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I personaggi più malvagi dell'antica Roma
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I personaggi più malvagi dell'antica Roma

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Vizi, delitti, passioni e crudeltà dalla Repubblica alle follie degli imperatori

Molti sono convinti di conoscere i celebri “cattivi” e i pazzi criminali protagonisti della storia romana antica come Catilina, Caligola, Nerone, Agrippina.
Ma è davvero così? Di quali efferati crimini si sono veramente macchiati quegli individui? E come si sono guadagnati la loro pessima fama? Analizzando a fondo le fonti antiche, Sara Prossomariti ripercorre, con un’indagine attenta e documentata, la vita di tanti protagonisti inquietanti della Roma antica e l’evolversi della loro crudeltà, in un crescendo che, da semplici viziosi, li ha resi in molti casi veri e propri criminali. Ma anche gli uomini in apparenza più virtuosi possono nascondere un lato oscuro: così Augusto non appare più solo nella veste di equilibrato e saggio fondatore dell’impero, ma anche come despota lussurioso e manipolatore. Ai nomi famosi si affiancano quelli meno noti o quasi sconosciuti, o quelli delle donne più spietate, avvelenatrici di professione o matrone di alto rango. Tra torture, omicidi politici, sinistri rituali, atti di violenta lussuria, deliri paranoici e lotte per il potere, sono in molti a contendersi il titolo di personaggio più malvagio. Ma sarà tutto vero quello che ci tramandano gli antichi cronisti? O forse, per interesse, qualcuno calcava la mano per screditare un avversario? Si può stabilire una verità storica? Sarà il lettore a giudicarlo.

In questo volume:

• Gli imperatori
Tiberio, Caligola, Nerone, Domiziano, Commodo, Caracalla, i figli di Costantino, Ricimero, Giustiniano

• I politici
Gaio Licinio Verre, Marco Licinio Crasso, Marco Celio Rufo, Gaio Antonio Ibrida

• I tribuni della plebe
Lucio Apuleio Saturnino, Publio Clodio Pulcro, Tito Annio Milone

• Congiure e congiurati
Lucio Sergio Catilina, le Idi di marzo

• Il lato oscuro degli eroi
Gaio Mario, Ottaviano Augusto, Costantino

• Donne, sesso e veleno
Livia Drusilla, Valeria Messalina, Agrippina Minore, Teodora

• Le guardie del corpo e i prefetti del pretorio
Lucio Elio Seiano, Ofonio Tigellino
Sara Prossomariti
è nata nel 1984 e vive e lavora a Mondragone. Laureata in Storia e Archeologia, ha collaborato con la rivista «Civiltà Aurunca». Opera come volontaria presso il Gruppo Archeologico Napoletano da più di dieci anni e ha partecipato a diversi scavi archeologici in Grecia e in Italia. Guida turistica autorizzata della Campania, con la Newton Compton ha pubblicato I personaggi più malvagi dell’antica Roma; I signori di Napoli; Un giorno a Roma con gli imperatori; I grandi personaggi del Rinascimento; Il secolo d’oro dell’antica Grecia; Il secolo d’oro dell’antica Roma; I grandi delitti di Roma antica e, scritto con Andrea Frediani, Le grandi dinastie di Roma antica.
LanguageItaliano
Release dateMay 13, 2014
ISBN9788854168336
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    I personaggi più malvagi dell'antica Roma - Sara Prossomariti

    CAPITOLO PRIMO

    Gli imperatori

    Tiberio

    Tiberio Claudio Nerone¹, divenuto nel 14 d.C. secondo imperatore di Roma col nome di Tiberio Giulio Cesare Augusto, è uno dei personaggi più controversi dell’impero romano. Gli storici antichi e moderni si sono letteralmente divisi in due fazioni: difensori e accusatori; tramandandoci così due personaggi completamente diversi l’uno dall’altro. Tra gli antichi che ci hanno descritto un Tiberio crudele e in preda ai vizi ci sono Svetonio, Tacito e Dione; invece, molti di quelli che vissero durante il suo regno, soprattutto Velleio Patercolo, lo presentano come un uomo schivo ma attento ai suoi doveri di sovrano.

    Alcuni studiosi sostengono che il vero Tiberio deve essere quello descritto dai suoi contemporanei, perché loro, avendolo conosciuto meglio, possono dirci più degli altri. In realtà si potrebbe obiettare che proprio perché hanno scritto mentre lui era ancora in vita, non hanno potuto parlare liberamente delle sue crudeltà temendo di subire ritorsioni. Ambedue le tesi sono valide e opinabili allo stesso tempo.

    Un altro dei dubbi sollevati è quello che si riferisce al presunto e repentino cambiamento di carattere che molte fonti evidenziano. Tiberio si sarebbe comportato in maniera pacata fino a che non si trasferì a Capri, dove poi si sarebbe dato a pratiche assurde, soprattutto se si considera la condotta tenuta fino ad allora. Come si può giustificare un mutamento simile?

    Vediamo prima di tutto di capire chi abbiamo davanti.

    Tiberio nacque il 16 novembre del 42 a.C., quando Augusto e Marco Antonio erano nel pieno della guerra contro i cesaricidi. Il padre di Tiberio, essendo un alleato di Marco Antonio, tra il 41 e il 40, quando avvennero i primi dissidi tra i due triumviri, fu costretto a scappare con la famiglia lontano da Roma e a rifugiarsi in diversi luoghi. Passando per Perugia, Ostia e Napoli, e molte altre città, i tre tornarono a Roma solo nel 40 a.C. quando i due contendenti si riconciliarono e fu dichiarata un’amnistia generale.

