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Il guerriero di Roma - 4 romanzi in 1
Il guerriero di Roma - 4 romanzi in 1
Il guerriero di Roma - 4 romanzi in 1
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Il guerriero di Roma - 4 romanzi in 1

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Fuoco a Oriente - Il re dei re - Sole bianco - Il silenzio della spada

Combatti per Roma
Difendi il tuo onore

Intrighi, rivolte e guerre di potere. Difendere Roma è la sua vita.
Dopo un’egemonia durata secoli, nell’anno 255 l’Impero romano subisce una battuta d’arresto lungo il suo trionfale cammino: la sua autorità è minacciata ai confini orientali. Un uomo solo, il guerriero più abile di Roma, è chiamato a organizzare la resistenza e a confrontarsi con il nemico più duro e violento che abbia mai incontrato. E lo stesso uomo, il generale Balista, viene richiamato a corte quando, un anno dopo, l’Impero si ritrova sotto attacco, dentro e fuori i confini. Coinvolto in nuove sfide contro personaggi inquietanti e spietati, il leggendario combattente vedrà poi avvicinarsi un terribile pericolo che minaccia lui, i figli, la moglie Giulia e tutta la sua famiglia. Dilaniato dal dubbio di dover anteporre la salvezza dell’Impero a quella dei suoi, Balista scoprirà sulla sua pelle che il nemico è in agguato ovunque, oscuro e inafferrabile.

Quando l’impero è in pericolo può contare solo sul coraggio e la fedeltà degli uomini migliori.

«Un coinvolgente romanzo storico, ricco di azione, che tiene il lettore costantemente col fiato sospeso.»
The Guardian

«Scritto con straordinaria maestria. Lo stile di Sidebottom è vivo e vibrante, senza mai perdere l’autorevolezza storica.»
The Times
Harry Sidebottom
Ha conseguito un dottorato in Storia antica al Corpus Christi College. Attualmente insegna Storia all’università di Oxford (con una predilezione per l’antica Roma) e vive a Woodstock. È autore della saga Il guerriero di Roma, che ha appassionato milioni di lettori in tutto il mondo. La Newton Compton ha già pubblicato i primi cinque episodi della serie: Fuoco a oriente, Il re dei re, Sole bianco, Il silenzio della spada e La battaglia dei lupi.
LanguageItaliano
Release dateApr 28, 2014
ISBN9788854166653
Il guerriero di Roma - 4 romanzi in 1

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    Il guerriero di Roma - 4 romanzi in 1 - Harry Sidebottom

    724

    Prima edizione ebook: maggio 2014

    © 2009, 2010, 2011, 2012, 2014 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    Titoli originali:

    Warrior of Rome I. Fire in the East(Traduzione dall’inglese di Susanna Scrivo)

    Warrior of Rome Part II: King of Kings(Traduzione dall’inglese di Susanna Scrivo)

    Warrior of Rome Part III: The Lion of the Sun (Traduzione dall’inglese di Elisabetta Bertozzi)

    Warrior of Rome Part IV. The Caspian Gates (Traduzione dall’inglese di Giampiero Cara)

    Copyright © Dr Harry Sidebottom, 2008, 2009, 2010, 2011

    ISBN 978-88-541-6665-3

    www.newtoncompton.com

    Edizione elettronica realizzata da Gag srl

    Harry Sidebottom

    Il guerriero di Roma

    Fuoco a Oriente

    Il re dei re

    Sole bianco

    Il silenzio della spada

    Newton Compton editori

    Fuoco a Oriente

    A Frances, Lisa, Tom e Jack Sidebottom

    «E che, nell’assediare una fortezza, si battano per persuadere chiunque tra coloro che abitano la città e la fortezza, e tramite loro ottengano due cose: la prima, che svelino i loro segreti, e la seconda, che siano intimiditi e terrorizzati da loro stessi. E che un uomo sia inviato con mezzi insidiosi a inquietare le loro menti, e li privi di ogni speranza di soccorso, e dica loro che gli infidi segreti sono stati svelati, e che si narrano storie sulla loro fortezza, e che dita vengono puntate contro i punti fortificati e deboli della città, e verso dove saranno diretti gli arieti, e dove verranno scavate le mine, e dove verranno posizionate le scale, e dove le mura saranno scalate, e dove verrà appiccato il fuoco – affinché tutto ciò li riempia di terrore…».

    Frammento dal sassanide Libro di Ayin

    PROLOGO

    ESTATE 238 D.C.

    La guerra è un inferno. La guerra civile è ancora peggio. Quella guerra civile non stava andando bene. Niente stava andando secondo i piani. L’invasione dell’Italia si era arrestata.

    Le truppe avevano dovuto affrontare l’attraversamento delle Alpi prima che nei passi il sole primaverile avesse sciolto le nevi. I soldati credevano che sarebbero stati accolti come liberatori. Era stato detto loro che sarebbe bastato semplicemente mettere piede in Italia per vedersi correre incontro la gente che tendeva rami d’ulivo, spingeva avanti i loro figli, e implorava misericordia gettandosi ai loro piedi.

    Non era successo quello che avevano sperato. Erano venuti giù dalle montagne per arrivare in un paesaggio vuoto. Gli abitanti erano fuggiti, portando via tutto quello che erano riusciti a spostare. Persino le porte delle loro case e dei templi non c’erano più. Le pianure normalmente animate erano deserte. Mentre i soldati attraversavano la città di Emona, l’unica cosa in vita che avevano incontrato era un branco di lupi.

    Ora, l’esercito era rimasto accampato per oltre un mese fuori dalle mura della città dell’Italia settentrionale Aquileia. Le legioni e gli ausiliari erano affamati, assetati e stanchi. Le catene di rifornimenti, improvvisate frettolosamente, si erano spezzate. Sul luogo non c’era nulla da mangiare. Quello che i cittadini non avevano raccolto all’interno delle mura, l’avevano distrutto i soldati stessi al loro arrivo. Non avevano riparo. Tutti gli edifici della periferia erano stati buttati giù per procurare il materiale necessario per le opere di assedio. Il fiume era stato inquinato dai cadaveri di entrambi gli schieramenti.

    L’assedio non faceva progressi. Non si riusciva a fare breccia nelle mura, non c’erano abbastanza macchine da assedio, la difesa era troppo efficace. Ogni tentativo di prendere d’assalto le mura con scale e torri mobili finiva in un sanguinoso fallimento.

    E tuttavia non si poteva biasimare il coraggio del grande uomo. Ogni giorno l’imperatore Massimino Trace cavalcava intorno alla città, ben all’interno della portata del tiro d’arco del nemico, lanciando urla di incoraggiamento ai suoi uomini nelle linee d’assedio. Passando tra i ranghi, prometteva ai soldati la città e chiunque vi fosse dentro, per farci quello che volevano. Per quanto il suo coraggio non venisse mai messo in dubbio, la sua capacità di giudizio era sempre stata sospetta. A ogni nuova disfatta diventava più feroce. Simile a una bestia ferita o, come dicevano molti, al contadino per metà barbaro che sarebbe sempre rimasto, se la prendeva con quelli che lo circondavano. Gli ufficiali che guidavano i tentativi, destinati a fallire, di scalare le mura venivano giustiziati in modi sempre più originali. Un’ingegnosità speciale, poi, era riservata a coloro che provenivano dalla nobiltà.

