Discover millions of ebooks, audiobooks, and so much more with a free trial

Only $11.99/month after trial. Cancel anytime.

L'ultimo segreto dei templari
L'ultimo segreto dei templari
L'ultimo segreto dei templari
Ebook656 pages8 hours

L'ultimo segreto dei templari

Rating: 0 out of 5 stars

()

Read preview

About this ebook

Un grande thriller

Terrasanta, 1232.
Una guerra violentissima contrappone due delle massime istituzioni dell’epoca: da una parte il Gran Maestro dell’Ordine dei Templari, dall’altra il legato pontificio, inviato direttamente da Roma per rivendicare il possesso di un segreto ambìto da tutte le istituzioni religiose e da ogni forma di potere costituito.

Londra, 2012.
Il Tempio Nero si è ricostituito e ha tutta l’intenzione di cambiare il corso della Storia. Indagando nelle stanze del potere della City e nei meandri delle più esclusive società segrete, solo una persona può preservare il futuro dell’Occidente ed evitare che collassi, distrutto fin dalle sue più antiche e solide fondamenta. Il suo nome è Antoine Marcas, massone e poliziotto scaltro e determinato. Potrebbe farcela, a condizione di riuscire a sciogliere l’ultimo enigma dei Templari. Ma gli ostacoli e i pericoli da superare non sono pochi…

Il futuro dell’Occidente è legato alla soluzione di un oscuro enigma, ma in troppi desiderano che rimanga insoluto…

«Una storia che farà venire l’acquolina in bocca agli appassionati di Medioevo e ai cacciatori di tesori.»
Julie Malaure, Le Point

«Una trama che, con il suo passare da un’epoca a un’altra, tiene il lettore con il fiato sospeso fino alla fine.»
Jean-Michel Lecocq

C’è ancora chi pensa che il potere dei templari appartenga al passato?
Eric Giacometti
Giornalista di un grande quotidiano francese, alla fine degli anni Novanta ha condotto una grande inchiesta sulla massoneria. Insieme a Jacques Ravenne, che conosce da venticinque anni, ha iniziato nel 2005 una collaborazione letteraria. Le inchieste del commissario Marcas sono state tradotte in 15 lingue.
Jacques Ravenne
È lo pseudonimo di un massone elevato al grado di Maestro del Rito Francese. Con Eric Giacometti ha firmato una serie di thriller di grande successo internazionale, di cui la Newton Compton ha pubblicato Il settimo templare e L'ultimo segreto dei templari.
LanguageItaliano
Release dateDec 15, 2014
ISBN9788854175440
L'ultimo segreto dei templari

Related to L'ultimo segreto dei templari

Titles in the series (100)

View More

Related ebooks

Thrillers For You

View More

Related articles

Related categories

Reviews for L'ultimo segreto dei templari

Rating: 0 out of 5 stars
0 ratings

0 ratings0 reviews

What did you think?

Tap to rate

Review must be at least 10 words

    Book preview

    L'ultimo segreto dei templari - Eric Giacometti

    PRIMA PARTE

    1

    Terrasanta, città di Al Kilhal

    Vigilia di Ognissanti 1232

    Il rumore degli zoccoli si arrestò. L’ingresso alla città era vicino. Dal folto degli alberi, si distingueva la fisionomia oscura di una sentinella che camminava avanti e indietro sotto le mura.

    «Una sola guardia?», chiese una voce nella notte.

    «Le altre devono difendere la porta. Non ci saranno più di sei uomini a custodire l’entrata», rispose Roncelin scendendo da cavallo.

    Aveva ispezionato la città. Di tutta la compagnia, era quello che aveva lo sguardo più penetrante, lo spirito più accorto. Qualità perfette quando si è un ladro di talento e un assassino senza vergogna. Travestito da mendicante, aveva percorso la città quartiere dopo quartiere, prendendo nota dei corpi di guardia, memorizzando le botteghe degli artigiani, registrando dove fossero le tre moschee e anche la sinagoga, nascosta tra le viuzze tortuose del quartiere ebraico. Poi, stravaccato vicino al mercato, una ciotola sbeccata ai suoi piedi, aveva esibito i suoi stracci, apostrofando i passanti con il suo sguardo rosso sangue, prima di farli fuggire a causa del fetore che emanava. Quella stessa mattina si era strofinato gli occhi con fiori secchi di saponaria, aveva infilato un gatto morto nella bisaccia e, al calar della sera, non era che un pezzente anonimo di cui nessuno più si curava.

    «Quanti mercanti ci saranno, secondo te?».

    Pazientemente Roncelin ricominciò. Il suo compare Guillaume non brillava per prontezza di spirito. Tuttavia maneggiava la spada con la naturalezza con cui respirava. Un dono di Dio o del diavolo che compensava la sua opacità interiore. «Saranno una quarantina. Senza contare le famiglie». La voce di Roncelin strascicò l’ultima sillaba. Come un raggio di sole, brillò per un istante una traccia della sua Provenza natale. Sollevò i suoi cenci maleodoranti e in un attimo si ritrovò nudo. Cicatrici scure gli striavano il dorso e gli avambracci, ma nessuna ferita lo aveva ancora finito. C’era qualcosa di miracoloso. Il suo corpo sfregiato traduceva nel linguaggio della carne gli anni di combattimenti, cosa che d’altro canto seduceva decisamente le donne. Molte lo trovavano un bell’uomo e alcune lo avevano amaramente rimpianto: era uno che prendeva senza mai restituire. Era la sua legge, così in amore come nelle rapine. Si stirò le spalle e il collo con piccole rotazioni, quindi affondò le mani nei boccoli biondi.

    Guillaume gli tese degli abiti da battaglia. Roncelin, gli occhi verde scuro, fissò l’aiutante osservarsi le mani dubbioso… Non aveva mai saputo contare oltre le sue dieci dita, ma la matematica lo affascinava, soprattutto le moltiplicazioni.

    «Tutti infedeli?»

    «Tutti cani che si prostrano a terra per adorare il loro falso dio», rispose Roncelin mentre si infilava rapidamente la sua cotta di maglia consunta.

    «Dunque uomini che hanno molte mogli?».

    Malgrado il buio, Roncelin intuì un lampo nei suoi occhi. Doveva approfittarne e attizzarlo. «Sì».

    «Quante?», chiese Guillaume con voce ansimante.

    «Più di quelle di cui potresti mai godere in una sola notte. O non mi credi?»

    «Sì, ma…».

    «Ma cosa? Da quando abbiamo disertato l’esercito di Federico, quel cane di un tedesco che ha usurpato la corona di Gerusalemme, è forse mai successo che ti abbia mentito? Due anni di strada insieme non bastano dunque per guadagnarsi la tua fiducia…», brontolò Roncelin mentre si allacciava la cintura di cuoio.

