La più grande battaglia di Alessandro Magno
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A Gaugamela, nel 331 a.C., ebbe fine il potere della gloriosa dinastia iranica degli Achemenidi, che aveva creato un impero vasto dall'Indo al Mediterraneo.
Grazie a una delle più brillanti tattiche militari di tutti i tempi, il giovane re macedone Alessandro, con un’armata di neppure 50.000 uomini, sconfisse un esercito stimato in più di un milione di anime. Tra le sterpaglie della piana di Arbela tutti i popoli dell’Asia sottomessi all’impero persiano affrontarono le falangi greche e macedoni e la cavalleria pesante dei “Compagni” di Alessandro. Inutilmente. Le cariche della cavalleria persiana, la massa della fanteria e la ferocia dei carri falcati del re dei re Dario III nulla poterono contro la brillante manovra di avvolgimento ideata da Alessandro e la potenza della sua falange. Il sogno dei Greci, vendicare l’invasione persiana della loro terra avvenuta nei primi decenni del V secolo a.C., era stato realizzato da un ragazzo di venticinque anni. Dopo Gaugamela il mondo non fu più lo stesso: la vittoria di Alessandro e le sue conquiste contribuirono a fare della cultura greca una cultura universale.
Il capolavoro di Alessandro Magno.
Una delle più brillanti tattiche militari di tutti i tempi
• l’ascesa della Macedonia
• l’impero degli Achemenidi nel III secolo a.C.
• la fulminea campagna di Alessandro
• la battaglia di Gaugamela minuto per minuto
• le conseguenze della vittoria di Gaugamela
• l’armata di Alessandro il Grande
• l’armata di Dario III Codomanno
• l’armamento dei greci e dei macedoni all’epoca di Alessandro
• l’armamento dei guerrieri achemenidi
• il campo di battaglia ieri e oggi
Strategia perfetta. Tattica innovativa.
Il capolavoro di un grande condottiero
Raffaele D'Amato
è nato a Bagnolo Piemonte nel 1964; giurista di formazione, ha conseguito anche titoli accademici nel campo della storia e dell’archeologia romana e bizantina. Collabora con riviste di prestigio, istituti storici e archeologici e università italiane e straniere. Ha pubblicato diversi libri sulle armi in Grecia nell’età del bronzo, sull’antichità e sull’alto Medioevo. Dal 2010 svolge un dottorato in Archeologia romana presso l’Università di Ferrara. Con la Newton Compton ha pubblicato La più grande battaglia di Alessandro Magno, La battaglia delle Termopili e Le grandi dinastie che hanno cambiato la storia.
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La più grande battaglia di Alessandro Magno - Raffaele D'Amato
La battaglia
che costò un impero
Tel Gomel, la casa del cammello
in arabo, è un piccolo villaggio a fianco del fiume Bumodus, a circa settantacinque chilometri da Arbela, oggi a circa venticinque miglia a nord-est di Mosul, nell’odierno Iraq. È in questa località, conosciuta come Gaugamela nell’antichità, situata davanti alla rovine della grande Ninive, che nel 331 a.C. ebbe fine il potere della gloriosa dinastia iranica degli Achemenidi, creatrice di un vasto impero dall’Indo al Mediterraneo. Un giovane re macedone, Alessandro, con un esercito di circa quarantasettemila uomini, con il quale aveva intrapreso la conquista dell’impero persiano, sconfisse, grazie a una delle più brillanti tattiche militari della storia, un esercito che fu stimato, nei tempi antichi, forte di più di un milione di uomini. Tra le sterpaglie della piana di Arbela tutti i popoli dell’Asia sottomessi ai Persiani affrontarono, con i loro costumi multicolore, le falangi greche e macedoni e la mitica cavalleria tessala e macedone di Alessandro. Inutilmente. Le cariche della cavalleria persiana, la massa della fanteria e la ferocia dei carri falcati nulla poterono contro la brillante manovra di avvolgimento ideata dal Macedone e la potenza della sua falange. La battaglia consegnò al giovane re di Macedonia il dominio di tutta l’Asia, ponendo termine, dopo tre secoli, al potere assoluto della dinastia degli Achemenidi. Il sogno dei Greci, di vendicare l’invasione persiana della loro terra avvenuta nei primi decenni del V secolo a.C., era stato realizzato da un ragazzo di circa ventiquattro anni. Dopo Gaugamela il mondo non fu più lo stesso. La vittoria di Alessandro e le sue conquiste contribuirono a fare