    Balista era ancora più affamato, assetato e stanco degli altri. Era un giovane alto, solo sedici inverni e oltre un metro e ottanta di altezza, e ancora cresceva. Nessuno sentiva la mancanza di cibo più intensamente di lui. I suoi lunghi capelli biondi correvano lisci lungo la sua schiena. Un residuo di nausea lo tratteneva dal lavarsi sulla sponda del fiume. Da ieri, un odore di bruciato, il fetore di carne carbonizzata, si era unito agli altri odori che aveva appiccicati addosso.

    Nonostante la sua giovane età e lo stato di ostaggio diplomatico in rappresentanza della sua tribù, tutti avevano ritenuto giusto che uno con i suoi natali, uno della stirpe di Odino, dovesse guidare una delle unità di irregolari germanici. I romani avevano calcolato l’altezza del muro, avevano fornito ai soldati scale della giusta lunghezza e, con Balista in testa, quei circa cinquecento barbari sacrificabili erano stati mandati all’assalto. Gli uomini erano partiti in un balzo, piegati in avanti nella tempesta di dardi. I corpi ingombranti dei germanici e la loro mancanza di armature li avevano resi dei bersagli facili. Quel suono disgustoso, quello di un dardo che faceva centro, si ripeteva continuamente. Erano caduti in massa. I sopravvissuti avevano continuato ad avanzare impavidi. Presto, le mura levigate si erano presentate, svettanti, davanti a loro. Molti altri erano caduti mettendo da parte gli scudi per alzare le scale.

    Balista era stato uno dei primi a salirci. Aveva cominciato ad arrampicarsi con una mano, lo scudo tenuto sopra la testa, la spada ancora nel fodero. Una pietra lanciata dall’alto aveva colpito il suo scudo, e per poco lui non era caduto dalla scala. Il rumore era stato indescrivibile. Balista aveva visto un lungo palo apparire oltre il muro e si era sporto all’infuori, verso la scala accanto. In cima al palo c’era una grossa anfora. Il palo fu lentamente girato, l’anfora capovolta, e un miscuglio fiammeggiante di catrame e olio, zolfo e bitume si era riversato come pioggia sui soldati in cima alla scala. Gli uomini gridavano, mentre i loro vestiti si bruciavano e si ritiravano, aderendo alla loro carne che arrostiva. Erano caduti uno dopo l’altro. Il liquido incendiario era schizzato anche su coloro che stavano a terra: battevano le fiamme con le mani e si rotolavano sul terreno. Non c’era modo di spegnere il fuoco.

    Quando Balista alzò lo sguardo, c’era un’altra anfora sulla sua testa, e il palo che la reggeva stava cominciando a girare. Senza alcuna esitazione, Balista si era lanciato giù dalla scala. L’atterraggio fu violento. Per un momento aveva pensato di essersi rotto o slogato la caviglia e che sarebbe bruciato vivo. Ma l’istinto di conservazione aveva avuto la meglio sul dolore e, gridando ai suoi uomini di seguirlo, era scappato via.

    Già da un po’ di tempo Balista era convinto che una cospirazione fosse inevitabile. Per quanto gli fosse stata inculcata la disciplina romana, nessuno dei soldati avrebbe sopportato a lungo questo assedio. E dopo il disastro di quel giorno, Balista non si sorprese quando fu avvicinato.

    Ora, nell’attesa di fare la sua parte, si rese conto di quanto fosse profonda la sua paura. Non desiderava fare l’eroe. Eppure non aveva scelta. Se non avesse agito, Massimino Trace l’avrebbe giustiziato, altrimenti i cospiratori l’avrebbero ucciso.

    I cospiratori avevano ragione. C’erano pochissime guardie intorno alla tenda imperiale. Molti di loro dormivano. Era quell’ora sonnolenta subito dopo mezzogiorno. L’ora in cui l’assedio era in pausa. L’ora in cui l’imperatore e suo figlio riposavano.

    Un cenno del capo di uno dei cospiratori e Balista si incamminò verso l’enorme tenda color porpora che aveva fuori gli stendardi. Improvvisamente si rese conto di che bella giornata fosse; un perfetto giorno di inizio giugno, un giugno italiano, caldo con una leggera brezza. Un’ape ronzò da una parte all’altra della sua strada. Le rondini volteggiavano nel cielo.

    Una guardia pretoriana bloccò la strada di Balista con la sua lancia.

    «Dove credi di andare, barbaro?»«Ho bisogno di parlare con l’imperatore». Balista parlò in modo ragionevole, con un marcato accento latino.

    «E chi non ne ha?». Il pretoriano era disinteressato. «Ora levati dalle palle, ragazzo».

    «Sono a conoscenza di una cospirazione contro di lui». Balista abbassò la voce. «Alcuni tra gli ufficiali, i nobili, stanno complottando per ucciderlo». Scrutò l’evidente indecisione della guardia. Alla fine, il timore del potenziale pericolo di non informare un imperatore sospettoso e vendicativo su una possibile cospirazione superò la paura naturale di svegliare un uomo sempre più irascibile e violento, al quale le cose non stavano andando bene.

    «Aspetta qui». Il pretoriano convocò un altro soldato per tenere d’occhio il barbaro e scomparve dentro la tenda.

    Riapparve dopo poco e disse all’altro pretoriano di disarmare e perquisire il giovane barbaro. Dopo aver consegnato spada e pugnale, Balista fu accompagnato nella tenda; prima in un’anticamera, poi nella stanza privata più interna.

    All’inizio, Balista riuscì a vedere poco. L’oscurità tinta di porpora nell’intimità della tenda era profonda, in confronto alla brillante luce del sole all’esterno. Appena i suoi occhi si adattarono al buio, riuscì a distinguere il fuoco sacro, sempre portato dinanzi all’imperatore regnante, che bruciava debolmente sul suo altare mobile. Poi riuscì a vedere un’ampia branda. Da essa emerse l’enorme faccia pallida dell’imperatore Gaio Giulio Vero Massimino, comunemente noto come Massimino Trace, Massimino della Tracia. Attorno al suo collo scintillava la famosa torque d’oro, che il suo valore come soldato privato dell’imperatore Settimo Severo gli aveva fatto guadagnare.

    Dall’angolo più lontano della tenda una voce infranse il silenzio, «Prostrati in adorazione, proskynesis». Mentre veniva spinto sulle ginocchia dal pretoriano, Balista vide il bel figlio di Massimino Trace venire fuori dall’oscurità. Riluttante, si prostrò ai suoi piedi, poi, quando Massimino Trace gli porse la mano, baciò un pesante anello d’oro nel quale era incastonata una gemma con l’incisione di un’aquila.

    Massimino Trace si sedette sul bordo della branda. Indossava una semplice tunica bianca. Suo figlio era in piedi, al suo fianco, con i suoi abiti abituali, decorati in modo elaborato, la corazza e la spada d’argento ornamentale, con il manico a forma di testa d’aquila. Balista rimase in ginocchio.

    «Dèi del cielo, quanto puzza», disse il figlio, avvicinandosi un panno profumato al naso. Suo padre fece un cenno con la mano per zittirlo.