    «No. È il numero delle donne, mi fa già girare la testa». Guillaume guaì. Ogni soldo che rubava finiva invariabilmente al bordello. Era là d’altronde che il Provenzale lo aveva scovato e reclutato.

    «Conta tre femmine per ogni uomo».

    «E una quarantina di mercanti, no?»

    «Almeno».

    Di colpo Roncelin si sentì più leggero. Guillaume aveva bisogno di tempo per perdersi nei suoi calcoli. Ma doveva prima assolvere alla sua missione. «Sei pronto?».

    Guillaume afferrò un enorme sacco di tessuto ruvido e macchiato di scuro. Se lo calò sulle spalle. L’odore era forte, insopportabile.

    «Tocca a te. Sii rapido».

    Guillaume scrollò un attimo la testa. Era abituato.

    Mentre aspettava, Roncelin avrebbe potuto riunire la squadra che lo attendeva nel bosco. Estrasse il pugnale, verificò che la lama fosse affilata e cominciò a cercare i suoi compagni d’infamia.

    All’angolo del cammino di ronda, la guardia si immobilizzò. Un cavallo aveva appena nitrito.

    Per un istante, Khoubir ebbe la tentazione di svegliare i suoi uomini. Prese il corno da caccia, ma vi rinunciò. Se avesse suonato l’allarme, tutta la popolazione sarebbe accorsa in massa. Non valeva la pena spaventarla. Si strinse nelle spalle larghe. Dal ritorno dei crociati a Gerusalemme, la regione non era più sicura. Quei cani rognosi dei franchi disseminati in tutto il Paese divoravano ogni cosa. Giravano voci che attaccassero i villaggi isolati di notte, che rapissero i bambini e stuprassero le donne. Al mattino erano stati ritrovati uomini evirati sulle porte delle case. A voce bassa, Khoubir implorò la misericordia di Allah perché proteggesse la sua città dalla furia di quelle belve feroci. Da più di un anno, come capo della sorveglianza, vegliava su quella comunità in cui si accalcavano alla rinfusa arabi ed ebrei, agiati mercanti e contadini senza terra, tutti attanagliati dalla stessa paura di cadere nelle mani dei franchi. Era stata una delegazione di commercianti a convincerlo a occuparsi della sicurezza di quel posto. Da quel momento, trascorreva le sue notti aspettando l’assalto: lo presentiva, lo temeva, ma non arrivava mai. I suoi uomini si stavano logorando i nervi e la fiducia degli abitanti si sfaldava. Ovunque montavano odio e paura contro quelle bande di predoni senza volto che girovagavano e picchiavano senza pietà. Veri e propri lupi famelici.

    Il capo delle guardie tese l’orecchio. La campagna era di nuovo calma. Ora respirava meglio. Sarà stato il cavallo di un viandante, pensò. Che Allah lo protegga!.

    Roncelin trovò i suoi compagni riuniti intorno all’Indovino. Senza fare rumore, si fermò dietro un tronco. La luna aveva appena oltrepassato la cima degli alberi, una luce cinerea rischiarava la radura. Un odore acre saliva dal terreno. Dai volti sembravano tutti a lutto.

    L’Indovino stava al centro, il cappuccio calato, un’ombra malefica nella notte. Gli uomini lo temevano. Un giorno, uno dei predoni, ubriaco, l’aveva chiamato figlio del diavolo. Il soprannome gli era rimasto. Diceva infatti di venire dalle terre brumose d’Inghilterra, spinto dalla ricerca di Dio, e che i suoi antenati celti gli avevano tramandato doni segreti. Ma Roncelin non si lasciava ingannare, l’uomo mentiva. Come d’altronde tutti gli sgherri della sua banda, ciascuno sulle proprie origini. Il cuoco era un figlio bastardo del buon re di Francia, l’arciere italiano discendeva da un cardinale della curia, l’aquitano, esperto di pugnale, era stato partorito da una principessa di Lusignano… E un inglese mezzo stregone certo non sfigurava in un simile gruppo. Roncelin era il solo a tacere le sue origini: lo chiamavano Provenzale, e tanto bastava.

    Roncelin stava osservando l’Indovino attentamente. Si era aggregato alla banda un mese prima, quando avevano saccheggiato il piccolo borgo di Aldebarra. Spuntato dal nulla, con una pugnalata decisiva aveva salvato Roncelin dalla scimitarra di un infedele. Il Provenzale l’aveva arruolato per riconoscenza. Ma ora si domandava se non avesse fatto un errore. Gli uomini della sua compagnia mormoravano che l’Indovino avesse poteri ricevuti da Lucifero in persona e che il suo occhio portava la morte come un fulmine il fuoco. A differenza dei compagni di scorrerie, Roncelin non aveva paura di quello stregone: da molto tempo Dio e Satana avevano disertato la sua coscienza. Riconosceva tuttavia all’inglese un’influenza innegabile sulla sua banda. Forse anche eccessiva.

    Al centro del cerchio formato dai sodali era stata appena scavata una piccola fossa dalla forma bizzarra: un triangolo troncato al vertice.

    L’Indovino puntò l’indice in basso. «Il vaso». La sua voce era sorprendentemente chiara, quasi lieve.

    Da sotto un mantello brillò un calice dorato. Roncelin si chiese in quale chiesa l’avesse trafugato.

    L’inglese alzò la voce. «La lama».

    Allora spuntò una daga sottile e cesellata. Il metallo brillava sotto la luna. L’Indovino si sporse in avanti e tirò su le maniche logore della tonaca, quindi tese il polso striato di cicatrici al di sopra del calice. Gocce di sangue lo imperlavano formando un rosario scarlatto. L’Indovino disse soltanto una frase: «I morti hanno sete».

    Khoubir abbassò la torcia e ispezionò il parapetto. Temeva di scoprire un rampino agganciato alle pietre. Quei porci dei cristiani erano capaci di qualsiasi stratagemma. Malgrado la tregua che era stata firmata con i musulmani, quelle bande avide di sangue e oro setacciavano tutto il Paese, sequestrando e trucidando senza sosta. Sputò a terra per la collera. Sentì un brivido. Il giorno prima, nel vecchio quartiere di Gerusalemme vicino alla torre di David, aveva sentito strani racconti dai cambiavalute ebrei. Tesi in volto, tutti ripetevano la stessa parola, ginn, esseri mezzi uomini e mezzi demoni che uccidevano tutto quanto incontrassero al loro passaggio, corpi e anime.

