra a non far scendere il culo, a tenere su le tette, si combatte contro l’inevitabile forza di gravità.

    Si è rialzato. Ha preso un enorme flacone. Oddio, cosa gli è venuto in mente adesso?

    Ma soprattutto si contrasta l’evidenza. È oramai conclamato che sul volto si vanno formando mappature della tua felicità e della tua infelicità durante l’affascinante tragitto-vita. Queste mappature sono da noi denominate rughe. Il solo termine fa tremare lo specchio, specchio delle nostre brame. Non sia mai. Allora si ricorre a tutta una serie di trucchi e correttori, creme e cremine. Di laser ed esfoliazioni. Ma come possiamo sapere se questi prodotti ci nuoceranno oppure no? E qui entrano in gioco i nostri amici non civilizzati. Le scimmie. Adorabili creature della giungla. Affezionati primati. Straordinarie scenografe di voli fantasisti da un ramo all’altro. Emotive e giocherellone, divertenti e dispettose, le scimmie, si distinguono dagli altri animali per l’evidente somiglianza all’uomo. E poverette. Perché, si sa, a noi piace giocare alla tortura.

    Sta versando il liquido dentro il tappo. Che puzza. Una puzza chimica orribile. Mi gira la testa. Il ronzio. Il ronzio aumenta. Vomito. Giuro che vomito. No, no. Mi devo trattenere. Le costole. Non posso vomitare, gli spasmi mi farebbero troppo male. Cos’ha lì? Cos’è? Una siringa?

    E alla base del nostro adorabile passatempo c’è la reclusione. Dunque, prendiamo questi pacifici e adorabili primati e li mettiamo dentro gabbiette piccole, piccole. Poi iniziano i test, così che una volta applicate sull’epidermide della donna le creme non diano reazioni indesiderate. In cosa consistono i test? Oh, una perversione dietro l’altra, credetemi. Le scimmie sono animali sensibili, la loro sensibilità è riconosciuta addirittura da noi che siamo nettamente sotto qualunque percentile empatico. Forse perché esteticamente ci assomigliano più di altri, chissà… a ogni modo, per la scimmia la solitudine, la reclusione, la costrizione fisica sono già di per sé una tortura (e poi, per chi non lo sarebbero?), ma ogni tanto nella stanza asettica del laboratorio arriva un altro primate in camice e guanti che la va a trovare. E che le fa? Che fa il primate al primate più piccolo?

    Si avvicina. Cauto. Che cazzo vuole fare? Perché? Mamma, mamma, proteggimi tu, mamma.

    Testa la resistenza della piccola scimmia a elevate dosi di sostanze chimiche. Molto più elevate del necessario. L’indifesa creatura così viene per giorni e mesi esposta ai fumi tossici di acidi di ogni natura. Le vengono strofinati sull’epidermide, le vengono fatti gocciolare negli occhi e nelle orecchie, anche ingerire, in piccole quantità. Alla fine della sperimentazione, l’animale, se sopravvive, viene soppresso. Ma solo dopo essere stato sottoposto a truci sofferenze, solitudine orrenda, impotenza selvaggia, sconforto, paura.

    Una goccia chiara scorre sull’ago. Un ago lunghissimo. Non lo farà. Mi vuole spaventare. Non lo farà, come non ha avuto il coraggio di tagliami l’uccello. Non può farlo. È solo un vigliacco. Un vigliacco schifoso. Perché tremo? Non devo tremare. Stai calmo, vecchio mio, non lo farà.

    Il braccio sano sembra l’idea migliore. Sì, un’idea brillante. Ma se reagisce sono nei guai. Allora, organizzazione. Gli porgo la mano. Gentilmente. Anche le scimmiette nelle gabbie la porgono ai medici. Perché i pezzenti ogni tanto gli passano cibo, altre volte invece…

    Che cosa vuole? Vuole che gli dia la mano? Ha compassione? È così. Si è pentito. Sì, ok, ok, ok. Saremo amici. Sarò il tuo cazzo di miglior amico. Fatti toccare che t’ammazzo.

    Così da bravo. Ecco la manina.

    Lo tiro a me. Non è forte. Io sono forte di una rabbia sconfinata, invece.

    Birichino, ha voglia di giocare. Ma ce l’ho io un gioco che mi piace tanto. Spero solo di non beccargli una vena.

    Ah! L’ago, cazzo, l’ha infilato.

    Veloce, giù lo stantuffo. ’Fanculo, non mi molla.

    Vomito. Vomito. Sento le costole graffiare la carne. Non ci posso fare nulla, vomito. Dio, come puzza. Come brucia. Ustiona. Porco il mondo. Puzza di carne alla griglia.

    Bene. Ha mollato. Mi allontano velocemente. Ho rischiato. Però non è stata male la schicchera d’adrenalina. E poi lo deve sapere. Non ho paura di lui. Io sono invulnerabile. Lo deve capire che ora io sono il suo dio e non ho pietà.

    Guarda come gli si sta gonfiando in fretta. Si contorce, il sacco di merda. Piange. Povero stronzo. Sì, se ho fatto le cose a dovere, l’acido se lo mangerà fino all’osso. Ecco, la

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