    «Tu sei al corrente di un complotto contro la mia vita». I grandi occhi grigi di Massimino Trace esaminarono il volto di Balista. «Chi sono i traditori?»

    «Gli ufficiali, gran parte dei tribuni, e alcuni tra i centurioni, della Legio II Parthica, dominus».

    «Dimmi i loro nomi».

    Balista sembrò riluttante.

    «Non far attendere mio padre. Di’ i loro nomi», disse il figlio.

    «Si tratta di uomini potenti. Hanno molti amici, e molta influenza. Se venissero a sapere che li ho denunciati, mi farebbero del male».

    Il grande uomo rise, un orribile suono stridente. «Se quello che dici è vero, non saranno più nella posizione di nuocere a te e a nessun altro. Se quello che dici non è vero, quello che potrebbero farti loro sarà l’ultima delle tue preoccupazioni».

    Balista recitò lentamente una sfilza di nomi. «Flavio Vopisco, Giulio Capitolino, Elio Lampridio». Erano in tutto dodici nomi. Che si trattasse dei veri nomi degli uomini coinvolti nella cospirazione era, a quel punto, una questione di poco conto.

    «Come fai a sapere che questi uomini vogliono uccidermi? Che prove hai?»«Mi hanno chiesto di unirmi a loro». Balista parlò ad alta voce, nella speranza di distrarre l’attenzione dal rumore sempre più forte proveniente dall’esterno. «Ho chiesto loro delle istruzioni scritte. Le ho qui».

    «Cos’è quella fila di gente?». Massimino Trace urlò, mentre il suo volto si contraeva nell’usuale espressione di nervosismo. «Pretoriano, di’ loro di fare silenzio». Allungò una mano enorme verso i documenti che Balista gli stava porgendo.

    «Come potete vedere». Balista continuò.

    «Silenzio», ordinò l’imperatore.

    Invece di affievolirsi, il rumore fuori dalla tenda crebbe. Massimino Trace, con la faccia ora contratta dalla rabbia, si rivolse a suo figlio. «Esci fuori e di’ loro di tenere quelle maledette bocche chiuse».

    Massimino Trace continuò a leggere. Quindi, un aumento improvviso di rumore gli fece sollevare la faccia pallida. Balista interpretò il gesto come il primo barlume di sospetto.

    Balista saltò in piedi. Afferrò l’altare che portava il fuoco sacro e lo agitò in direzione della testa dell’imperatore. Massimino Trace afferrò il polso di Balista con una presa incredibilmente forte. Con la mano libera gli diede un pugno in faccia. La testa del giovane scattò di colpo all’indietro. Il grande uomo lo colpì allo stomaco. Balista crollò a terra. Con una mano, l’imperatore sollevò di nuovo Balista in piedi. Portò la sua faccia, simile a una roccia, vicino a quella di Balista. Il suo alito puzzava di aglio.

    «Morirai lentamente, stronzetto».

    Massimino Trace lanciò Balista lontano. Il giovane andò a schiantarsi contro alcune sedie e rovesciò un tavolo da campo.

    Mentre l’imperatore prendeva la sua spada e si dirigeva verso la porta, Balista tentò disperatamente di cacciare un po’ d’aria nei polmoni e rimettersi in piedi. Si guardò intorno alla ricerca di un’arma. Non trovandone alcuna, prese uno stilo da un tavolino da scrittura e seguì con passo esitante l’imperatore.

    Dall’anticamera, l’intera scena all’esterno appariva incorniciata e chiaramente illuminata come se si fosse trattato di un dipinto in un tempio o in un portico. Lontano, gran parte dei pretoriani stava correndo. Altri si erano uniti ai legionari della Legio II e stavano tirando giù i ritratti imperiali dagli stendardi. Più vicino, c’era un tumulto di corpi intenti a picchiarsi. Subito al di là della soglia si ergeva la schiena potente di Massimino Trace. Spada in mano, la sua testa enorme si girava da una parte all’altra.

    Il clamore si arrestò, e sulla folla si erse la testa mozzata del figlio di Massimino Trace, conficcata su una lancia. Anche se macchiata dal fango e dal sangue, era ancora bella.

    Il rumore che fece l’imperatore non era umano. Prima che il grande uomo potesse muoversi, Balista si lanciò in modo malsicuro alla sua schiena. Come un cacciatore di bestie nell’arena che cerca di finire un toro, Balista infilzò lo stilo nel collo di Massimino Trace. Con un ampio movimento del braccio, il grande uomo schiantò Balista all’indietro, da una parte all’altra dell’anticamera. L’imperatore si voltò, cavò fuori lo stilo e lo scagliò, insanguinato, verso Balista. Poi alzò la spada, e avanzò.

    Il giovane cercò tentoni di rimettersi in piedi, afferrò una sedia, tenendola davanti a lui come uno scudo improvvisato, e arretrò.

    «Piccolo traditore, tu mi hai dato il tuo giuramento, il giuramento militare, il sacramentum». Il sangue scorreva a fiotti dal collo dell’imperatore, ma non sembrava frenarlo. Con due colpi di spada mandò in pezzi la sedia.

    Balista si girò per evitare il colpo, ma sentì un dolore lancinante quando la spada si conficcò tra le sue costole. Sul pavimento, ora Balista teneva le braccia sulla ferita, e tentava di trascinarsi indietro. Massimino Trace stava in piedi davanti a lui, pronto a sferrare il colpo finale.

    Una lancia si conficcò nella schiena indifesa dell’imperatore.

    Barcollò involontariamente in avanti. Un’altra lancia si infilzò ancora nella sua schiena. Fece un altro passo, poi si rovesciò, atterrando su Balista. Il suo peso enorme stava schiacciando il giovane. Il suo fiato, caldo e fetido, era sulla guancia di Balista. Sollevò le dita per cavare gli occhi del ragazzo.

    In qualche modo, lo stilo era di nuovo nella mano destra di Balista. Con una forza nata dalla disperazione, il giovane lo portò alla gola dell’imperatore. Il sangue schizzò fuori. Le dita dell’imperatore scattarono all’indietro. Il sangue punse gli occhi di Balista.

    «Ci rivedremo». Il grande uomo proferì la sua minaccia finale in un ghigno ripugnante, con il sangue che gorgogliava e schiumava dalla bocca contorta.

    Balista rimase a guardare mentre tiravano fuori il corpo. Si gettarono su di esso come un branco di cani da caccia che smembra la preda. La sua testa fu tagliata via e, come quella del figlio, innalzata su una lancia. Il corpo enorme fu lasciato sul posto affinché chiunque potesse calpestarlo e profanarlo, e gli uccelli e i cani lo facessero a pezzi.

    Molto più tardi, le teste di Massimino Trace e di suo figlio furono mandate a Roma per essere esposte in pubblico. Quello che era rimasto dei loro corpi fu gettato nel fiume per negare loro la sepoltura, per negare il riposo alle loro anime.

    NAVIGATIO

    AUTUNNO 238 D.C.