    Un rumore secco di sterpaglie lo fece sussultare. Di colpo il suo cuore si imbizzarrì. Si portò più vicino al merlo e tese l’orecchio: di nuovo lo stesso rumore di corteccia spezzata. Khoubir sentiva il cuore martellargli nel petto. Davanti agli occhi gli scorrevano immagini di uomini dai volti di carnefici. Implorò Allah di risparmiargli almeno la paura. Una volta ancora ascoltò la notte. Nessun dubbio ormai, un passo pesante si stava aprendo un varco attraverso i cespugli fitti ai piedi dei bastioni. Con la mano vacillante, prese il corno che teneva alla cintola. Nel buio, sentì sotto le dita l’avorio scolpito con le massime del Profeta. Il sangue gli pulsava nelle tempie. Teneva il corno vicino al viso e sentiva il becco d’argento ghiacciato su cui suo padre e il padre di suo padre avevano soffiato. Un brusco tonfo risuonò sotto i bastioni. Questa volta Khoubir non esitò.

    Un muggito squarciò le tenebre.

    Il suono sbuffante del corno riecheggiò nella radura, ma nessuno dei compagni si mosse. Roncelin capì che Guillaume aveva portato a termine la sua missione e divenne sempre più impaziente. Non aveva più tempo da perdere con cerimonie grottesche. Bisognava che l’Indovino si sbrigasse a concludere il suo operato, altrimenti lo avrebbe spedito lui stesso all’inferno. Il Provenzale si avvicinò in silenzio. Man mano che avanzava, l’odore acre si faceva più frastornante. Il disgusto gli serrò la gola. I suoi compagni avevano tutti lo sguardo rapito dalla daga dell’Indovino, che stillava un sangue nero nel calice.

    «Chi vuole conoscere il proprio destino?».

    Gli uomini erano impietriti, quando una mano si sollevò. Roncelin riconobbe quella del Guercio, un anziano prete che aveva abbandonato il sacerdozio, poi venuto in Terrasanta a cercare l’oblio degli uomini e il perdono di Dio. Una ricerca impossibile che, dalla disperazione al decadimento morale, aveva fatto di lui un criminale di lungo corso. Né il sangue versato, né l’oro dilapidato nella depravazione erano riusciti a placare la sua coscienza. Prima di ogni combattimento, egli tremava non di paura, ma per il terrore di morire senza essersi riconciliato con Dio.

    L’Indovino si girò verso di lui. «Dammi la mano».

    Il Guercio fece un passo in avanti e scoprì l’avambraccio. Intorno a lui il cerchio si strinse. Roncelin sentiva il respiro irregolare degli uomini. Un chiarore baluginò, seguito da un grido soffocato. I bordi interni del calice si tinsero di segni scuri.

    «Vuoi ancora conoscere il tuo destino?».

    Tenendo il pollice sulla ferita, l’anziano prete annuì.

    «Sia quello che sia», annunciò l’Indovino dirigendosi verso la fossa. Sollevò lentamente il calice e con una voce d’oltretomba intonò la sua invocazione. «Per i poteri del mondo oscuro, per gli angeli della notte. Che il Bassissimo sia santificato, che sia fatta la Sua volontà di tenebre, come in cielo così in terra».

    Roncelin era sul punto di farsi il segno della croce, ma si riscosse. Non credeva certo a quelle frottole da ciarlatano.

    «Che i dannati mi ascoltino, che risalgano verso di me, che si abbeverino alla mia offerta». L’Indovino versò il contenuto del calice nella fossa. L’odore acre e putrido mutò allora in una fragranza dolceamara.

    Roncelin sogghignò di nuovo; il contatto del sangue con la cosa nella fossa produceva sempre lo stesso odore. L’inglese gettò il calice al suolo e levò lo sguardo al cielo. Tremava come un lebbroso, gli occhi rovesciati, la pelle livida. Mentre la sua voce sibilava come un serpente, la bocca gli si contorse in un ghigno. Un magnifico posseduto, più vero del vero, pensò Roncelin.

    L’Indovino si girò verso l’anziano prete e d’un tratto profetizzò: «Questa è la tua notte. Fai tutto ciò che vuoi. Niente ti resisterà. Oro e sangue!».

    Il Guercio era ipnotizzato. L’Indovino agitò la testa in ogni direzione, come un burattino disarticolato.

    Gli uomini intorno erano paralizzati anch’essi, ma i loro sguardi scintillavano: tutti si erano identificati nel Guercio, il destino predetto dall’Indovino era anche il loro. La ferocia montò dentro ciascuno e si diffuse come un veleno incandescente: le mani strette ai foderi delle spade, i muscoli tirati, le menti imbevute della sanguinolenta pozione che l’Indovino aveva versato. Roncelin lottò per non lasciarsi contagiare. Non credeva a quelle sciocchezze, ma sentiva anche salire dentro di sé un inebriante senso di invincibilità.

    Poco lontano, dalla città risuonò un’altra volta il corno. L’Indovino si accasciò a terra. Roncelin avanzò al centro della sua truppa galvanizzata gridando con tutte le sue forze: «Alla carica, ribaldi! Senza pietà!».

    Gli uomini sguainarono le spade nella notte e urlarono in coro: «Alla carica!».

    Roncelin fece un cenno al capo degli arcieri che stava aprendo un sacco di tela. Gli uomini gli passarono davanti uno per uno e presero una sorta di camaglio rossastro. Il capo gridò: «Più veloci, diavoli». Gli uomini si infilarono i camagli, aggiustandosi sugli occhi il sottile tessuto striato di grosse venature scarlatte e costellato da escrescenze nerastre, poi si infilarono i cappucci da penitenti. Il Provenzale sorrise. Le maschere dipinte conferivano ai loro profili le sembianze di volti appena scorticati. Nella notte, il risultato era davvero perfetto. Il suo esercito di ginn era decisamente pronto a scagliarsi sulla preda.

    L’Indovino si rialzò a fatica, il volto coperto di sudore.

    Roncelin lo afferrò per il cappuccio e lo sollevò brutalmente. «Vai anche tu con gli uomini!». Si avvicinò e sentì il suo sudore acre. «E falla finita con queste diavolerie!».

    Lo stregone non rispose, ma sostenne il suo sguardo. C’era qualcosa di profondamente malsano in quell’uomo, e il Provenzale sapeva di non avere alcuna presa su di lui. Improvvisamente lo lasciò andare. I due uomini si scrutarono, poi l’inglese indietreggiando si allontanò. Roncelin credette di intravedere un sorriso, ma non ne fu sicuro.

    Infilandosi a sua volta il camaglio di carne, avanzò. Nella fossa, riconobbe il corpo della pastorella catturata dai suoi uomini la notte precedente. Era stata smembrata.

    Lui non aveva fatto nulla per proteggerla.

    Si abbassò il cappuccio sul camaglio, fu sul punto di farsi il segno della croce per quella povera ragazza, poi cambiò idea. Dopotutto anche lui era diventato un demonio, il suo camaglio da ginni non era che l’immagine della sua anima perduta.

    Perduta e dannata in Terrasanta.