    Tiberio divenne famoso per le vittorie riportate in battaglia in gioventù e per l’affetto dimostrato nei confronti di suo fratello Druso quando questi morì in Germania; egli, infatti, andò a prendere il suo corpo per riportarlo a Roma, percorrendo l’intero cammino a piedi, davanti al feretro del fratello. In fin dei conti si trattava dell’unica persona con la quale aveva avuto un buon rapporto: Augusto considerava Tiberio un uomo dal carattere ombroso ed eccessivamente serio e non lo gratificò quasi mai per i suoi successi; Livia aveva pianificato tutta la sua vita senza tenere conto dei suoi desideri e tutti e due insieme lo avevano costretto a divorziare dalla sua amata prima moglie, Vipsania Agrippina, per sposare la figlia di Augusto, Giulia. Tutto ciò sarebbe avvenuto, secondo alcuni, per un capriccio della stessa Giulia, la quale si sarebbe proposta come amante a Tiberio quando entrambi erano ancora sposati, ottenendo un categorico rifiuto. Morto Agrippa, Giulia avrebbe preteso dal padre di poter sposare Tiberio e mai come questa volta Livia appoggiò il capriccio della figliastra. Questa però è solo una delle versioni tramandate; è possibile, infatti, che sia Tiberio che Giulia fossero rimasti vittima di macchinazioni altrui, e che avessero dovuto piegarsi ambedue alla ragion di stato. Il princeps desiderava più di ogni altra cosa dare vita a una dinastia e sua moglie voleva a tutti i costi che i Claudi vi prendessero parte, ecco perché alla fine si giunse a questo matrimonio. Il problema fondamentalmente era che Tiberio, come al solito, aveva accettato passivamente il destino pianificato per lui da sua madre, mentre Giulia era solita reagire contravvenendo a tutto ciò che le veniva imposto. Volevano usarla come un oggetto, togliendole ogni rispetto dovuto a tutti gli esseri umani? Benissimo, lei avrebbe ricambiato pan per focaccia.

    Tiberio dal canto suo rimase sempre molto legato a Vipsania. Si racconta che dopo il divorzio l’avesse incontrata per strada una sola volta e che il suo sguardo si fosse rattristato a tal punto che fu chiesto alla donna di non farsi più vedere. Nel corso degli anni Tiberio si prese la sua rivincita nei confronti dell’uomo che aveva sposato Vipsania dopo di lui e che, addirittura, aveva osato avanzare diritti di paternità su suo figlio Druso. Quest’uomo era il senatore Asinio Gallo il quale, quando Tiberio assunse il potere e disse di voler governare solo su ciò che gli veniva assegnato dal senato, gli propose di scegliere la parte dell’impero che più desiderava. Ovviamente l’azione di Gallo era provocatoria ma Tiberio riuscì a non perdere il controllo, ribattendo che colui il quale doveva beneficiare di un qualcosa non poteva essere anche il responsabile della scelta. A quel punto Gallo si rese conto di essere finito nelle sabbie mobili e per porre rimedio al suo errore disse a Tiberio che in realtà, con la sua affermazione, voleva solo dimostrare che l’impero era indivisibile e che dunque lui avrebbe dovuto governare su tutto e non voleva in alcun modo metterlo in difficoltà. Le scuse in questo caso non furono sufficienti e così attorno al senatore fu fatta terra bruciata. Gallo per molti anni dovette subire un isolamento forzato terribile e poi nel 30 d.C., dopo un’apparente riconciliazione con Tiberio, fu arrestato. L’imperatore era diventato invidioso anche del suo legame di amicizia con Seiano e di conseguenza Gallo fu messo sotto la protezione dei magistrati. Fu isolato da tutti nuovamente e poteva vedere qualcuno, nello specifico un servo, solo quando gli veniva portato da mangiare. Il cibo non gli fu mai negato, ma non era della migliore qualità e soprattutto era in quantità tale da tenerlo a malapena in vita. Nel 33 d.C., infine, Gallo fu accusato di essere l’amante di Agrippina Maggiore e di aver cospirato con lei contro l’imperatore, per cui fu lasciato definitivamente morire di fame. Se le cose fossero andate realmente in questo modo, dovremmo dedurre che Tiberio fosse riuscito a mettere in atto una vendetta lenta, a lungo termine, di quelle servite a freddo. In realtà è possibile che i contrasti con Gallo non andassero collegati a Vipsania, ma a divergenze politiche; poi le fonti, ricamando sui legami personali che intercorrevano tra i due, hanno dato vita a questa versione dei fatti.

    Il matrimonio tra Tiberio e Giulia fu fallimentare a causa sia della freddezza di lui che dei continui tradimenti di lei. Si crede che il ritiro di lui a Rodi, avvenuto nel 6 a.C. e durato ben otto anni, fosse dovuto proprio all’insofferenza di Tiberio nei confronti della moglie; tuttavia, è anche possibile che dopo aver condotto molte vittoriose campagne militari, recuperando anche le insegne delle legioni che Crasso aveva perso anni addietro in territorio partico, si fosse allontanato da Roma perché si sentiva messo in disparte. Augusto, infatti, era dedito completamente ai suoi nipoti, Lucio e Gaio Cesare, figli di Giulia e Agrippa, eredi designati dell’impero creato dal nonno, e non degnava Tiberio di alcuna attenzione. Si è anche pensato che Augusto stesso lo avesse fatto allontanare perché non fosse d’intralcio. Stando però a quanto dice Svetonio, è più probabile la tesi dell’allontanamento volontario. Infatti, dopo un certo periodo, pare che Tiberio avesse chiesto di poter tornare a Roma, con la scusa di voler rivedere i suoi parenti, ma Augusto gli avrebbe risposto che non capiva la sua fretta di rivedere coloro che aveva lasciato senza farsi nessuno scrupolo. Tiberio si trovò così a mutare la sua condizione da esule per scelta a esule per imposizione altrui.

    I due ragazzi, Gaio e Lucio, proprio come Agrippa e Marcello, i due uomini scelti in precedenza da Augusto come suoi successori, morirono provvidenzialmente e prematuramente. Non sappiamo se la causa dei due decessi fu effettivamente una malattia o l’intervento della cara nonna Livia, fatto sta che Tiberio si trovò improvvisamente ad essere designato per la successione.