    I

    Quando la nave da guerra ebbe superato i frangiflutti del porto di Brundisium, le spie si erano già riconosciute tra loro. Sedevano sul ponte, senza dare nell’occhio tra gli uomini del dux ripae. Dalla loro posizione, vicino alla prua, guardavano indietro lo stretto scafo della galea fino a dove si ergeva l’oggetto della loro attenzione, oltre trecento metri più in là.

    «Fottuto barbaro. Tre di noi qui solo per tenere d’occhio un fottuto barbaro. Ridicolo». Il frumentarius parlò con calma, muovendo appena le labbra.

    L’accento di chi aveva parlato rimandava ai bassifondi della Suburra, nella valle affollata tra due dei sette colli della Città Eterna. Le sue origini potevano essere umili, ma, in qualità di frumentarius, lui e i suoi due colleghi erano tra le persone più temute dell’impero romano, l’imperium. Come frumentarii, il loro titolo avrebbe dovuto implicare che avevano qualcosa a che fare con la distribuzione del grano o con le razioni dell’esercito. Nessuno ci cascava. Era come chiamare l’impetuoso Mar Nero il mare ospitale, o i demoni del castigo i benevoli. Dal più patrizio dei consolari di Roma, fino allo schiavo più umile nella provincia più remota, come una nella Britannia, i frumentarii erano noti e odiati per ciò che in realtà erano: la polizia segreta dell’imperatore, le sue spie, i suoi assassini, i suoi sicari – almeno, così erano universalmente conosciuti. Si trattava di un’unità speciale dell’esercito, i cui membri venivano trasferiti in altre unità, e il cui campo era sul colle Celio. Come individui, i frumentarii erano raramente riconoscibili. Si diceva che, se riconoscevi un frumentarius, era perché lui voleva farsi riconoscere, e allora era troppo tardi.

    «Non lo so», disse uno degli altri due. «Potrebbe essere una buona idea. I barbari sono per loro natura inaffidabili, e spesso più astuti di quanto si possa immaginare». La sua voce rievocò le montagne e le pianure bagnate dal sole del lontano ovest, le province della Spagna estrema o persino della Lusitania, dove l’Atlantico si infrangeva contro la costa.

    «Balle», disse il terzo. «Certo, sono tutti dei bashtardi inaffidabili. Imparano prima a mentire che a camminare. Ma quelli del nord, come queshto bashtardo, sono ottusi, lenti, se preferite. I voshtri nordici sono grossi, feroci e shtupidi, mentre i voshtri orientali sono minuti, shcaltri e se la fanno sotto dalla paura per qualsiasi cosa». Il difetto di pronuncia intermittente rivelava che la sua lingua madre non era il latino, ma il punico, dal Nord Africa: la lingua parlata quasi cinquecento anni prima da Annibale, il grande nemico di Roma.

    Tutti gli uomini sul ponte, insieme alla ciurma al di sotto, cadde in silenzio quando Marco Clodio Balista, vir egregius, cavaliere di Roma, e dux ripae, comandante delle sponde fluviali, alzò le sue braccia al cielo per cominciare il consueto rito all’inizio di un viaggio. Il mare era calmo in quel punto, là dove le acque riparate del porto di Brundisium incontravano l’Adriatico. Con i suoi lunghi remi a riposo, la galea giaceva come un enorme insetto sulla superficie dell’acqua. Balista iniziò a intonare le parole tradizionali in un buon latino, che tuttavia conservava il suono vibrante delle foreste e delle paludi del lontano nord:

    «Giove, re degli dèi, tieni le tue mani su questa nave e su coloro che su essa navigano. Nettuno, dio del mare, tieni le tue mani su questa nave e su coloro che su essa navigano. Tyche, spirito della nave, tieni le tue mani su di noi». Prese da un inserviente un’ampia coppa finemente lavorata e, lentamente, con la dovuta cerimonia, versò tre libagioni di vino nel mare, svuotandola.

    Qualcuno starnutì. Balista mantenne la sua posa allungata. Lo starnuto era stato inconfondibile, innegabile. Nessuno si mosse o parlò. Chiunque sapeva che il peggior auspicio per un viaggio in mare, l’indicazione più chiara possibile del malcontento degli dèi, era lo starnuto di qualcuno durante i rituali che precedevano la partenza. Balista, immobile, mantenne la sua posa. La cerimonia si sarebbe già dovuta concludere. Un’aria di aspettativa e di tensione si diffuse nella nave. Quindi, con un energico scatto del polso, Balista lanciò in aria la coppa. Appena essa cadde in acqua, si udì un sospiro collettivo. Per un momento la si vide scintillare sotto la superficie, prima di scomparire per sempre.

    «Tipico fottuto barbaro», disse il frumentarius della Suburra. «I soliti gesti grandi e stupidi. Non servirà a cancellare il cattivo presagio, nulla può farlo».

    «Quella coppa avrebbe dovuto portare a casa un bel pezzo di terra», disse il nordafricano.

    «Tanto per cominciare, probabilmente l’aveva rubata», replicò l’ispanico, tornando al precedente oggetto della loro conversazione. «Certo, i barbari del nord saranno anche stupidi, ma il tradimento è insito nella loro natura tanto quanto in quella di un qualsiasi orientale».

    Il tradimento era la ragione per cui esistevano i frumentarii. Il vecchio detto dell’imperatore Domiziano, che nessuno credeva che un complotto contro l’imperatore fosse vero finché egli non veniva assassinato, certamente non poteva applicarsi a loro. I loro pensieri erano intrisi di tradimenti, complotti e controcomplotti; la loro spietata combinazione di segretezza, efficienza e ossessione gli garantiva l’odio della gente.

    Il capitano della nave, dopo aver chiesto il permesso di Balista, richiese il silenzio prima di mettersi in viaggio, e i tre frumentarii furono lasciati ai loro pensieri. Ognuno di loro aveva molto su cui riflettere. A chi era stato dato il compito di riferire sugli altri due? O c’era un quarto frumentarius tra gli uomini del dux ripae, così ben camuffato da essere difficilmente individuabile?

    Demetrio sedeva ai piedi di Balista, che nella sua lingua madre, il greco, chiamava kyrios, «signore». Nonostante tutto ringraziava ancora il suo demone personale per averlo portato su quella strada. Sarebbe stato difficile immaginare un kyrios migliore. «Uno schiavo non dovrebbe attendere la mano del suo padrone», recitava il vecchio detto. Balista non aveva mai alzato le mani su di lui in quei quattro anni, da quando la moglie del kyrios aveva acquistato Demetrio per impiegarlo come nuovo segretario: uno tra i molti regali di nozze. I suoi precedenti proprietari, al contrario di Balista, non si erano fatti molti scrupoli a usare su di lui pugni, o a fare molto peggio.

    In quel momento il kyrios gli era apparso magnifico, mentre faceva i suoi voti e lanciava la pesante coppa d’oro in mare. Era stato un gesto degno del suo eroe, il grande Alessandro Magno. Un gesto impulsivo di generosità, pietà e disprezzo per i beni materiali. Aveva donato la sua ricchezza agli dèi per il bene di tutti loro, per allontanare il cattivo auspicio dello starnuto.