    In città, il corno aveva seminato il terrore. Tutta la popolazione si era riversata sui bastioni. Le donne gemevano di paura e imploravano il Misericordioso, con i bambini attaccati alle gonne. In preda all’ansia, gli uomini tentavano di squarciare l’oscurità lanciando torce nei fossati, che per la maggior parte si spegnevano durante la caduta.

    Khoubir scosse la testa. Se i predoni avessero voluto impadronirsi della città, quello era il momento giusto: sarebbe bastata una semplice salva di frecce scagliata nel buio della notte, e il panico avrebbe spazzato via i baluardi. In un istante le donne sarebbero state calpestate, i bambini gettati nei fossati, la città distrutta prima di essere conquistata.

    Un uomo magro e alto, dai capelli neri e ondulati, con una lunga tunica bianca, si affacciò da uno dei merli per controllare la folla. L’imam Khatani distese le braccia, lasciò che calasse il silenzio, poi con la sua voce calda e melodiosa proruppe: «Fedeli. L’Onnipotente è forza e coraggio. La sua benedizione è con noi. Si facciano avanti i volontari per scendere nei fossati!».

    Khatani era un uomo senza mezzi termini: durante le sue prediche ai fedeli, declamava la legge del Profeta come un posseduto e non tollerava questioni né opposizioni. Le malelingue raccontavano che, orfano, fosse stato raccolto in strada dagli ebrei. Da allora riversava fiumi d’odio tanto contro i fedeli di Cristo quanto contro i figli di Mosè. Le autorità avrebbero dovuto scacciarlo dalla città già da molto tempo, ma la sua influenza era diventata troppo grande nei quartieri bassi.

    Khoubir lo interruppe: «C’è un’unica porta. Se la apriamo, correremo il rischio di…».

    L’imam reagì all’obiezione scrollando le spalle. «Soltanto i cani hanno paura. I veri servitori del Profeta conoscono solo il coraggio».

    Insultato, Khoubir afferrò l’elsa della spada. Il baccano lo bloccò. Ai suoi piedi un gruppo di giovani si batteva il petto urlando canti guerrieri.

    «Dodici uomini impavidi per scendere nei fossati», mugghiò Khatani.

    Diversi individui corsero subito verso l’ingresso. In un attimo, le pesanti travi che sbarravano i battenti furono rimosse e la porta si aprì sulla notte.

    A uno a uno, i compagni avevano riguadagnato il margine del bosco. Si tenevano accovacciati, gli scudi riversi al suolo per evitare i riflessi della luna, mentre i foderi delle spade erano avvolti in varie pezze per attutirne i rumori. Ognuno aveva abbassato la propria maschera, pronto all’azione. L’Indovino si teneva in disparte, la daga e il calice da cerimonia avviluppati in una pelle portata appesa a una spalla. Roncelin era rimasto da solo nella radura. Una nube si dileguò svelando il pallore della luna. La mano sinistra, colpita da un raggio, baluginò. Roncelin imprecò e girò l’anello d’oro sull’anulare. Era tutto ciò che gli restava del suo passato di cadetto. La sola eredità che suo padre, signore di Fos, gli aveva lasciato, insieme al consiglio di cercare fortuna in Terrasanta.

    Il Guercio si avvicinò. Le mani ancora tremanti, prese la borraccia che Roncelin gli tese e bevve avidamente a canna.

    «Il liquore di ginepro ti farà bene», disse Roncelin.

    «Di solito…», cominciò il vecchio prete, «di solito non bevo».

    Il Provenzale sorrise nell’oscurità. «Ti senti meglio?»

    «Non lo so…», balbettò lo sgherro.

    Un passo pesante schiacciò alcuni rami in mezzo ai cespugli. Era appena comparso Guillaume, una lanterna velata in mano. La luce tremolante gli illuminava il viso da demonio con un riflesso incendiario. Scoppiò a ridere. «È il momento dei ginn!».

    2

    Florida, isola di Key West

    Ai giorni nostri

    Erano le tre del pomeriggio e una calura umida avvolgeva la camera arredata in stile coloniale. Un ventilatore asmatico di legno scuro tentava di rinfrescare un po’, ma l’aria satura stagnava ovunque nella stanza. Di fronte al letto un’imposta chiusa lasciava filtrare tenui raggi di sole, di lato si apriva una grande finestra. In basso, dalla zona delle cucine, la «Conch Republic Radio» emetteva le sue frequenze svogliate. Sdraiati sul letto, le lenzuola leggere gettate in un angolo, Antoine e Gabrielle dormivano.

    Marcas sudava e si girava e rigirava in ogni verso. Urlò: «No!». Alzandosi in un bagno di sudore afferrò il lenzuolo per assicurarsi che tutto fosse reale. Girò la testa verso la finestra aperta sulla vegetazione lussureggiante del giardino. Si stava bene in quell’hotel di Key West, a migliaia di chilometri dalla Francia.

    Gabrielle intanto si era svegliata, gli sfiorò il braccio. «Calmati. È sempre lo stesso incubo?»

    «Sì. Il tesoro nel cielo e poi la caduta nella tomba. Quando torniamo vado da uno psicologo. C’è da diventare matti. Ne ho abbastanza di esoterismo».

    Gabrielle gli passò una mano fra i capelli. «Keep cool, siamo in vacanza…».

    Antoine si stirò, calmandosi. Gabrielle aveva organizzato tutto alla perfezione per quel viaggio improvvisato in Florida. Aereo in prima classe spaziosissimo, decappottabile affittata all’aeroporto di Miami e road trip a picco sul mare lungo la sopraelevata che attraversa e collega le isole, hotel elegante a due passi da Duval Street, spiagge idilliache con palme e sabbia finissima… Da più di dieci giorni si stavano godendo Key West e non riuscivano a immaginare di tornare in Francia. Lui aveva storto il naso quando lei aveva scelto quella destinazione. La Florida, Miami, le spiagge invase dai turisti, isole pseudotropicali rivisitate secondo l’american way of life… non era proprio il suo genere. Ma si sbagliava. Grazie all’atmosfera deliziosa e svogliata di Key West, alle tradizionali case del Sud con le verande immerse fra le palme, si era innamorato di quel posto. Gabrielle, che ci andava regolarmente quando voleva rilassarsi, sorrideva felice vedendo come progressivamente avesse abbandonato i suoi pregiudizi.

    Antoine si stirò di nuovo. Erano passati dieci mesi da quando era stato rinvenuto il tesoro dei templari nella basilica del Sacré-Cœur, ma da due settimane non faceva che sognare la volta ricoperta d’oro e di pietre preziose. Un sogno che diventava sistematicamente un incubo e lo catapultava davanti al monolito nero nel ventre della collina di Montmartre. Trasse un respiro profondo. «C’è un’altra cosa…».

    «Cioè?»

    «Quello che mi ha detto il conte Potocki al telefono dopo la scoperta. Sai, le casse abbandonate dai tedeschi alla fine della seconda guerra mondiale nel suo castello vicino Praga».