della cultura greca una cultura universale, le cui radici, innestatesi in tutto l’Oriente, formarono una koinè culturale di grande respiro, che lasciò le sue impronte nell’arte, nella politica e nella cultura materiale di tutti i popoli facenti parte dell’immenso impero. Dal canto suo, la conquista dell’impero degli Achemenidi trasferì in Alessandro l’idea persiana dell’impero universale, non più legato a confini etnici o territoriali, ma alla figura di un grande, unico sovrano investito del dominio del mondo dal favore e dal potere divino. Un concetto che, oltre a permeare di sé i regni ellenistici che si formarono dopo la morte del grande Macedone, venne ereditato dall’ecumene mediterranea di Roma, divenendo la base del suo impero millenario, che da Alessandro prese ispirazione e modello. Alessandro è una di quelle figure che attraversano la storia, l’emblema di tutta una serie di eventi ed emozioni su cui si fondò e si forgiò il carattere dell’uomo occidentale moderno.
L’ascesa
della Macedonia
Filippo il Macedone
Una terra dura, rocciosa, ma anche ricca di vegetazione e olivi. Una terra di foreste e monti, ma anche di ampie e fertili pianure, compressa fra l’Illiria a ovest, la Tracia a est, la terra dei Peoni a nord. La Macedonia, regione situata nel nord della Grecia, in cui il mito e la leggenda echeggiavano le gesta di antichi re, sepolti nel cuore della loro terra con le loro maschere d’oro e i loro carri di bronzo, in tombe vistosamente dipinte: Carano, Alessandro, Perdicca, Archelao, la dinastia degli Argeadi, che il mito diceva provenire da Argos Orestikon, città fondata da Oreste, della schiatta di Agamennone.
Gli uomini che la abitavano si consideravano Greci, anche se la loro origine era forse il risultato di incroci di Traci, Greci e Illirici. Questi duri allevatori, pastori e contadini parlavano comunque una sorta di dialetto greco e partecipavano alle Olimpiadi (in cui solo le stirpi di origine greca potevano essere accettate). Abituati alla lotta e al bere, erano in guerra continua con i Traci e le tribù illiriche che circondavano il loro Paese. Nel IV secolo a.C., quando il loro più grande re, Filippo II (359-336 a.C.), iniziò l’espansione che avrebbe fatto le fortune della Macedonia, avevano una élite dominante completamente ellenizzata, composta da stirpi (ghéne) di latifondisti esperti di ippologia e abili combattenti a cavallo, nonostante la maggioranza della classe rurale fosse meno soggetta all’influenza culturale e materiale delle città greche. Questa ellenizzazione era stata favorita dalla presenza, lungo la costa della Macedonia, di colonie ateniesi, che aveva incentivato il commercio e l’industria, permettendo una maggiore penetrazione della cultura greca.
Eppure molto spesso i Greci chiamavano barbari i Macedoni, che non consideravano del tutto parte della loro etnia, come chiamavano barbari tutti coloro che non appartenevano alla koinè greca, per primi gli orientali e soprattutto i Persiani. Quei Persiani che in oriente avevano costituito, sotto la dinastia degli Achemenidi, un impero immenso, che dall’Asia Minore si estendeva fino ai monti dell’Afghanistan e alle rive dell’Indo. I Greci e i Persiani sin dal VI secolo a.C. si contendevano il predominio dell’Asia Minore, e avevano combattuto guerre sanguinose sullo stesso territorio greco, quando le armate di Serse e Dario l’avevano invaso ed erano state fermate a Maratona (490 a.C.), Salamina e Platea (480-479 a.C.). Ma i Greci, e in special modo gli Ateniesi, non avevano mai dimenticato la terribile offesa che i Persiani di Serse avevano arrecato ad Atene, città simbolo della libertà greca, saccheggiando e profanando il tempio di Athena Parthenos, poi splendidamente ricostruito dal grande Pericle. Un’armata greca alla conquista del vasto impero persiano, questo era il sogno di generazioni di Greci sin da quella data infausta del 480 a.C. Tuttavia l’eterna divisione fra le poleis greche, la guerra fratricida fra Sparta e Atene, o meglio fra oligarchia aristocratica e oligarchia democratica, avevano reso impossibile l’unione della Grecia sotto un unico sovrano e la realizzazione di un tale sogno. Prima Atene, poi Sparta e Tebe, avevano fallito nel tentativo di dare alla Grecia una parvenza di unità.