    Demetrio considerò che c’era molto di Alessandro in Balista: il volto ben rasato; i capelli d’oro tirati indietro, sollevati come la criniera di un leone, che cadevano in riccioli sui due lati dell’ampia fronte; le spalle larghe e gli arti dritti e decisi. Naturalmente Balista era più alto; Alessandro era stato, come tutti sapevano, un uomo di bassa statura. E poi c’erano gli occhi. Quelli di Alessandro erano di colori diversi, in modo sconcertante; quelli di Balista erano di un blu intenso e profondo.

    Demetrio chiuse il pugno, con il pollice tra indice e mignolo, per allontanare il malocchio, quando lo colpì il pensiero che Balista doveva avere all’incirca trentadue anni, l’età in cui Alessandro era morto.

    Guardò con espressione attonita mentre la nave salpava. Gli ufficiali gridavano a squarciagola gli ordini, un suonatore di cornamusa suonava note stridule, i marinai infilavano motivi imbrogliati di corde e da sotto coperta venivano i grugniti dei rematori, gli schizzi dei remi e il suono dello scafo che acquistava velocità sull’acqua. I grandi storici dell’immortale passato greco – Erodoto, Tucidide e Senofonte – non avevano preparato il giovane schiavo amante della lettura all’assordante suono di una galea.

    Demetrio alzò lo sguardo sul suo kyrios. Le mani di Balista erano immobili, apparentemente salde alle estremità delle braccia di avorio della sedia pieghevole curule, un simbolo romano del suo alto ufficio. Aveva un’espressione calma; fissava dritto davanti a sé, come se fosse stato parte di un dipinto. Demetrio ebbe per un momento il dubbio che il kyrios fosse un cattivo marinaio. Soffriva il mal di mare? Aveva mai navigato per una tratta maggiore a quella che univa la punta dell’Italia alla Sicilia? Dopo un momento di riflessione, scacciò dalla testa tali idee di umana debolezza. Sapeva cosa opprimeva il suo kyrios. Altri non era che Afrodite, la dea dell’amore, e il suo figlio dispettoso Eros: Balista sentiva la mancanza di sua moglie.

    L’unione tra Balista e la kyria, Giulia, all’inizio non aveva conosciuto l’amore. Era stato un matrimonio organizzato, come tutti quelli dell’élite. Una famiglia di senatori in cima alla piramide sociale, ma a corto di denaro e influenza, aveva dato la loro figlia a un ufficiale dell’esercito in carriera. Certo, di origini barbare, ma era pur sempre un cittadino romano, membro dell’ordine equestre, il rango che stava appena al di sotto dei senatori stessi. Si era distinto nelle campagne sul Danubio, tra le isole del lontano oceano e nel Nord Africa, dove si era guadagnato la corona murale per essere stato il primo uomo a salire sulle mura di una città nemica. Soprattutto, era stato educato alla corte imperiale ed era uno dei favoriti dell’imperatore di allora, Gallo. Se era un barbaro, era quantomeno il figlio di un re, che era venuto a Roma come ostaggio diplomatico.

    Con il matrimonio, la famiglia di Giulia aveva guadagnato una presenza influente alla corte e, con un po’ di fortuna, una futura ricchezza. Balista aveva guadagnato rispettabilità. Da un inizio così convenzionale, Demetrio aveva visto crescere l’amore. Le frecce di Eros avevano colpito così profondamente il kyrios che egli non era stato a letto con nessuna delle domestiche, persino quando sua moglie era in procinto di partorire loro figlio; una cosa spesso rimarcata nelle stanze della servitù, date le origini barbare di Balista, con tutto ciò che questo implicava circa la lussuria e la mancanza di autocontrollo.

    Demetrio avrebbe cercato di provvedere alla compagnia di cui il suo kyrios aveva così tanto bisogno, sarebbe stato al suo fianco per tutta la missione – una missione che al solo pensiero gli faceva rivoltare lo stomaco. Fin dove avrebbero dovuto spingersi, attraverso mari in tempesta e terre selvagge? E quali orrori li avrebbero attesi ai confini del mondo conosciuto? Il giovane schiavo ringraziava il suo dio greco Zeus di trovarsi sotto la protezione di un soldato di Roma come Balista.

    Che pantomima, pensò Balista. Nient’altro che una pantomima maledetta. Già, qualcuno aveva starnutito. C’era poco da sorprendersi: tra i trecento uomini sulla nave, uno poteva avere il raffreddore. Se gli dèi avessero voluto mandare un presagio, doveva esserci un modo più chiaro di farlo.

    Balista dubitava fortemente che questi filosofi greci di cui aveva sentito parlare potessero avere ragione quando affermavano che tutti i diversi dèi conosciuti da tutte le varie razze umane fossero in realtà sempre gli stessi con nomi diversi. Giove, il re romano degli dèi, gli sembrava molto diverso da Odino, il re degli dèi della sua infanzia e giovinezza trascorse tra la sua gente, gli Angli. Certo, c’erano delle similitudini. A tutt’e due piaceva travestirsi. A tutt’e due piaceva farsela con le ragazze mortali. Erano tutt’e due piuttosto cattivi, incrociarli non era piacevole. Ma c’erano delle grosse differenze. A Giove piaceva farsela anche con i ragazzi mortali, e questo genere di cose non erano affatto gradite a Odino. Giove sembrava parecchio meno malevolo di Odino. I romani credevano che, se avvicinato nel modo giusto, con le giuste offerte, Giove potesse realmente intervenire e portare il suo aiuto. Era altamente improbabile che Odino facesse lo stesso. Potevi anche essere di uno dei suoi discendenti – uno della stirpe di Odino, come Balista stesso – ma probabilmente il meglio che potevi aspettarti dal Padre del Tutto era essere lasciato solo fino alla battaglia finale. Quindi, se combattevi come un eroe, avrebbe mandato avanti le sue fanciulle scudo per portarti a Valhalla. In seguito a queste riflessioni, Balista si chiese perché avesse donato quella coppa d’oro. Con un sonoro sospiro, decise di pensare a qualcos’altro. La teologia non faceva per lui.

    Rivolse i suoi pensieri alla missione. Era ragionevolmente semplice. Per il tenore della burocrazia imperiale romana, era molto semplice. Era stato designato come nuovo dux ripae, comandante di tutte le forze romane sulle sponde dei fiumi Tigri ed Eufrate e su tutte le terre nel mezzo. Il titolo era decisamente più altisonante sulla carta che non in realtà. Tre anni prima, i persiani sassanidi, del nuovo e aggressivo impero d’Oriente, avevano attaccato i territori a est di Roma. Infiammati dal fervore religioso, orde di loro cavalieri avevano spazzato via le sponde dei fiumi della Mesopotamia, fino alla Siria. Prima di tornare indietro, carichi dei tesori saccheggiati, spingendo avanti i prigionieri, avevano abbeverato i loro cavalli nel Mar Mediterraneo. Così per il nuovo dux ripae, adesso, in realtà non c’era quasi nessuna forza romana da comandare.