    «Lo so. La verità giace in fondo alla tomba…».

    «Be’, è proprio questo che non torna. Il tesoro era nella basilica, non sotto terra».

    «E se ci dimenticassimo di tutta questa storia?»

    «Va bene. Vieni qui».

    Gabrielle lo guardò, percorsa da un fremito. Era innamorata di quell’uomo, non c’era altro da dire. Eppure lui era proprio agli antipodi del suo ideale maschile: moro, sarcastico, testardo, molto virile e per di più sbirro, mentre a lei piacevano biondi, raffinati, e se possibile intellettuali o artisti. Oppure tipo surfisti, ma comunque biondi. Antoine era un orso, mentre a lei piacevano le deliziose mondanità parigine. Però emanava una sicurezza che non avrebbe saputo definire, una combinazione di forza e di fragilità inconfessata che lo rendeva unico e attraente. E soprattutto, fatto ancora più sconvolgente, il commissario l’aveva portata con sé in un universo oscuro, pericoloso ed eccitante. Antoine, il fratello massone, l’aveva iniziata per la seconda volta.

    La prima sera, nell’appartamento di lui, aveva subito saputo che sarebbe rimasta. Il disordine che regnava nelle stanze, la libreria alla rinfusa, la camera che dava sui giardini del Sacré-Cœur… si era subito sentita come a casa sua. Si vedevano regolarmente da quasi un anno ma avevano mantenuto ciascuno il proprio appartamento, per non accelerare i tempi. Gabrielle non aveva neanche mai incontrato il figlio di Antoine. Marcas era un animale poco socievole e non bisognava mettergli fretta.

    Quel viaggio in Florida era una tappa importante per lei: significava fargli conoscere una parte del suo universo. Key West era il suo rifugio, l’oasi verso cui scappare nei momenti di malinconia. I suoi genitori l’avevano portata lì da piccola, e grazie alla loro eredità oculatamente conservata si poteva permettere il lusso di prendere regolarmente un aereo e sbarcare in quell’angolo di paradiso. Non Key Largo, troppo grande, né Islamorada, con le sue spiagge sontuose ma senz’anima, né Tavernier, troppi pescatori… No, Key West la conquistava con la sua arte di vivere quasi all’europea, che resisteva ancora malgrado l’invasione di orde di turisti che vi si riversavano periodicamente dai transatlantici. Se Marcas avesse detestato l’isola, lei ne avrebbe sofferto molto. Non era stato così. Si era adattato velocemente, spogliandosi man mano della sua corazza di sbirro.

    «Sai cosa mi piace di questo Paese?», disse lui ironico.

    «Il sole?»

    «Non solo. Qui non si parla di crisi, di debiti, di licenziamenti di massa. Ho dato una scorsa al giornale del luogo, è tutto un niente paura, va tutto bene nel Paese delle palme da cocco. Il solo articolo negativo parla del rialzo del prezzo dell’aragosta».

    «Va tutto bene? Non esagerare. C’è crisi anche qui, ma preferiscono tirare dritto, a costo di chiudere gli occhi sulla miseria sociale, nonostante sia ben reale».

    «Comunque non è il terzo mondo. Lo sai qual è il Paese più povero?».

    Gabrielle lo guardò incuriosita, Antoine aveva questa mania di porre domande strampalate. Faceva parte del suo fascino.

    «Illuminami, fratello…».

    «Sì, sorella. È la Sierra Leone, in Africa. Nella classifica mondiale è il primo Paese in cima alla lista. L’ho letto in aereo. Hanno miniere di diamanti, spiagge splendide ancor più belle di queste, e ciò nonostante gli abitanti vegetano in una miseria indicibile, dilaniati da continue guerre civili. Avremmo dovuto donare a loro il tesoro dei templari!».

    Lei sorrise e si alzò. «Hai avvertito i tuoi superiori, adesso sta a loro risolvere la faccenda. E se andassimo verso Mallory Square? È l’ora della festa del tramonto».

    «Un rito pagano ed erotico del posto?».

    «È accanto al porto, in cima a Duval Street. La gente si raduna per il crepuscolo, il più bello del mondo».

    Antoine si alzò a sua volta e la prese tra le braccia. Tenendola stretta le diede un bacio appassionato e le sue mani scivolarono sotto il vestito di lino che lei stava cercando di infilarsi.

    Gabrielle si sentì sciogliere, ma si allontanò. «Basta, continueremo stasera. Fuori da qui, commissario, o chiamo la polizia per molestie sessuali a una donna indifesa».

    «Mmm… se mi mettono in prigione su quest’isola, ci sto».

    Lei gli indicò la porta della camera. Antoine si infilò un paio di jeans, una camicia di lino azzurro pallido e delle vecchie infradito di cuoio. Un quarto d’ora più tardi stavano risalendo Whitehead Street, che portava dritta al porto. Si era levato un vento improvviso che piegava i filari di palme lungo i marciapiedi. In cima alla strada il sole cominciava a calare.

    Gabrielle aggrottò le sopracciglia guardando il cielo. «Temporale in vista».

    Antoine le strinse la mano. «Ma scherzi? Il meteo prevedeva bel tempo per tutto il giorno».

    Le prime gocce caddero mentre passavano davanti a un’immacolata chiesa metodista. Nuvoloni scuri erano comparsi dal nulla come mostri, il sole era fuggito senza preavviso.

    Gabrielle scosse la testa. «Intuito climatico, vedi? Tra un minuto diluvia».

    «Ok, tutti possono sbagliare», borbottò Antoine.

    Le gocce si fecero più grosse. Gabrielle si guardò intorno e indicò alla sua destra, in direzione di Sunset Street. «Ci rifugeremo da Sloopie’s Joe. Ci vediamo là, mister Meteo». Si tolse i sandali e, davanti allo sguardo sbalordito di Antoine, si precipitò dall’altro lato della strada.

    «Aspetta! Cos’è Sloopie’s Joe?».

    Gabrielle correva in uno slalom veloce e sapiente in mezzo ai gruppi di passanti. Antoine non riusciva a raggiungerla. Quando arrivarono a Duval Street, l’arteria più animata di tutta l’isola, la pioggia si trasformò in acquazzone. I turisti rientravano precipitosi nei negozi, i venditori ambulanti di noci di cocco riponevano i loro teli. Marcas era fradicio, la camicia di lino incollata addosso, i pantaloni zuppi come uno straccio. Il violento temporale aveva formato un velo opaco. Gli sembrò di vedere Gabrielle infilarsi in un edificio bianco con tre ingressi, su cui si stagliava una enorme scritta nera: Sloopie’s Joe.