    A dieci anni dalla sua adozione ufficiale, avvenuta nel 4 d.C., Tiberio divenne imperatore all’età di cinquantasei anni. Avrebbe dovuto avere un coreggente – si trattava di Agrippa Postumo, fratello di Gaio e Lucio, adottato anche lui da Augusto nel 4 d.C. Il ragazzo, però, dopo l’annuncio, era stato dichiarato folle e allontanato dall’Urbe. Il suo corpo fu trovato esanime, pochi giorni dopo l’ascesa al trono di Tiberio, presso l’isola di Planasia (Pianosa) dove era confinato. Dei sicari lo avevano ucciso non senza difficoltà; il giovane, infatti, aveva opposto una strenua resistenza ai suoi aguzzini ma alla fine fu comunque sopraffatto; del resto era solo e i sicari più di uno sicuramente.

    Anni dopo la morte di Agrippa Postumo, un suo servo, tale Clemente, dopo essersi fatto crescere la barba per rendersi irriconoscibile, era riuscito a far credere di essere il padrone redivivo e ricoprì questo ruolo talmente bene, che mise a soqquadro alcune province e poi la stessa Roma. Molti avevano creduto al suo travestimento o forse avevano semplicemente voluto crederci, fatto sta che lo appoggiarono e la cosa spaventò molto l’imperatore. Grazie all’aiuto di alcuni infiltrati, Tiberio riuscì alla fine a catturare Clemente e a sottoporlo alla tortura. L’imperatore voleva sapere a tutti i costi i nomi dei suoi complici ma il ragazzo coraggiosamente si rifiutò di tradirli, nonostante il dolore provocatogli dai ferri. Tiberio aveva prolungato la sua agonia perché voleva togliersi anche un’altra curiosità. Prima di farlo uccidere, chiese al ribelle come avesse fatto a farsi passare per Agrippa, e questi molto candidamente gli rispose che c’era riuscito nello stesso modo in cui lui era stato capace di farsi credere imperatore, ergo, con l’inganno.

    L’imperatore Augusto, per evitare al suo erede problemi di successione come quelli che avevano afflitto lui, scelse per Tiberio un successore: Germanico. Si trattava di uno dei comandanti più valorosi e amati di quel periodo, nonché nipote di Tiberio stesso, in quanto figlio di suo fratello Druso e di Antonia Minore.

    Quando Augusto morì, le legioni della Germania si ribellarono e proposero a Germanico di spodestare Tiberio con il loro aiuto; lui però rifiutò e riuscì anche a sedare la rivolta. Nonostante questo comportamento così lodevole, Germanico scatenò suo malgrado l’invidia di Tiberio, che da quel momento cominciò ad architettare un piano per eliminarlo.

    Dione fa una disamina dell’odio di Tiberio nei confronti di Germanico molto particolare: infatti sostiene che l’imperatore «dissimulava ciò che voleva e non desiderava quasi mai nulla di quello che diceva [...] negava tutto quello che bramava e dimostrava interesse per tutto ciò che detestava»². Essendo questo il modus vivendi di Tiberio, il rifiuto di Germanico all’offerta dei legionari fu interpretato come uno stratagemma per dissimulare le sue reali intenzioni. In pratica l’imperatore era convinto che Germanico aveva detto no ai ribelli ma che in realtà intendeva dire sì. Non sarebbe stata la prima volta del resto che un comandante celava le sue reali intenzioni dietro un’apparente disinteresse.

    La morte di Germanico avvenne nel 19 d.C.³ e da molti fu considerata uno degli eventi più significativi per giustificare il cambiamento caratteriale di Tiberio. La moderazione e la correttezza messe in pratica nella prima fase del suo regno sarebbero venute meno perché, morto Germanico, l’imperatore non temeva più il confronto con una figura ingombrante che poteva metterlo in cattiva luce. Secondo altri sarebbe stato il distacco dalla madre Livia a far saltare ogni freno inibitorio in Tiberio, se mai ne aveva avuti. Altri ancora addebitano il mutamento all’influenza esercitata su di lui dal prefetto del pretorio Seiano, il quale, nonostante il carattere sospettoso dell’imperatore, era riuscito a diventare il suo confidente di fiducia.

    Ma ci fu davvero un cambiamento? È possibile, in realtà, che Tiberio non avesse una grossa propensione a ricoprire il ruolo di imperatore e che si sia trovato sul trono solo grazie alle macchinazioni della madre. Una volta salito al potere, dopo qualche anno di attività forse si era reso conto che effettivamente tutto quello non faceva per lui e così si ritirò a Capri per vivere tranquillo ed evitare le folle di postulanti invadenti. Cesare Grassi sostiene che analizzando le fonti antiche si possono definire ben cinque diverse fasi nella vita di Tiberio: «1) egregio per vita e reputazione quale cittadino privato oppure come subalterno agli ordini di Augusto, vale a dire per la maggior parte della sua esistenza, poiché, come è noto, Tiberio ottenne il principato nel 14 d.C., quand’era quasi vecchio, cioè all’età di cinquantasei anni; 2) soppiattone e subdolo nel simulare qualità positive finché furono in vita Germanico e Druso, cioè dal 14 al 23 d.C.; 3) un misto di bene e male fino alla morte della madre Livia, cioè dal 23 al 29 d.C.; 4) esecrabile per crudeltà, ma con dissolutezze finché amò e temé Seiano, cioè dal 29 al 31 d.C.; 5) sfrenato nei delitti e nelle ignominie dopo che, deposto ogni ritegno e timore, seguì soltanto la propria indole, cioè dal 31 fino alla morte (37 d.C.)»⁴.

    L’autore che in assoluto si sbizzarrisce maggiormente nel descrivere le nefandezze commesse dal secondo imperatore di Roma è Svetonio. Costui però non è sicuramente tra gli storici più attendibili, anzi. La sua tendenza a infiorettare gli eventi per renderli più drammatici o spinti lo rende molto spesso inaffidabile.

    Svetonio comincia dicendo che uno dei vizi peggiori dell’imperatore era l’amore per il vino: la sua fama di bevitore si era già diffusa quando era nell’esercito al servizio di Augusto come legato. I suoi compagni erano soliti chiamarlo Biberio anziché Tiberio.