    Le specifiche delle istruzioni ricevute da Balista, i suoi mandata, rivelavano necessariamente il debole stato della potenza romana in Oriente. Gli era stato ordinato di procedere fino alla città di Arete, nella provincia della «Siria Cava» (Coele Siria), nella parte più a oriente dell’imperium. Il suo scopo era preparare la città a resistere all’assedio dei sassanidi, un assedio che ci si aspettava sarebbe avvenuto l’anno seguente. C’erano solo due unità di truppe romane regolari al suo comando, un distaccamento, una vexillatio, di fanteria pesante legionaria della Legio IIII Scythica, che contava all’incirca un migliaio di uomini, e una cohors ausiliaria di arcieri sia a cavallo che a piedi, ancora un altro migliaio circa di uomini. Era stato istruito a reclutare quante più leve locali poteva ad Arete e a chiedere delle truppe ai re clienti delle città nelle vicinanze, Emesa e Palmira, ovviamente non a discapito della loro difesa. Doveva tenere Arete finché non fosse stato esonerato dall’esercito da campo imperiale comandato dallo stesso imperatore Valeriano. Per facilitare l’arrivo dell’esercito da campo, era stato inoltre istruito a guardare alla difesa del principale porto della Siria, Seleucia in Pieria, e alla capitale provinciale, Antiochia. In assenza del governatore della Coele Siria, il dux ripae avrebbe avuto i pieni poteri di un governatore. Quando il governatore era presente, il dux era obbligato a rimettersi a lui.

    Balista si scoprì a sogghignare tra sé e sé per l’assurdità delle istruzioni ricevute, assurdità tipica delle missioni militari pianificate dai politici. C’era un’altissima probabilità che si creasse confusione tra lui e il governatore della Coele Siria. E come avrebbe potuto, con le forze del tutto inadeguate che gli erano state assegnate, qualunque fosse stato il numero di contadini locali che sarebbe riuscito ad arruolare, difendere Arete dall’assedio dell’enorme esercito persiano, e con essa almeno altre due città?

    Si era sentito onorato della convocazione alla presenza degli imperatori Valeriano e Gallieno. La coppia gli aveva parlato con la massima gentilezza. Lui ammirava quei due uomini. Valeriano aveva firmato i mandata di Balista e lo aveva investito della carica di dux ripae con le sue stesse mani. Ma non si poteva dire altro di quella missione se non che fosse mal studiata e priva di risorse: troppo poco tempo, e troppo pochi uomini per un’area così vasta. In termini più emotivi, quell’incarico era più simile a una sentenza di morte.

    Alla fine, tre settimane prima di lasciare l’Italia, Balista aveva cercato di scoprire in tutta fretta quello che poteva sulla lontana città di Arete. Si trovava sulla riva occidentale dell’Eufrate, all’incirca settantacinque chilometri al di sotto della confluenza dell’Eufrate con il Chaboras. Si diceva che le sue mura fossero ben fondate e che, su tre lati, dei precipizi a strapiombo la rendessero inespugnabile. Non tenendo conto di un paio di torri di controllo insignificanti, quella città era l’ultimo avamposto dell’imperium Romanum. Arete sarebbe stato il primo luogo che l’esercito persiano avrebbe raggiunto risalendo l’Eufrate. Avrebbe dovuto sopportare la piena forza di un attacco.

    La storia della città, per come Balista era riuscito a scoprire, non ispirava molta fiducia. Fondata in origine da uno dei successori di Alessandro Magno, era caduta prima in mano ai Parti, poi ai romani e in seguito, due anni prima, ai sassanidi persiani, che avevano rovesciato i Parti. Non appena il principale esercito persiano si fu ritirato nella roccaforte a sud-est, gli abitanti locali, con l’aiuto di alcune unità romane, insorsero e massacrarono il presidio che i sassanidi si erano lasciati alle spalle. Nonostante le mura e i precipizi, la città aveva chiaramente le sue debolezze. Balista le avrebbe scoperte una volta giunto sul posto, una volta raggiunta la Siria. Il comandante della cohors ausiliaria di stanza ad Arete aveva ricevuto istruzioni di incontrare Balista al porto di Seleucia in Pieria.

    Niente era mai tranquillo come sembrava, con i romani. Alcuni dubbi giravano nella testa di Balista. Gli imperatori come facevano a sapere che i sassanidi avrebbero invaso la primavera seguente? E che avrebbero seguito la rotta dell’Eufrate, piuttosto che una di quelle verso il nord? Se lo spionaggio militare era valido come si credeva, come mai non era stato dato alcun segnale che un esercito imperiale da campo si stava mobilitando? E, prima ancora, perché era stato scelto proprio Balista come dux ripae? Aveva una certa reputazione come comandante d’assedio – cinque anni prima aveva partecipato con Gallo nel nord alla fortunata difesa della città di Novae contro i Goti; prima di questo, aveva preso diversi insediamenti indigeni sia nel lontano ovest che sui monti dell’Atlante – ma non era mai stato in Oriente. Perché gli imperatori non avevano mandato uno dei loro ingegneri d’assedio con più esperienza? Sia Bonito che Celso conoscevano bene l’Oriente.

    Se solo gli fosse stato concesso di portare con sé Giulia. Essendo nata in una vecchia famiglia senatoriale, lei era di casa nel labirinto della politica alla corte imperiale di Roma, che invece era così impenetrabile per Balista. Lei avrebbe potuto carpire l’essenza degli schemi sempre mutevoli delle nomine e dei vari intrighi, avrebbe potuto soffiare via la nebbia dell’ignoranza che avvolgeva suo marito.

    Il pensiero di Giulia gli provocò una fitta di desiderio, acuta e fisica – i suoi capelli color dell’ebano scompigliati, gli occhi così scuri da sembrare neri, il gonfiore dei suoi seni, l’ardore delle sue labbra. Balista si sentiva solo. Le sarebbe mancata fisicamente. Ma, soprattutto, gli sarebbe mancata la sua compagnia, quella e le tenere ciance del loro figlioletto.

    Balista aveva chiesto il permesso di farli partire con lui. Rifiutando la richiesta, Valeriano aveva sottolineato i chiari pericoli della missione. Ma tutti sapevano che il rifiuto aveva un’altra ragione: il bisogno degli imperatori di trattenere degli ostaggi per accertarsi del giusto comportamento dei loro comandanti militari. Troppi generali dell’ultima generazione si erano ribellati.

    Balista sapeva che si sarebbe sentito solo, per quanto circondato dalla gente. Aveva con sé un seguito di quindici uomini: quattro scribi, sei messaggeri, due araldi, due haruspices, per interpretare i presagi, e Mamurra, il suo praefectus fabrum, l’ingegnere capo. Attenendosi alla legge romana, li aveva scelti dalle liste centrali dei membri ufficialmente riconosciuti di queste professioni, ma di fatto non conosceva nessuno di loro, nemmeno Mamurra, almeno non di persona. Era nel corso naturale delle cose che alcuni di questi uomini sarebbero stati dei frumentarii.

    Così come il seguito ufficiale, Balista aveva portato con sé alcuni della sua famiglia: Calgaco, il suo servo personale, Massimo, la sua guardia del corpo, e Demetrio, il suo segretario. L’aver incaricato il giovane ragazzo greco, che ora sedeva ai suoi piedi, di gestire il quartier generale, di essere il suo accensus, sarebbe stato motivo di risentimento per tutto il seguito ufficiale, ma Balista aveva bisogno di qualcuno di cui potersi fidare. In termini romani, queste persone erano parte della sua familia, ma, a Balista, sembravano un magro sostituto della sua.