    Aspettò che passasse un autobus, poi attraversò Duval Street e si scapicollò dentro mentre fuori cominciava a tuonare. L’interno del bar era grande come un hangar, ma ricolmo di comitive di americani in cappellino e t-shirt colorati, con grandi boccali di birra in mano. Una musica assordante si propagava in ogni direzione, una combinazione ben rodata di blues e country.

    Tentò di aprirsi un varco tra gli avventori che urlavano al ritmo della band di musicisti sulla pedana in fondo alla sala. Sul bancone servivano mojito in bicchieri talmente grandi da sembrare vasi. Antoine afferrò il più grosso e allungò un biglietto da cinque dollari al barman. Mentre tentava di farsi strada si scontrò con un uomo piuttosto alto vestito da pescatore: barba bianca, carnagione rubiconda, sigaro tra i denti e maglione dolcevita da pseudo lupo di mare. Per un istante Antoine pensò di avere un’allucinazione… il tipo era il sosia perfetto di Ernest Hemingway, il cui faccione peraltro spiccava in fondo alla sala in un dipinto che campeggiava proprio sopra i musicisti.

    L’uomo gli assestò una pacca sulla spalla, affondando con la mano nella camicia fradicia. Ernest alzò la sua pinta. «Hi guy! Cheers!».

    Antoine lo imitò con il vaso di mojito e mandò giù un lungo sorso. L’alcol gli bruciava in gola. Gli tornò in mente un editore suo amico, Pierre, che aveva un vero e proprio culto per il grande scrittore. Schivò la seconda pacca e si accorse che vicino al palco Gabrielle stava discutendo con un ragazzone dai capelli neri, con un maglione a righe bianche e nere e un berretto un po’ ridicolo. Il tipo la prendeva per le spalle ridendo. Antoine continuò ad avanzare in mezzo alla folla. Intorno c’erano solo uomini con la barba bianca. Alti, bassi, vecchi o giovani, con o senza il naso rosso da alcolizzati, e pance portate più o meno con disinvoltura. Cloni dello scrittore, nonché celebre alcolista, sparsi ovunque.

    Gabrielle gli fece un cenno. Antoine si fece largo nella folla di Ernesti e la raggiunse sbuffando. Man mano che si avvicinava al palco, notò che i cloni ringiovanivano. Un altro gruppo di persone lo divideva da Gabrielle, stesso aspetto ma stavolta con capelli neri o biondi e grossi baffi d’ebano al posto della barba.

    Antoine si fece coraggio e scostò senza riguardo i giovani Ernesti. Giunto vicino a Gabrielle e all’uomo in maglione, dovette urlare per farsi sentire sopra i vocalizzi del cantante. «È un delirio questo Sloopie’s Joe! Avresti dovuto avvertirmi, mi sarei mascherato anch’io da Capitan Findus della letteratura».

    Lei gli rispose gridando: «Sono le eliminatorie per il concorso annuale di sosia di Hemingway! Lui è Ponk, un… amico di vecchia data».

    L’uomo lasciò Gabrielle e si girò verso Marcas. Anche lui gli assestò una bella pacca. Antoine si disse che doveva essere un’abitudine locale e gliene rese un’altra a sua volta. Sentì la montagna di muscoli sotto al dolcevita. L’uomo aveva gli occhi lucidi e l’aria di essere ubriaco. Si scolò un boccale di Bud davanti a loro. «Buddy! Come on, let’s drink!».

    Antoine lo imitò e finì il suo mojito. Cominciava a girargli la testa, ma si sentiva bene. Avrebbe voluto rispondergli in qualche modo, ma il tipo lo ignorò del tutto e tornò a concentrarsi su Gabrielle accostandosi a lei sempre di più. La ragazza guardò Antoine nervosa.

    «È un amico di che genere il tuo Ponk?», gridò Marcas, unendosi ai due.

    «Un ex. Non ci vediamo da un anno».

    L’Hemingway versione Per chi suona la campana intercettò il loro sguardo e diede una spinta ad Antoine con il suo boccale. «Go to hell, asshole!».

    Gabrielle lo trattenne. «Ponk, no! He’s a friend». Poi, rivolta a Marcas: «Lascia stare, è un po’ brillo. Sale sul palco tra cinque minuti per la prima selezione e si eclissa».

    Gli stava chiedendo di battere in ritirata. In teoria, aveva ragione. Il tipo era più grosso di lui, ma d’altro canto non avrebbe lasciato il posto a quell’idiota baffuto strafatto di rum. Quella era la sua donna, punto, e avrebbe sistemato a dovere Hemingway. Gli bussò sulla spalla. «Hey, Ponk! She’s my girlfriend!».

    L’uomo si irrigidì e sbottò verso Gabrielle: «It’s true?».

    La francese balbettò: «Yes… yes, but…».

    Hemingway urlò: «Bitch!» e si rigirò sferrando un pugno in faccia ad Antoine con tutte le sue forze.

    Marcas finì contro un tavolino dove erano stravaccati altri tre Hemingway. Si rialzò, stordito, ed ebbe appena il tempo di schivare Ponk mentre gli si gettava contro. Quindi gli fece uno sgambetto, sornione, e l’americano volò contro i suoi cloni che stavano cercando di rialzarsi. Antoine schivò un pugno di un altro baffuto, e si rese conto che tutt’intorno vari Hemingway ben piazzati facevano onore alla memoria del loro idolo. Mentre volavano pugni in tutte le direzioni, i musicisti elettrizzati attizzavano gli animi.

    Antoine tese la mano a Ponk per aiutarlo a rialzarsi, e quando fu in piedi gli sferrò un gancio. Sentì le dita scrocchiare contro lo zigomo dell’americano. «Hey! Ponk! Per chi suona il gong, hai presente?». Poi prese Gabrielle per un braccio e strillò felice: «Fantastico, una rissa da vecchio western! Meglio di un’adunanza massonica! Mi piace sempre di più questo Paese!».

    «A me no! È ridicolo. Ponk è due volte te, ti ridurrà in poltiglia. Andiamocene».

    Antoine sentì il cervello ribollire sopra il naso massacrato. Il sangue gli colava fino al mento. «Ah no, era da tempo che non prendevo una sbornia così. Davanti a questi imbecilli io rappresento la Francia!».

    «Basta! Sei completamente sbronzo». Gabrielle lo tirò via trascinandolo in mezzo alla mischia.

    Ponk, urlando, tentava di raggiungerlo. La rissa si stava diffondendo in tutto il bar. Anche le donne si prendevano a pugni. I due francesi avanzavano passo a passo, schivando bottiglie vaganti e lanci di oggetti d’ogni sorta.

    Antoine esplose, completamente ubriaco: «Ti sei scopato uno che si chiama Ponk. Se lo sapessero le tue sorelle massone sarebbe un guaio… Ponk e Gabrielle, la coppia dell’anno!».

    Lei non rispose e continuò a guidarlo verso l’uscita.