La piccola Macedonia era stata ai margini di questa lotta fra potenze. A dire il vero il salvatore dei Greci a Platea era stato proprio Alessandro I Filelleno (494-454 a.C.), re di Macedonia, che, nonostante la sua alleanza con i Persiani, non aveva esitato a rivelare al generale spartano Pausania le intenzioni di attacco dei Persiani, evitando la sorpresa ai Greci e consentendo loro una grande vittoria contro l’esercito del satrapo Mardonio, generale di Serse. Ma nelle contese successive la Macedonia non aveva avuto alcun ruolo né a favore né contro le città greche o l’impero degli Achemenidi. In parte questo era dovuto alla sua posizione geografica, che la rendeva poco interessante dal punto di vista strategico, in parte all’accorta politica dei suoi re, che avevano tenuto un atteggiamento di amicizia nei confronti della Persia ed erano intervenuti contestualmente a fianco ora di Atene ora di Sparta nelle varie contese delle poleis. Quando nel 386 a.C. queste due città avevano concesso ignominiosamente il dominio delle città greche dell’Asia Minore alla Persia, in cambio del riconoscimento dei loro diritti, la Macedonia non aveva aderito al trattato.
Non che i rozzi pastori macedoni non fossero una razza guerriera. All’apice del conflitto tra Atene e Sparta il re di Macedonia Perdicca II (454-413 a.C.) aveva messo piede nella penisola calcidica, procurando alla Macedonia l’agognato accesso al mare. Archelao (418-399 a.C.) era considerato da Tucidide il fondatore della potenza militare macedone, colui che – pur imbevuto di cultura greca e amante dei grandi filosofi – aveva sviluppato la leggendaria cavalleria macedone e creato la fanteria, gettando le basi per l’esercito che avrebbe concesso a Filippo II di conquistare la Grecia. L’ascesa della Macedonia subì un breve arresto quando uno dei successori di Archelao, Perdicca III (365-359 a.C.), perse la vita e quattromila uomini in battaglia contro gli Illiri, mentre il Paese cadde sconvolto nella guerra civile. La classe aristocratica macedone, turbolenta e orgogliosa, aveva visto il succedersi nel giro di quarant’anni di nove re, tutti assassinati o deposti a seguito di congiure o complotti.
Nel 358 a.C. Filippo II, allora solo reggente del reame per conto del nipote Aminta IV, venne riconosciuto re dall’esercito macedone e fissò la sede del suo governo a Pella, a circa venti miglia a nord del Golfo Termaico. Filippo aveva allora ventitré anni. Un uomo forte, amante dello sport e delle donne come del vino, un uomo che non rifiutava alcun piacere, violento ma abile, di una forza fisica e di un coraggio senza pari, paziente e astuto. Da giovane era stato ostaggio dei Tebani e del grande Epaminonda, e aveva compreso l’importanza della cultura greca, apprendendo altresì le nozioni fondamentali dell’arte militare.