    Qualcosa di insolito riguardo al movimento della nave catturò l’attenzione di Balista. I suoi odori familiari – di pino dalla pece utilizzata per sigillare lo scafo, di grasso di montone dal sego usato per rendere impermeabile l’incastro di pelle dei remi, e di sudore umano stantio e fresco – gli ricordavano la sua gioventù sul selvaggio oceano del nord. Questa trireme Concordia, con i suoi centottanta rematori su tre livelli, i suoi due alberi, i suoi due enormi remi-timone, venti membri dell’equipaggio sul ponte e circa settanta fanti di marina, era nel complesso un vascello più sofisticato di qualsiasi lancia della sua gioventù. Era un cavallo da corsa, rispetto a quell’animale da branco del nord. Eppure, come un cavallo da corsa, era stata allevata per una cosa sola, e cioè velocità e manovrabilità nei mari calmi. Se il mare diventava agitato, Balista sapeva che si sarebbe sentito più al sicuro in una primitiva lancia del nord.

    Il vento aveva cambiato direzione in senso antiorario, soffiando verso sud, e stava prendendo velocità. Il mare si stava gonfiando in brutte e increspate onde trasversali che stavano catturando il raggio della trireme, rendendo difficile per i rematori liberare i remi, e al vascello un fastidioso dondolio. All’orizzonte, verso sud, cominciavano a formarsi scure nubi di tempesta. In quel momento Balista si rese conto che il capitano e il timoniere erano immersi in una fitta conversazione. Mentre li osservava, gli sembrò che avessero preso una decisione. Si scambiarono le ultime parole, annuirono e il capitano si avvicinò a Balista.

    «Il tempo sta cambiando, dominus».

    «Cosa consigli di fare?», rispose Balista.

    «La nostra rotta prevedeva di navigare direttamente a est per superare Capo Acroceraunia e poi scendere dritti a sud fino a Corcira, e ora siamo pressappoco a metà strada tra l’Italia e la Grecia, grazie agli dèi. Non possiamo sperare di metterci al riparo, quindi se arriva la tempesta noi dobbiamo correre più veloci di lei».

    «Prendi le decisioni che ritieni migliori».

    «Sì, dominus. Posso chiedere che venga ordinato al tuo seguito di allontanarsi dagli alberi?».

    Mentre Demetrio cercava tastoni il ponte per passare l’ordine, il capitano conferì di nuovo brevemente con il timoniere, per poi emettere una raffica di comandi. I mozzi e i fanti di marina, dopo aver raggruppato il personale lungo le ringhiere laterali, abbassarono rapidamente il pennone della vela maestra di circa un metro, un metro e mezzo sull’albero. Balista approvò. La nave avrebbe avuto bisogno di catturare vento a sufficienza per tenere la velocità, ma troppo l’avrebbe resa difficile da controllare.

    La trireme stava ora dondolando violentemente, e il capitano diede ordine di virare e correre verso nord. Il timoniere chiamò il capovoga e l’ufficiale degli arcieri e poi, al suo segnale, tutti e tre chiamarono i rematori, il suonatore di cornamusa squillò e il timoniere infilò i remi-timone. Inclinandosi in modo allarmante, la galea virò verso la sua nuova direzione. A una successiva raffica di ordini fu sistemata la vela maestra, imbrogliarono strettamente le vele per lasciare aperta solo una piccola area di tela, e i remi dei due livelli inferiori furono tirati a bordo.

    Ora il movimento del vascello era un più docile levare da prua a poppa. Il falegname apparve sulla scala e fece rapporto al capitano.

    «Tre remi a tribordo si sono rotti. Abbiamo imbarcato un po’ d’acqua perché il legno asciutto a tribordo è andato sott’acqua, ma le pompe stanno lavorando, e le tavole potrebbero gonfiarsi e interrompere il flusso da sole».

    «Tenete a portata di mano parecchi remi di ricambio. Potremmo andare incontro a un po’ di turbolenze». Il falegname abbozzò un saluto e scomparve di sotto.

    Era l’ultima ora del giorno quando la piena forza della tempesta colpì. Il cielo diventò scuro come l’Ade, di color nero blu con una sfumatura di giallo soprannaturale, il vento urlava, l’aria era satura di acqua in volo, e la nave beccheggiava furiosamente in avanti, la poppa lontana dal mare. Balista vide due uomini del suo seguito scivolare da una parte all’altra del ponte. Uno fu fermato dal braccio di un marinaio. L’altro andò a sbattere contro la ringhiera. Sopra l’ululato degli elementi, Balista riuscì a sentire un uomo che gridava in agonia. Immaginò quelli che potevano essere i due pericoli più gravi. Un’onda poteva infrangersi dritta sulla nave, le pompe non avrebbero retto, il vascello si sarebbe riempito d’acqua, non rispondendo più al timone, e quindi, presto o tardi, avrebbe mostrato la fiancata alla tempesta e si sarebbe capovolto. Oppure, poteva inclinarsi, un’onda poteva sollevare la poppa così in alto e portare la prua così in profondità che la nave si sarebbe messa dritta o spinta in basso sotto le onde. Almeno, l’ultima opzione avrebbe portato a una fine più veloce. Balista voleva restare in piedi, tenendosi forte e lasciando che il suo corpo provasse a seguire il movimento della nave. Ma, come in battaglia, bisognava dare l’esempio, e lui doveva rimanere sulla sua sedia di ufficio. In quel momento capì perché l’avevano fissata così saldamente al ponte. Guardò in basso e si rese conto che il giovane Demetrio si stava aggrappando alle sue gambe nella classica posa di un supplice. Strinse le spalle del ragazzo.

    Il capitano si trascinò a poppa. Tenendosi rapidamente al dritto di poppa, gridò a squarciagola le parole rituali: «Alessandro vive e regna». Come per rigetto, un lampo frastagliato balenò sul mare a babordo e un tuono esplose. Cronometrando il crollo del ponte, il capitano per metà corse, per metà scivolò verso Balista. Tutta la deferenza verso il rango superiore aveva abbandonato il capitano, che afferrò il trono curule e il braccio di Balista. «Dobbiamo evitare il più possibile di virare. Il vero pericolo è se un remo-timone si rompe. A meno che la tempesta non peggiori. Dovremmo pregare i nostri dèi».

    Balista pensò a Ran, l’arcigna dea nordica del mare, con la sua rete per gli annegati, e decise che le cose stavano andando già abbastanza male.

    «C’è qualche isola al nord che potrebbe ripararci dal vento?», gridò.

    «Se la tempesta ci spinge abbastanza a nord, e noi non siamo ancora con Nettuno, ci sono le isole di Diomede. Ma… in queste circostanze… sarebbe meglio per noi non andare lì».

    Demetrio cominciò a urlare. I suoi occhi scuri brillavano di terrore, le sue parole erano appena udibili.

    «…Storie stupide. Un greco… volato dentro il mare profondo… le isole che nessuno ha visto, piene di satiri, code di cavalli che spuntano fuori dai loro ani, falli giganti… gettò loro una schiava… la violentarono senza tregua… l’unico modo che avevano per scappare… giurò che era vero».

    «Chissà cosa è vero e cosa non lo è…», gridò il capitano, e avanzò fino a scomparire.