    Oltre al vino, un’altra sua grande passione erano i giovinetti, maschi e femmine, ai quali si dedicava con una certa intensità; difatti, aveva fatto costruire a Capri una stanza che si trovava in una villa detta delle sellarie, nella quale i ragazzi che aveva fatto venire sull’isola per il proprio piacere personale erano istruiti da maestri detti spintrie. I giovani, una volta addestrati per bene, si esibivano in sua presenza a gruppi di tre o più, dando vita a delle vere e proprie orge.

    Nelle stanze in cui avvenivano questi incontri pare ci fosse un arredo molto particolare, caratterizzato da statue e quadretti con scene erotiche alle quali si aggiungevano alcuni libri che trattavano dello stesso argomento. Uno dei quadri è descritto nel dettaglio dalle fonti: si tratta di un’opera di Parrasio del V secolo a.C., nella quale appare la velocissima Atalanta nell’atto di compiere una fellatio al giovane Meleagro.

    L’incombenza di risvegliare il piacere sessuale dell’imperatore, ormai in là con gli anni, era affidata anche ad alcuni pesciolini, ragazzi addestrati a nuotare tra le gambe dell’imperatore sfiorandolo e mordicchiandolo nella zona dei genitali.

    Svetonio parla addirittura della creazione di una nuova magistratura detta dei piaceri e assegnata a un cavaliere di nome Tito Cesonino Prisco.

    La libidine di Tiberio divenne incontrollabile col tempo, tanto che durante una cerimonia l’imperatore si era invaghito a tal punto del ragazzo che gli passava l’incenso, che finito il rito decise di stuprarlo, coinvolgendo anche il fratello di costui. Terminato il tutto, siccome i due ragazzi avevano cominciato a urlare incolpandosi a vicenda dell’evento, Tiberio pensò bene di far loro spezzare le gambe per porre fine alla discussione.

    Una tale Mallonia addirittura sarebbe stata indotta al suicidio a causa delle attenzioni ossessive dell’imperatore. Quando Tiberio se la fece condurre a Capri, lei si rifiutò di sottostare al suo volere e così lui la denunciò e la sottopose a un processo per spaventarla. Mallonia però, anziché cedere alle sue minacce, andò a casa e subito dopo la seduta in tribunale si uccise.

    La fama di Tiberio quale vecchio libidinoso, amante per lo più del sesso orale, era talmente diffusa che anche un suo amico, Sesto Mario, il quale aveva costruito la sua fortuna grazie all’imperatore, decise di far allontanare la figlia, nel timore che Tiberio potesse volerla a Capri per i suoi giochini erotici. Quando l’imperatore lo venne a sapere, ovviamente decretò la morte di Mario.

    A detta di Tacito, a coloro che si dimostravano compiacenti nei confronti dell’imperatore venivano anche offerti doni in cambio delle prestazioni, mentre chi invece si rifiutava non poteva sperare nella rassegnazione di Tiberio, il quale prima di tutto passava alle minacce, e se queste non funzionavano, faceva intervenire i suoi schiavi che con la forza gli conducevano le vittime prescelte dalle quali, alla fine, otteneva ciò che voleva con la violenza e lo stupro.

    Certo, si sa che con la vecchiaia si può peggiorare, ma trasformarsi da marito innamorato e fedele alla moglie Vipsania in vecchio libidinoso sembra un cambiamento un po’ esagerato. Ovviamente è possibile che, dopo l’esperienza matrimoniale con Giulia, Tiberio avesse deciso di non avere più una compagna fissa, ma da qui al satirismo ce ne corre.

    Uno dei luoghi più tristemente noti dell’isola su cui si era arroccato Tiberio, era il saltus, che si trovava nella cosiddetta Villa Jovis. Il saltus non era altro che un dirupo, che delimitava un lato della proprietà, dal quale pare che molti venissero gettati per volere dell’imperatore. Se mai qualche malcapitato aveva la fortuna di sopravvivere a una caduta simile, con tanto di scogli di contorno, avrebbe dovuto poi fare i conti con dei rematori che lo attendevano in acqua per finirlo a colpi di remi.

    A Capri Tiberio avrebbe dato libero sfogo anche alla fantasia; infatti si dedicò alla creazione di nuove torture cui sottoporre coloro che lo contrariavano; arrivò persino a legare i genitali a dei condannati, in modo da non farli urinare e provocare loro dolori atroci.

    La fuga di Tiberio da Roma potrebbe essere spiegata anche con la sua paura di essere assassinato, un timore giustificato, che lo spinse a commettere atti assurdi. Un giorno un pescatore riuscì, arrampicandosi sugli scogli, a raggiungere Villa Jovis per donare all’imperatore il bellissimo pesce che aveva pescato. Tiberio, terrorizzato all’idea che qualcuno era riuscito a eludere la sorveglianza della sua guardia, anziché punire i soldati negligenti, se la prese con il pescatore e gli fece strofinare in faccia la triglia che aveva portato in dono. Il poverino, terminato il supplizio, ringraziò gli dei di non aver offerto all’imperatore anche l’aragosta che aveva preso ma, suo malgrado, lo fece a voce un po’ troppo alta. L’imperatore lo sentì e decise di sottoporto alla stessa tortura di prima ma con l’aragosta, sfregiandolo a sangue.

    Per gelosia o per vendetta diede sfogo alla sua crudeltà soprattutto nei confronti dei parenti e alla fine anche dell’amato fratello. Dopo la morte di quest’ultimo diffuse una lettera da lui speditagli, nella quale lo invitava a opporsi ad Augusto per restaurare la repubblica; in questo modo non faceva altro che accusarlo pubblicamente di tradimento.

    Si vendicò anche di sua moglie Giulia, la quale era stata esiliata già ai tempi di Augusto con l’accusa di adulterio, inasprendo il suo esilio fino a condurla alla morte, che avvenne nello stesso anno della sua ascesa al potere.