Il nuovo re si adoperò subito per porre il suo Paese in grado di resistere ai ripetuti attacchi di Illiri e Peoni. Dopo aver consolidato il suo potere sull’intera Macedonia ed esteso i suoi domini fino alla valle del fiume Strimone nella Tracia occidentale, Filippo si propose di realizzare l’obiettivo primario della sua politica estera, e cioè il dominio politico di tutte le città-Stato greche. Dopo aver riformato l’esercito macedone e creato una armata permanente altamente specializzata, il cui nucleo si basava sulla riforma della falange, Filippo (letteralmente Colui che ama i cavalli
) si dedicò nei venti anni successivi a trasformare la Macedonia nel primo degli Stati greci. In seguito rinforzò la sua egemonia sulle città greche del Nord e sui territori dall’Adriatico al Mar Nero. Attraverso una politica fatta di guerre feroci, di abile diplomazia e di opportunismo politico, con la ricchezza fornitagli dalle miniere d’oro e d’argento della Tracia (le miniere del monte Pangeo fornivano qualcosa come mille talenti annui¹), Filippo fu in grado di creare un esercito ben armato e allenato con cui estese gradualmente la sua sfera di influenza e di dominio su tutta l’Ellade, imponendo ai Greci quell’unità politica che non avrebbero mai potuto raggiungere da soli. Molti greci bramavano, nella divisione generale delle loro città, un uomo forte, un despota illuminato, che avrebbe saputo far rivivere il loro sogno sublime di armonia politica tra le poleis. Nella disastrosa frammentazione della Grecia, il pericolo dell’espansione macedone non venne subito notato, fino a che non fu troppo tardi.
La politica panellenica di Filippo aveva suscitato sia consensi che inimicizie pericolose. Se l’oratore ateniese Eschine prediligeva una tendenza filomacedone, il suo concittadino Demostene aveva da sempre ostacolato Filippo, pronunciando contro il re famose orazioni poi passate alla storia come Filippiche
. Demostene, oratore abile e appassionato, divenne il difensore della libertà delle città greche. Era una delle poche voci che si levava a tutela della loro autonomia. Il suo avversario Isocrate polarizzava invece attorno a sé le fazioni in favore di Filippo, pur mirando agli interessi della patria.
La veemenza di Demostene ebbe alla fine la meglio, e un esercito ateniese si diresse a nord, presto raggiunto dal battaglione sacro degli alleati tebani, per fermare l’avanzata di Filippo il Barbaro
. La vittoria di Cheronea, nel 338 a.C., sopra le forze coalizzate di Atene e Tebe, diede a Filippo il predominio di fatto e di diritto su tutta la Grecia. Era il primo di settembre: circa trentamila uomini per parte si affrontarono in questa piana della Beozia. Filippo comandava l’ala destra del suo schieramento. Il macedone, dopo aver messo bene a punto la sua strategia, ordinò alle truppe scelte (gli hypaspistai) una ritirata fittizia, attirando gli Ateniesi che li inseguivano su un terreno meno favorevole. L’ala sinistra macedone attaccò con veemenza: non uno dei trecento componenti della Banda Sacra di Tebe uscì vivo dal campo di battaglia, mentre gli Ateniesi non poterono reggere la bravura militare della nuova armata macedone organizzata da Filippo. Il re contrattaccò avanzando a tenaglia sul fianco destro: l’oceano di lance della falange scompaginò i loro schieramenti, e gli orgogliosi Ateniesi, Demostene in testa, si diedero alla fuga. La disfatta era stata così cocente che addirittura Isocrate, ormai quasi centenario e piangendo la rotta dei suoi concittadini, si lasciò morire di fame dalla vergogna.
Filippo non volle calcare la mano sui vinti. Stando alle fonti antiche, la sua grandezza fu evidente anche nel modo in cui celebrò la vittoria, rimanendo serio e composto durante i festeggiamenti, come se lamentasse l’inutile spargimento di sangue greco cui era stato costretto. Liberò i duemila ateniesi prigionieri e pretese da Atene, in cambio dell’indipendenza e della libertà dei suoi cittadini, la rinuncia ai possedimenti in Tracia e nella penisola calcidica, oltre naturalmente allo scioglimento della sua Lega marittima. Con i Tebani fu più duro, perché in un primo tempo erano stati suoi alleati, e giustiziò o inviò in esilio senza pietà i loro maggiorenti; li costrinse a riscattare a caro prezzo non solo i prigionieri, ma anche i morti! I prigionieri vennero venduti come schiavi e una guarnigione macedone occupò la cittadella di Tebe.