    Fuori non pioveva più, un raggio di sole illuminava la strada. Le sirene della polizia stridevano in Duval Street. Gabrielle con la coda dell’occhio vide arrivare a tutta velocità quattro macchine bianche con una riga nera. Gli afferrò una mano e se lo tirò dietro in un negozio di articoli da spiaggia.

    Marcas prese un asciugamano e si tamponò il naso ferito. «Credi che potrò chiedere a Ponk l’indirizzo di un chirurgo estetico?».

    Gabrielle osservava in silenzio le pattuglie di polizia invadere lo Sloopie’s Joe. «Cazzo, se ti beccavano ti spedivano davanti al giudice della contea. Sei proprio uno stupido».

    Antoine rideva. Aveva preso da sua madre, quando beveva era felice. «Non sanno con chi hanno a che fare. Sono un commissario di polizia e ho scoperto il tesoro dei templari! Sissignora!».

    Due furgoni erano appena arrivati a bloccare tutta la strada.

    «Resta qua, Antoine. Chiedo alla commessa se c’è un’uscita sul retro».

    Antoine crollò su una poltrona vicino ai camerini. Due bambole stavano tentando di infilarsi degli shorts cortissimi. Antoine non riuscì a trattenersi dal guardar loro il sedere. I modelli erano firmati Bitch on the Beach. L’ideale dopo una zuffa in un saloon. Una bella sbronza, quella sì che era vita.

    Gli vibrò il cellulare in tasca. Prese il telefono e rispose.

    Era una voce di donna, da lontano. «Commissario Antoine Marcas?»

    «Sì, sono io, o almeno quel che ne resta…».

    «Le passo il direttore generale della polizia».

    Antoine guardò il cellulare, colto da una risata irrefrenabile.

    Dopo il clic parlò una voce grave. «Buongiorno, commissario. Spero di non disturbare le sue vacanze in Florida».

    «No, affatto. Anzi, capita proprio a proposito. Ho appena scatenato un incidente diplomatico. Ho spaccato il muso a Hemingway! Mi mandi la portaerei Charles de Gaulle al largo di Key West». Antoine rideva. Gocce scarlatte costellavano l’asciugamano con sopra il disegno di un delfino azzurro. «Piscio sangue su Flipper! Ahahah!».

    «Tutto bene, commissario?»

    «L’hai detto, caro mio! Mai stato così bene. Penso che chiederò asilo da queste parti. La Francia mi ha scassato così tanto che…».

    «Marcas, basta».

    «Ok, capisco, ti fa strano che un subordinato ti tenga testa. C’è un libro di Ernest che non credo tu conosca. Avere e non avere. Eh sì, io ce l’ho. E poi scusa, ma chi mi dice che tu sei il direttore della polizia? La chiamata è anonima. Sei forse un Hemingway francese?».

    Mentre Antoine sogghignava, Gabrielle gli strappò di mano il cellulare fulminandolo con lo sguardo. «Non so chi sia al telefono, ma Antoine non sta bene».

    «Mandalo al diavolo», urlò Marcas, «e ti compro un paio di shorts come queste signorine. Magari rosa, pink. In effetti potrebbero piacere al tuo Ponk, dei pantaloncini così. Insieme potreste giocare a pink Ponk». E intanto rideva come un pazzo.

    Gabrielle si allontanò.

    All’altro capo del filo, la voce si stava spazientendo. «Dica al suo amico che le vacanze sono terminate. È atteso a Parigi seduta stante. Domattina alle sette atterrerà a Key West un jet inviato dal consolato di Miami per portarlo all’aeroporto internazionale. Da lì si imbarcherà su un volo Air France che decolla alle undici. Può venire anche lei, il console metterà a sua disposizione un biglietto supplementare».

    Gabrielle si sentì soffocare. «Ma se le meritava, queste vacanze! La Francia è in debito con lui, ha scoperto un tesoro».

    Il direttore generale della polizia la interruppe. «La faccenda non è ancora chiusa. È proprio per questo che deve rientrare. Immediatamente».

    3

    Terrasanta, Al Kilhal

    Vigilia di Ognissanti 1232

    Un cane randagio ululò nella notte. Roncelin alzò la testa e osservò la luna sepolta sotto le nuvole. L’aria era secca, molto più che nella Provenza della sua infanzia. Lì, in terra d’Oriente, il suo corpo era segnato, scurito dalla calura e dal vento. Se fosse tornato nel suo Paese, nessuno lo avrebbe riconosciuto. A Roncelin non piacevano i ricordi. Tuttavia, nell’oscurità, la sua vita di una volta lo prendeva con una morsa alla gola. Il passato aveva fame.

    Si alzò. Sotto gli alberi, l’Indovino aspettava. Roncelin si avvicinò. «Non mi piace che tu predica il futuro appena prima di un attacco».

    «Era una richiesta degli uomini. Hanno bisogno di essere rassicurati sulla loro sorte».

    «Non mi faccio abbindolare dalla tua magia. Vedi di restare al tuo posto».

    L’Indovino alzò la mano fasciata e se la passò sulla fronte. «È una minaccia, Provenzale?»

    «No, un consiglio, e non ne do mai più di uno. In seconda battuta passo direttamente all’ascia».

    Con un rapido gesto, l’Indovino scacciò l’oscurità. Strizzò gli occhi. Il suo volto era mutevole sotto i raggi della luna. «Calmati. Pensa a tutte le ricchezze che ci attendono dietro queste mura. Non è il momento di litigare. Gli uomini hanno bisogno di temere una forza, che sia divina o… infernale».

    Roncelin si rilassò. L’inglese aveva ragione. Una compagnia deve avere una coerenza che vada oltre la semplice somma degli appetiti individuali. La sua autorità era più che fragile, e chiunque tra quei briganti avrebbe potuto tagliargli la gola mentre dormiva e prendere il suo posto. Il timore di quell’ascia, che teneva sempre accanto, gli assicurava comunque sonni tranquilli.

    E poi, era stato l’Indovino a scegliere Al Kilhal come obiettivo. E se tutto andava bene, all’alba sarebbero stati tutti ricchi.

    Dall’alto delle mura, l’imam sorvegliava la manovra e incoraggiava i suoi sostenitori. Su ordine di Khoubir, le porte erano state richiuse ed era stato evacuato il cammino di ronda. La folla si riversava nelle strade, in attesa di notizie. Khoubir aveva raddoppiato il numero delle guardie. In cima a ogni torre arcieri scrutavano l’orizzonte, pronti a replicare a qualunque diversivo. Lo stato di allerta rendeva inquieta la popolazione. Si udivano i mercanti manifestare la loro collera. Per la maggior parte erano fuggiti da Gerusalemme, ricaduta sotto il dominio dei crociati, e si fidavano della gente del luogo meno che delle bande di briganti. Criticavano soprattutto l’imam, rozzo e incolto, che si divertiva ad alimentare le tensioni tra gli autoctoni e i rifugiati. In compenso i nativi si lamentavano di quei ricconi che si accaparravano le case più belle e arraffavano il cibo migliore a prezzo d’oro.