    Per quanto riguarda la madre, non fu responsabile in alcun modo della sua morte, sopraggiunta naturalmente alla veneranda età di ottantasei anni, ma sicuramente il suo atteggiamento in occasione della sua scomparsa non fu dei migliori. Proprio come fece in seguito alla morte del figlio Druso, continuò a svolgere la normale attività giornaliera mandando a dire ai senatori che presto sarebbe giunto a Roma per celebrare i funerali della madre; ma il cadavere di Livia andò in putrefazione prima che lui si decidesse a partire e si dovette procedere allo svolgimento della cerimonia funebre in sua assenza.

    Nonostante avesse adottato come eredi Druso e Nerone, i figli maggiori di Germanico, ben presto prese a odiarli. La venerazione che la popolazione e l’esercito avevano provato un tempo nei confronti del comandante era ora rivolta alla vedova e ai figli e Tiberio fu preso da invidia anche in questo caso.

    Dopo aver accusato Nerone e Druso delle peggiori nefandezze, li fece uccidere: a Nerone fu mandato un carnefice con i lacci e gli uncini, pronto a sottoporlo a torture inaudite, tanto che il giovane, preso dallo spavento, preferì suicidarsi. Suo fratello Druso ebbe una sorte anche peggiore: relegato nelle carceri di Roma fu lasciato senza cibo. Dopo nove giorni di digiuno, prima di morire di stenti, la disperazione lo spinse a mangiare anche il materiale usato per riempire il materasso.

    Agrippina Maggiore, vedova di Germanico, era in pessimi rapporti con Tiberio, il quale la considerava un’arrivista. Le fonti citano un episodio nel quale appare chiaro che considerazione avessero l’uno dell’altra. Un tale Domizio Afro aveva citato in tribunale Claudia Pulcra, una cugina di Agrippina. Pulcra era stata accusata di dissolutezza, adulterio, produzione di veleni e filtri; la donna rischiava molto, per cui Agrippina tentò di intercedere per lei presso l’imperatore. Tuttavia, anziché supplicare l’imperatore, si presentò da lui come una furia accusandolo di aver attaccato la cugina solo per ferire lei. Tiberio, ormai abituato alle intemperanze di Agrippina e al suo carattere irruento (che la figlia, Agrippina Minore, erediterà in tutta la sua potenza), le rispose che in realtà l’unico motivo per il quale lei si sentiva tanto offesa era l’impossibilità di governare.

    Agrippina doveva essere una donna alquanto invadente e Tiberio, già costretto a sopportare la madre per anni, non aveva più la pazienza di fare altrettanto con lei.

    Nel 33 d.C. Agrippina fu accusata di aver congiurato contro l’imperatore e fu esiliata a Pandataria (Ventotene). Qui morì di stenti dopo essere stata frustata con le verghe dai suoi aguzzini ed essere stata costretta a mangiare con la forza del cibo che aveva rifiutato.

    Nel 31 d.C. a Tiberio fu rivelata l’infedeltà del prefetto del pretorio Seiano, al quale aveva lasciato in pratica la gestione dell’impero nel momento in cui era partito per Capri. Seiano fu condannato a morte ma ormai l’imperatore era in preda al delirio non solo per il tradimento, ma anche perché l’ex moglie del prefetto, Apicata, in una lettera gli aveva rivelato che tra i reati del marito andava annoverato anche l’assassinio del figlio dell’imperatore, avvenuto otto anni prima. Questa scoperta portò Tiberio quasi al limite della follia, tanto da dare il via a una repressione di una violenza inaudita, che terminò dopo circa due anni. Chiunque avesse dato il suo sostegno a Seiano fu condannato a morte. Alcuni senatori si aprirono le vene in senato e Tiberio fece loro fasciare le ferite e li fece condurre in carcere; altri, invece, si avvelenarono al cospetto dei loro colleghi, come nel caso di Vibullio Agrippa, che usò per questo scopo il veleno che teneva solitamente nel suo anello. Un altro senatore, Nerva, si lasciò morire di fame: nonostante Tiberio gli avesse ordinato di riprendere a mangiare, rifiutò perché diceva di non poter più tollerare la sua vicinanza. I cadaveri dei condannati erano gettati dalle scale Gemonie dopo essere stati trascinati in giro per la città con degli uncini.

    I nomi di coloro che dovevano essere sottoposti a processo venivano fuori grazie a delazioni e torture operate dal nuovo prefetto del pretorio, Quinto Nevio Sutorio Macrone. Quest’ultimo non riuscì mai a raggiungere le vette toccate dal suo predecessore perché, fino all’anno della sua morte, il 38 d.C., si limitò a essere un buon esecutore materiale degli ordini dei suoi imperatori e non prese mai un’iniziativa.

    A questo punto sorge spontanea una domanda: come è possibile che Tiberio reagisse con tanta violenza alla scoperta dell’assassinio del figlio, se a detta delle fonti non si preoccupò neanche di andarlo a trovare quando era malato? I conti non tornano. O non è vero che l’imperatore rimase indifferente alla dipartita del figlio, oppure bisogna ipotizzare che il suo comportamento dopo il 31 debba attribuirsi non a un notevole affetto filiale, bensì all’orgoglio ferito dal tradimento.

    Durante i suoi ultimi anni di vita Tiberio fu responsabile dell’uccisione e del suicidio di tante di quelle persone che molto spesso le fonti si limitano a dei rapidi cenni o a meri elenchi di nomi. Non furono risparmiati neanche amici di vecchia data, come ad esempio Vesculario Flacco e Giulio Marino, i quali lo avevano accompagnato non solo a Capri, ma anche a Rodi, quando vi fu esiliato.

    Il secondo imperatore di Roma fu accusato, tra le altre cose, anche di avarizia; pare che fosse restio a elargire denaro, anche quello non suo, come ad esempio il donativo che Augusto aveva lasciato nel suo testamento alla popolazione. Le fonti riportano un aneddoto che riguarda un comico, il quale avrebbe detto all’orecchio di un condannato a morte di avvisare Augusto, una volta giunto nell’aldilà, che le sue volontà non erano state rispettate. Quando Tiberio lo venne a sapere, lo fece uccidere dicendogli che così avrebbe potuto riportare di persona il messaggio e poi, finalmente, si decise a saldare il debito.