Sparta rimase da parte, e un congresso di tutti gli Stati greci a Corinto, rapidamente convocato dal re macedone (Lega di Corinto), riconobbe nel 337 a.C. Filippo come il leader (hégémon) della Federazione ellenica nella guerra con la Persia, generale con pieni poteri di tutte le forze unite greche e macedoni. Questo titolo non era stato creato appositamente per lui, ma era stato conferito nel passato a un altro famoso personaggio, Alcibiade, quando la situazione si era fatta difficile. Filippo, unito da una perenne alleanza (symmachia) con gli Stati componenti la Lega, si fece garante della loro autonomia e ricevette il comando supremo delle forze di terra e di mare. A loro volta gli stati partecipanti si impegnavano a fornire truppe al re quando ne avesse richieste, e a negare appoggio diretto a chi volesse tramare contro di lui e i suoi successori. Il sinedrio di Corinto si dichiarò concorde con la proposta di Filippo di muover guerra alla Persia per liberare le poleis d’Asia e punire gli eredi di Serse per gli oltraggi arrecati alla Grecia nell’invasione del 480 a.C. Si iniziarono a reclutare le forze necessarie a tale impresa.
Senza perdere tempo, Filippo inviò i suoi fidi hétaïroi (letteralmente compagni
) Parmenione e Atalas all’Ellesponto per iniziare le operazioni militari contro la Persia. Gli Elleni dell’Asia Minore trattennero il respiro in attesa della possibile imminente liberazione.
Se da una parte le azioni del re macedone furono talvolta imperniate di crudeltà militari e di dispotismo, Filippo poteva veramente essere considerato il benefattore della civiltà ellenica: per la prima volta nella sua storia questa si trovava unita sotto un unico sovrano e pronta ad affrontare la grande impresa della conquista e distruzione dell’impero persiano. Questa volta la situazione era ben diversa da ciò che era successo nel 480 a.C. Allora alcuni Stati greci si erano uniti per respingere l’invasione del Re dei Re, il supremo signore dell’impero achemenide. Ora si trattava di guidare una spedizione offensiva nel cuore del territorio persiano, realizzando il sogno di rivincita del popolo greco sull’oriente iranico.
Nella battaglia di Cheronea, primo a respingere il battaglione sacro tebano nei pressi di una grande quercia che ancora oggi (dicono) è visibile, dimostrò il suo valore militare il giovane principe Alessandro, diciottenne figlio di Filippo, comandante della cavalleria sul fianco sinistro dello schieramento macedone. Avrebbe raccolto l’eredità del padre e, con le sue imprese leggendarie, esteso i confini della civiltà greca oltre il mondo conosciuto.
Filippo, poi Alessandro
È lo storico greco Plutarco – che scrisse le sue Vite parallele tra il I e il II secolo dell’era volgare – a raccontarci in dettaglio la vita del giovane macedone, attingendo a fonti oggi perdute, come le Efemeridi regie e le lettere di Alessandro alla madre, ai maestri e agli amici. Non sono infatti sopravvissute molte fonti a lui contemporanee, e la maggiore parte dei lavori scritti su di lui appartengono a secoli successivi. Queste fonti sono spesso contraddittorie fra di loro.
Di discendenza divina ed eroica (da Ercole per parte paterna, da Achille per parte materna) Alessandro nacque da Filippo e dalla fiera Olimpiade, figlia di Neottolemo I e principessa d’Epiro della dinastia dei Molossi, a Pella, il sesto giorno del mese di luglio (ecatombeone per i Greci o lous per i Macedoni) del 356 a.C., lo stesso giorno in cui in Asia il famoso tempio di Diana Efesina, una delle sette meraviglie del mondo antico, venne dato alle fiamme da un certo Erostrato. Già questo fatto fu interpretato dai contemporanei come un prodigio, in quanto molti ritennero che quel giorno Diana fosse troppo occupata ad assistere Olimpiade nel parto piuttosto che a sorvegliare il suo tempio! Anche i magi persiani, che assistettero all’incendio,