    «Perlustrate i bastioni!».

    Malgrado gli ordini ripetuti di Khatani, i volontari avanzavano con prudenza. Con le porte chiuse, ora il coraggio veniva meno rapidamente. Gli antichi fossati erano ricoperti di una spessa vegetazione di rovi e fitti arbusti. Gli uomini giravano intorno, ma non osavano penetrare in quel groviglio vegetale.

    «Per di qua!».

    Uno degli esploratori aveva appena aperto una pista nel bosco. Tra i rami, che erano spezzati ad altezza d’uomo, si nascondeva una buca. I volontari si avvicinarono.

    Una traccia di sangue insozzava la terra.

    Guillaume avanzava strisciando furtivo, senza far rumore. Malgrado fosse corpulento, si schiacciava al suolo irregolare nascondendosi nella notte. Su richiesta di Roncelin, era ripartito in perlustrazione. Il Provenzale era prudente: non avrebbe attaccato finché lo stratagemma non avesse funzionato. D’un tratto Guillaume fu sul punto di lanciare un urlo, un rovo lo aveva appena ferito alle labbra. Si fermò all’altezza di una folta boscaglia e si nascose come un predatore. Alcuni uomini vociferavano nei fossati.

    Alzò la testa. Dall’alto delle mura rischiarate dalle torce, gli arcieri scrutavano l’oscurità. Guillaume sorrise compiaciuto: non potevano vederlo né indovinare che fosse lì. Adorava quella sensazione di impunità. L’Indovino gli aveva spiegato che il potere era come un’amante avida, andava sempre dall’uomo che poteva soddisfarla. Guillaume non aveva compreso fino in fondo, ma aveva concluso che quell’ardore che lo prendeva un attimo prima di uccidere fosse una buona cosa. E nell’istante in cui quella sensazione gli scorreva nelle vene e in tutto il corpo, godeva di piacere.

    Un grido lo riportò alla realtà. Nei fossati, gli uomini si stavano riunendo. Si udivano scoppi di risate che si propagavano lungo le mura. Guillaume cominciò a indietreggiare. Prima di riguadagnare il margine della foresta, gettò un’ultima occhiata. I soldati alzavano le braccia in segno di vittoria. Guillaume si leccò le labbra ferite. Amava il sapore del sangue.

    Khoubir fece aprire la porta e si precipitò fuori. I fedeli dell’imam ringraziarono Allah battendosi il petto. Alcuni crollavano a terra ridendo, altri invocavano la famiglia. Khoubir tentò di sbarrare loro il passo, ma presto si arrischiarono alcune donne seguite da bambini che gridavano di gioia.

    Anche diversi mercanti varcarono la soglia. Uno di loro, che portava una catena d’oro sul petto, apostrofò Khoubir: «Perché hai suonato l’allarme? Non sarai mica pazzo ad aver spaventato tutta la città?».

    Il capo delle guardie stava per rispondere quando la voce di Khatani risuonò alle sue spalle: «Khoubir è un codardo. Appena sente il minimo rumore chiede aiuto. Come un bambino che la notte piange e chiama la balia».

    Risate accompagnarono il tono beffardo dell’imam.

    Khoubir stava per replicare, poi ci ripensò. Tra la folla riconobbe alcuni dei suoi arcieri che sogghignavano a loro volta. «Cosa state facendo qui? Non dovreste essere di guardia?».

    L’imam lo interruppe. «Chi sei tu per dare ordini? Hai paura perfino della tua ombra…».

    «Ora basta», ruggì il capo delle guardie. «Ho sentito dei passi e ho dato l’allarme».

    «Passi di uomo?». Khatani fece segno ai suoi che si trovavano sul limitare del bosco.

    Khoubir non esitò. Era di sicuro un uomo quello che aveva sentito aggirarsi ai piedi delle mura. «Per Allah, sì, lo giuro!».

    «Allora vergognati», inveì l’imam.

    Uno degli uomini mandati in avanscoperta si avvicinò. Sulla spalla portava un fardello che gettò a terra imprecando. Si diffuse un odore di morte. Khoubir si precipitò, con la fiaccola in mano.

    Sotto la luce apparve un maiale morto grondante di vermi.

    «Tenetevi pronti», annunciò Roncelin.

    Saltellando come un animale, Guillaume si riavvicinava al margine del bosco. Alzò entrambe le mani e le strinse sotto la gola.

    A quel segnale, Roncelin annuì e cominciò a dare ordini. «Gli arcieri a sinistra».

    La metà degli uomini scivolò in silenzio sulla distesa dei cespugli, con l’arco in mano e la freccia tra i denti, pronti a tirare.

    Con un ultimo colpo di reni, Guillaume atterrò ai suoi piedi. «La porta è aperta».

    Roncelin si rigirò l’anello attorno all’anulare come ogni volta che doveva prendere una decisione. «Descrivimi la scena».

    Guillaume riprese a respirare. Se la sua intelligenza era limitata, la sua memoria era tuttavia minuziosa, come cera vergine in cui il ricordo conservava tutto il suo rilievo. «Prima i soldati con il loro capo… dietro ci sono uomini disarmati, probabilmente mercanti, e davanti alla porta le famiglie».

    «Molte?».

    Con un sorriso a trentasei denti, Guillaume sogghignò: «Troppe per entrare tutti insieme contemporaneamente».

    Roncelin picchiettò sulla spalla del compagno. Un bel lavoro davvero. Quindi si girò e impartì gli ordini alla squadra a cavallo dietro di sé. «Voi prendete a destra. In basso c’è un uliveto proprio ai piedi della città. Alle prime grida, forzate il passaggio».

    Khoubir era un soldato, non un oratore. Stupefatto, guardava l’imam portato in trionfo dai suoi sostenitori mentre arringava la folla. Intanto i bambini sputavano sul cadavere del maiale ricoprendolo di maledizioni, le donne si stringevano attorno al nuovo profeta. I mercanti stessi, sentendo girare il vento, lo ascoltavano ostentando un falso rispetto, la mano destra sul petto.

    Uno dei due, Boufeda, si chinò verso Khoubir. Era uno dei mercanti più rispettati della città, aveva fatto affari con i navigatori italiani, gli uomini dalla pelle scura della regione di Kush e anche con gli ebrei che vivevano quasi reclusi nel loro quartiere. Parlava poco, il giusto. «Se l’imam non fosse prima di tutto un uomo di Dio, giurerei che c’entra qualcosa con questa pagliacciata».

    «Khatani è come un cane affamato, farebbe qualsiasi cosa per appagare la sua sete di potere».

    Un lungo grido di gioia

    Enjoying the preview?
    Page 1 of 1