    L’imperatore era solito accompagnarsi a un astrologo di nome Trasillo, dal quale imparò l’arte della divinazione; tuttavia, nonostante la sua passione, fece mettere a morte tutti gli stranieri che praticavano quest’arte e fece esiliare quelli tra loro che erano cittadini romani.

    Dione racconta che compilò le carte astrali di molti cittadini romani, analizzando l’ora e il giorno della loro nascita e, se per caso vi ravvisava segni di eccessiva ambizione, solo sulla base di questi dati decretava la morte dei malcapitati.

    Tiberio morì nel 37 d.C. all’età di settantotto anni, durante un viaggio di ritorno a Capri dopo il secondo tentativo fallito di raggiungere l’Urbe. In realtà era stato Tiberio stesso a dire, come molte altre volte, che non se la sentiva di entrare in città e a voler tornare indietro; per cui morì presso la villa di Lucullo a Capo Miseno dove aveva fatto una sosta. Il suo corpo fu riportato a Roma e lo si dovette difendere dalla popolazione che voleva gettarlo nel Tevere. Aveva sofferto a lungo di una malattia che ne aveva fiaccato il fisico, tuttavia secondo alcuni non sarebbe stato questo male a dargli il colpo di grazia, bensì il giovane Caligola. L’imperatore, infatti, mentre sembrava che stesse esalando l’ultimo respiro, dette improvvisamente segni di ripresa e così Caligola, ormai impaziente di succedergli, lo assassinò. Tutto ciò avvenne con l’aiuto del prefetto Macrone, il quale si era ingraziato da tempo l’erede dell’imperatore, tanto che Tiberio, anche se vecchio e malato, si era accorto delle sue manovre. Un giorno, per fargli capire che non era poi tanto rimbambito, gli aveva detto che faceva benissimo ad abbandonare l’astro che tramonta in favore di quello nascente.

    Un cardiologo dell’università di Lione, Maurice Pont⁵, ha tentato di definire le reali cause della morte dell’imperatore analizzando i dati forniti dalle fonti. Secondo lui Tiberio sarebbe morto di morte naturale, per la precisione a causa di un infarto verificatosi mentre era in Astura. I segni di questo malessere si sarebbero palesati sotto forma di una dolorosa indigestione. Dopo un brutto quarto d’ora Tiberio cominciò a sentirsi meglio e così decise di riprendere il viaggio. Gli sforzi ulteriori avrebbero dato luogo a un secondo infarto, molto più violento del primo, che lo uccise.

    I suoi difensori hanno sempre imputato gran parte delle sue crudeltà all’influenza negativa di Seiano; altri ancora, soprattutto tra gli studiosi moderni, hanno affermato che gli storici antichi avevano voluto riportare un’immagine negativa di Tiberio solo perché lui e Augusto erano considerati responsabili di aver distrutto la repubblica.

    Una delle questioni più dibattute è quella riguardante i processi di lesa maestà. Sappiamo che questo genere di processi veniva svolto per lo più sulla base di accuse inconsistenti e quindi per molti studiosi costituiscono un metro di giudizio per definire le tendenze caratteriali di un imperatore. Le fonti antiche ne descrivono diversi e alcuni storici moderni ritengono che il loro numero totale oscilli tra ottanta e novanta. Dione, però, in un suo passo sostiene che Tiberio aveva fatto accusare, nel 23 d.C., un tale Elio Saturnino per dei versi che aveva scritto contro di lui e dopo averlo fatto mettere in prigione ne aveva ordinato subito la morte, per cui il povero Saturnino si ritrovò scaraventato giù dal Campidoglio. Lo storico greco prosegue dicendo che di eventi simili se ne verificarono molti e che sarebbe inutile descriverli tutti. Dunque, per quanto gli storici moderni abbiano tentato un conteggio dei processi per lesa maestà svoltisi durante il regno di Tiberio, credo che sia impossibile stabilire un numero preciso e, se anche ciò fosse possibile, non sarebbe corretto affermare che Tiberio non fu crudele perché ottanta, novanta processi per lesa maestà in quindici anni di regno non sono tanti. Bisognerebbe, infatti, tenere conto che quasi tutti questi processi si concentrarono nell’arco di pochi anni e quindi sarebbero indicatori di una condizione ben diversa. Perciò questo metodo di valutazione non può ritenersi valido; le fonti inoltre potrebbero aver considerato ingiustificate le esecuzioni di condannati che secondo il diritto romano meritavano la loro pena.

    Il trasferimento a Capri è un momento cruciale della vita di Tiberio e del suo rapporto con la popolazione, che da quel momento cominciò a odiarlo.

    L’aver abbandonato l’Urbe e l’averla lasciata nelle mani di Seiano furono errori che nessuno gli perdonò mai. Tiberio fu ritenuto responsabile per le malefatte di Seiano perché era stato lui a sceglierlo per governare la città in sua vece.

    Per quanto riguarda le storie sul suo conto che riguardano Capri, sono nate molto probabilmente dalla fervida immaginazione di qualcuno che ha cominciato a pensare cosa potesse succedere su un’isola così lontana da Roma e nella quale l’imperatore si era rifugiato per non tornare mai più. Le cause di un tale isolamento dovevano per forza avere un’origine perversa.

    Lo studioso Edward Champlin⁶ analizza alcuni degli aneddoti più famosi riguardanti Tiberio, alcuni dei quali hanno avuto come sfondo proprio l’isola di Capri, e fa notare come si tratti di narrazioni standardizzate, replicate più volte con leggere varianti a seconda dei protagonisti. Ad esempio, Champlin fa un parallelo tra la storia del pescatore che aveva fatto irruzione nella villa per donare un pesce a Tiberio, e un aneddoto simile legato all’imperatore Adriano. L’imperatore stava tornando in Giudea quando incontrò un uomo che piantava semi di alberi di fico e lo derise perché s’impegnava tanto a fare un lavoro di cui molto probabilmente non avrebbe potuto godere, dato che aveva circa cento anni. Il vecchio ribatté che se non avesse potuto godere lui di quel frutto lo avrebbero fatto i suoi figli e quindi non si trattava di lavoro sprecato. Adriano allora gli chiese di fargli sapere se fosse riuscito a mangiare quei fichi e così, una volta spuntati i frutti, il contadino preparò un cesto e portò dei fichi all’imperatore, per dimostrargli che era ancora vivo. Adriano fece riempire il cesto di denari per onorare quell’uomo. Quando il vecchio tornò a casa, sua moglie vide i denari e lo convinse a portare un secondo cesto di fichi all’imperatore, sperando in una seconda ricompensa. In realtà, la sola cosa che il vecchio ottenne fu una punizione per la sua ingordigia: se ne dovette stare fermo presso la porta della città a prendersi fichi in faccia da chiunque volesse tirargliene. Tornato a casa, il vecchio incolpò la moglie di quanto accaduto e lei gli rispose che doveva ritenersi fortunato: invece dei fichi, potevano essere cedri.

    Di episodi simili ve ne sono tanti, come ci sono paralleli storici anche per molti altri aneddoti relativi alla vita di Tiberio. Questo ci fa comprendere che esistono dei modelli fissi sui quali creare delle storie che molto spesso sono da ritenersi puro frutto di fantasia.

    Non sapremo mai cosa accadeva realmente su quello scoglio perso nel Golfo di Napoli, per cui possiamo scegliere il Tiberio che più preferiamo: quello ombroso ma ligio al dovere e che si allontana dall’Urbe per semplice insofferenza nei confronti degli adulatori invadenti, oppure il Tiberio vizioso che lascia Roma per meglio dedicarsi alle sue perversioni.

    Considerando la madre, il patrigno e la moglie che si trovò accanto, possiamo quantomeno dire che il caratteraccio di Tiberio era più che giustificabile, come pure un’eventuale fuga.

    Caligola

    Gaio Giulio Cesare Germanico, alias Caligola⁷, nacque ad Anzio nel 12 d.C. da uno degli uomini più famosi e amati di quel periodo: Germanico. Quest’ultimo, per volontà di Augusto, era stato adottato come erede da Tiberio, ma qualcosa andò storto e Germanico morì prima del tempo per cause alquanto oscure⁸. Caligola era anche bisnipote dell’imperatore Augusto; infatti, sua madre era Agrippina Maggiore, figlia di Agrippa e Giulia Maggiore, per cui poteva vantare un pedigree di tutto rispetto. Era un cavallo di razza destinato alla gloria.

    Sua madre era solita accompagnare il marito in tutte le spedizioni, anche quelle sul pericoloso fronte germanico, portando con sé anche i figli. I soldati di stanza in Germania si affezionarono particolarmente al piccolo Gaio e gli attribuirono il soprannome di Caligola perché, quando era molto piccolo, andava in giro per l’accampamento vestito da legionario, con tanto di calzari (detti appunto caligae) fatti su misura. Il bambino finì per diventare la mascotte dei legionari più temuti di tutto l’impero e questo suo rapporto con gli uomini di suo padre si rivelò provvidenziale almeno in un’occasione. Alla morte di Augusto, infatti, le legioni germaniche si ribellarono, per ottenere un miglioramento delle loro condizioni e soprattutto il congedo (poiché molti prestavano servizio da quasi trent’anni); nonostante l’intervento del loro paladino, Germanico, e tutta una serie di trattative, i ribelli si calmarono solo quando si accorsero che il comandante stava provvedendo ad allontanare dall’accampamento la moglie e i figli, tra cui il piccolo Caligola, poiché li riteneva in pericolo di vita. Il rischio di perdere il loro portafortuna e l’idea che Germanico li potesse considerare capaci di fare del male alla sua famiglia placò gli animi dei soldati, che rientrarono nei ranghi.

    Si è molto discusso a proposito del terzo imperatore di Roma. Tutto ciò che sappiamo di lui, ci viene tramandato soprattutto da Svetonio e Dione, mentre non si sono conservati i passi di Tacito che riguardano gli anni del suo regno. Tacito è considerato uno storico molto attendibile per ciò che riguarda la trattazione della dinastia Giulio-Claudia, sicuramente più di Svetonio, anche se, come lui stesso ammette, ha fatto uso non solo di fonti certe e attendibili per la realizzazione della propria opera, ma anche dei pettegolezzi (rumores) di dubbia veridicità raccolti qua e là, non potendo quindi garantire per tutto ciò che veniva scritto. Inoltre, leggendo la vita di Nerone, si può notare che molte delle crudeltà riportate da Svetonio sono citate anche da Tacito e che quindi non è detto che il giudizio finale su Caligola sarebbe mutato poi molto pur possedendo i libri perduti dello storico.

    Va posto l’accento anche su un altro dato che riguarda Caligola, come pure Nerone: molti studiosi affermano, quasi a discolpa dei due imperatori, che essi erano amati dal popolo e che avevano fatto delle riforme valide durante il loro regno; se ne dovrebbe dedurre che non erano stati poi tanto cattivi, come invece appare dalle fonti. Tuttavia, l’essere amati dal popolo o l’essere capace di agire correttamente in alcuni casi, a livello politico e burocratico, spesso anche grazie al supporto di buoni consiglieri, non toglie che i due possano aver dato libero sfogo alla loro crudeltà. Uccidere un senatore solo perché è ricco, è forse meno malvagio che uccidere un semplice cittadino? Del resto si sa che le più grandi tirannidi sono nate con l’appoggio del popolo.

    Molti studiosi di recente hanno tentato di riabilitare Caligola, di evidenziare come le fonti si siano concentrate più sulle questioni private e sui pettegolezzi, che non sulle attività pubbliche dell’imperatore. Aloys Winterling, ad esempio, nel suo Caligola. Dietro la follia, non solo tenta di dimostrare che l’imperatore non era completamente pazzo, ma prova anche a spiegare il perché di alcuni suoi gesti da un punto di vista antropologico.

    I più sostengono che Caligola avesse in mente di deridere e sminuire la classe senatoria (il che non è improbabile, considerando l’aneddoto circa l’elezione a senatore del suo cavallo, Incitatus) e che per questo si ritrovò contro tutti gli autori antichi i quali, nella gran parte dei casi, provenivano proprio da quell’ordine. Nonostante ciò, non si può e non si deve necessariamente pensare che tutto quanto è stato scritto su di lui sia da buttare via.

    Sicuramente le cose non saranno andate esattamente come le narra Svetonio, che è sempre molto teatrale, ma è vero anche che il Caligola cattivo è un personaggio unico nel suo genere e redimerlo completamente significherebbe anche un po’ sminuirlo.

    Il folle Caligola in realtà non sarebbe sempre stato un pazzo squilibrato, o almeno questo è quello che sostengono le fonti. Nel periodo precedente al 37 d.C., pare che si fosse comportato in maniera alquanto normale o comunque che la sua crudeltà poteva essere definita nella media. La morte dell’amata sorella Drusilla e una violenta malattia però cambiarono completamente le cose.

    Il tema del peggioramento, che abbiamo già incontrato con Tiberio e ritroveremo anche oltre, è una costante e credo che abbia uno scopo preciso: sollevare il senato e anche il popolo dalla responsabilità di aver approvato l’ascesa di questi cosiddetti mostri, che si sarebbero rivelati tali solo dopo l’ignara approvazione dei bene intenzionati senatori.

    Caligola visse un’infanzia abbastanza particolare, come abbiamo detto, e fino al 19 d.C. accompagnò suo padre in giro per l’impero a combattere i barbari. Dopo la morte di Germanico, attribuita da molti a Tiberio, tornò a Roma con la madre, dove dovette assistere al declino della sua famiglia. Tiberio si accanì violentemente contro Agrippina Maggiore, la riteneva una sobillatrice e un’arrivista e alla fine riuscì a ottenere per lei l’esilio e poi la morte. Il piccolo Caligola e le sorelle, Agrippina Minore, Drusilla e Livilla, rimasti orfani di padre, furono mandati a vivere prima dalla bisnonna Livia e poi da nonna Antonia; è qui che a quanto pare Caligola diede prova per la prima volta della sua propensione per gli eccessi. Trovandosi così a stretto contatto con le sorelle, pare che avesse cominciato ad avere rapporti sessuali incestuosi con Drusilla, la sua favorita. Alcuni sostengono che oltre a Drusilla, anche le altre due sorelle furono coinvolte in questi incontri amorosi; fatto sta che nonna Antonia scoprì Caligola e Drusilla a letto insieme e ne rimase sconvolta. A diciannove anni, precisamente nel 31 d.C., fu chiamato a Capri da Tiberio che lo voleva con sé, per cui dovette vivere a stretto contatto con l’assassino dei suoi genitori e subire passivamente la sua volontà, altrimenti correva il rischio di fare una brutta fine. Il suo spirito di sopportazione fu però ripagato e nel 35 d.C. fu scelto come successore di Tiberio insieme al nipote dell’imperatore, Tiberio Gemello.

    Svetonio insinua che Caligola fosse stato il responsabile della morte di Tiberio, sostenendo che il ragazzo aveva intrecciato una relazione adulterina con Ennia Nevia, moglie di Macrone, prefetto del pretorio, e che con il suo aiuto aveva avvelenato l’imperatore. Non si sa se questo sia un dato veritiero, oppure no; d’altronde Tiberio morì alla veneranda età di settantanove anni, che all’epoca era un traguardo notevole, e quindi la causa potrebbe essere stata semplicemente la vecchiaia. Svetonio ci presenta un Tiberio anziano, che non venne subito ucciso dal veleno propinatogli da Caligola ma che, dopo aver fatto resistenza anche al tentativo del nipote di soffocarlo con un cuscino, morì solo quando questi gli strinse personalmente le mani sul collo. L’incredibile scena termina con un liberto colto da una crisi isterica in piena regola che si mette a gridare vedendo l’imperatore morto, tanto che Caligola si vede costretto a farlo crocifiggere.

    Ve lo immaginate un vecchio di quasi ottant’anni e malato che si difende dall’aggressione fisica di un aitante ventenne?

    Dione, invece, ci propone una versione del delitto un po’ più plausibile, che però vede sempre Caligola quale reo del crimine. Secondo lui, il ragazzo cominciò negando il cibo all’imperatore; poi un giorno, resosi conto che quel sistema non funzionava o che comunque era troppo lento, seppellì letteralmente la sua vittima sotto un notevole numero di coperte, con la scusa di volerlo tenere al caldo, provocandone la morte per soffocamento.

    Non è improbabile che il giovane Caligola fosse in qualche modo responsabile della malattia di Tiberio, ma è quasi impossibile che le cose siano andate così come le descrive Svetonio.

    Tra Caligola e Macrone doveva correre buon sangue perché, alla morte di Tiberio, il prefetto del pretorio lo aiutò a mettere in atto anche la seconda parte del suo piano. Il testamento di Tiberio proprio per gli armeggi di Macrone fu, infatti, dichiarato nullo con la motivazione che era stato redatto da una persona non nel pieno possesso delle sue capacità mentali. Se Tiberio fosse stato mentalmente sano, non avrebbe mai scelto come successore un ragazzino di appena diciassette anni come Tiberio Gemello, il quale avrebbe dovuto governare insieme a Caligola secondo le disposizioni testamentarie. Che si trattava di una macchinazione per fare fuori Gemello era chiaro; infatti, a diciassette anni un romano era considerato quasi un adulto e quindi la motivazione addotta era palesemente assurda. La situazione è ancora più inverosimile se si pensa che Gemello non avrebbe dovuto governare da solo ma con l’aiuto di Caligola. Nonostante ciò, l’obbiezione fu accettata da tutti e così Gemello fu estromesso dalla successione. Il piano riuscì più che altro perché Gemello era nipote di Tiberio e quindi di scarso interesse, mentre Caligola era il figlio del grande Germanico.

    L’eliminazione fisica di Gemello avvenne un anno dopo la modifica del testamento, quando Caligola aveva già provveduto ad adottarlo come successore per

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