    All’alba, tre giorni dopo che la tempesta aveva colpito per la prima volta e due giorni oltre il dovuto, la trireme imperiale Concordia doppiò il promontorio e si infilò nel minuscolo porto semicircolare di Cassiope, sull’isola di Corcira. Il mare rifletteva il blu perfetto del cielo mediterraneo. Il minimo accenno della morente brezza marina notturna soffiava sui loro volti.

    «Non è stato un buon inizio per il vostro viaggio, dominus», disse il capitano.

    «Sarebbe stato decisamente peggio senza la tua conoscenza del mare e quella della tua ciurma», replicò Balista.

    Il capitano annuì in segno di riconoscenza per il complimento ricevuto.

    Poteva anche essere un barbaro, ma questo dux conosceva le buone maniere. E non era nemmeno un codardo. Non aveva messo un solo piede in fallo durante la tempesta. In certi momenti sembrava quasi che se la stesse spassando, ghignando come un pazzo.

    «La nave è piuttosto malmessa. Temo che ci vorranno almeno quattro giorni prima di poterci rimettere in mare».

    «Non c’è altra scelta», disse Balista. «Una volta riparata, quanto ci metteremo a raggiungere la Siria?»

    «Giù per la costa occidentale della Grecia, attraverso l’Egeo via Delos, in mare aperto da Rodi a Cipro, poi di nuovo mare aperto da Cipro alla Siria…». Il capitano aggrottò le sopracciglia mentre era immerso nei suoi pensieri. «…In questo periodo dell’anno…». Il suo volto si schiarì. «Se il tempo è perfetto, se sulla nave non si rompe nulla, se gli uomini rimangono in salute, e non sbarchiamo in qualche posto per più di una notte, vi porterò in Siria in soli venti giorni, entro metà ottobre».

    «Capita spesso che un viaggio vada così bene?», chiese Balista.

    «Ho circumnavigato Capo Tainaron più di cinquanta volte e, finora, mai…».

    Balista rise e si rivolse a Mamurra. «Praefectus, riunisci i miei uomini, e falli alloggiare nell’edificio della posta del cursus publicus. Si trova da qualche parte su quella collina a sinistra. Avrai bisogno dei diplomata, i lasciapassare ufficiali. Porta il mio servo personale con te».

    «Sì, dominus».

    «Demetrio, vieni con me».

    Senza aver ricevuto alcun ordine, Massimo, la sua guardia del corpo, seguì a ruota Balista. Non si dissero niente, ma si scambiarono un ghigno di rassegnazione. «Prima di tutto, faremo visita ai feriti».

    Fortunatamente, nessuno era rimasto ucciso o si era perso in mare. Gli otto uomini feriti giacevano sul ponte verso prua: cinque rematori, due mozzi e uno del seguito di Balista, un messaggero. Tutti avevano delle ossa rotte. Era già stato mandato a chiamare un medico. Quella di Balista era una visita di cortesia. Una parola o due con ciascuno, qualche moneta di poco valore, tutto qui. Era necessario: Balista doveva viaggiare con questa ciurma fino in Siria.

    Balista si stirò e sbadigliò. Nessuno aveva dormito molto dalla notte della tempesta. Si guardò intorno, strizzando gli occhi nella splendente luce del sole mattutino. Da tre chilometri di distanza, attraverso lo stretto Ionico, si poteva distinguere ogni dettaglio delle desolate montagne color ocra dell’Epiro. Balista si passò la mano sulla barba di quattro giorni e tra i capelli, che gli stavano ritti in testa, pieni di sale marino. Era consapevole che le sue sembianze, in quel momento, dovevano ricordare a chiunque una qualsiasi statua di barbaro nordico mai vista – sebbene, nella maggior parte delle statue, i barbari nordici erano raffigurati in catene o morenti. Ma prima che potesse radersi e lavarsi, c’era ancora un altro dovere da compiere.

    «Quello deve essere il tempio di Zeus, proprio lassù».

    * * *

    I sacerdoti di Zeus stavano aspettando sui gradini del tempio. Avevano visto la trireme malandata entrare nel porto. Non avrebbero potuto essere più accoglienti. Balista prese alcune monete di grande valore, e i sacerdoti tirarono fuori l’incenso necessario e una pecora sacrificale per adempiere ai voti che Balista aveva fatto pubblicamente nel momento culminante della tempesta affinché l’approdo fosse sicuro.

    Uno dei sacerdoti ispezionò il fegato della pecora e lo dichiarò di buon augurio. Gli dèi furono lieti di banchettare con il fumo proveniente dalle ossa avvolte nel grasso bruciate, mentre, più tardi, i sacerdoti mangiarono con appetito un arrosto più sostanzioso. Balista rinunciò con generosità alla sua porzione, gesto generalmente considerato gentile sia verso gli uomini che verso gli dèi.

    Appena lasciarono il tempio, si presentò uno di quei piccoli, sciocchi problemi che vanno di pari passo con i viaggi. I tre erano soli, e nessuno di loro sapeva dove si trovasse esattamente l’edificio della posta.

    «Non ho intenzione di trascorrere tutta la mattina vagando su quelle colline», disse Balista. «Massimo, ti dispiacerebbe scendere alla Concordia e chiedere informazioni?».

    Una volta che la guardia del corpo fu fuori dalla portata d’orecchio, Balista si rivolse a Demetrio. «Ho pensato di aspettare finché non saremmo rimasti soli. Cos’è quella storia a proposito di miti e isole piene di stupratori che stavi blaterando durante la tempesta?»

    «Io… non ricordo, kyrios». Gli occhi scuri del giovane evitarono lo sguardo fisso di Balista. Balista rimase in silenzio e poi, improvvisamente, il ragazzo iniziò a parlare in fretta, lasciando ruzzolare fuori le parole. «Ero spaventato, ho detto delle sciocchezze, solo perché ero terrorizzato – il rumore, l’acqua… Pensavo che saremmo morti».

    Balista lo guardò con fermezza. «Il capitano stava parlando delle isole di Diomede quando hai cominciato. Cosa stava dicendo?»

    «Non lo so, kyrios».

    «Demetrio, a quanto mi risulta tu sei un mio schiavo, una mia proprietà. Non è uno dei tuoi amati antichi scrittori che descrive uno schiavo come uno strumento con la voce? Dimmi di cosa stavate parlando tu e il capitano».

    «Lui stava per raccontarti il mito dell’isola di Diomede. Io volevo fermarlo. Così l’ho interrotto e ho raccontato la storia dell’isola dei satiri. È nella Descrizione della Grecia di Pausania. Intendevo dimostrare che, per quanto siano seducenti – tanto da fare innamorare anche uomini tanto istruiti come lo scrittore Pausania – è poco probabile che tutte queste storie siano vere». Il ragazzo si fermò, imbarazzato.

    «Allora, qual è la leggenda delle isole di Diomede?».

    Il ragazzo arrossì. «È solo una storia stupida».

    «Raccontamela», gli ordinò Balista.

    «Alcuni dicono che, dopo la guerra di Troia, l’eroe greco Diomede non fece ritorno a casa, ma si stabilì su due isole remote dell’Adriatico. C’è un santuario laggiù dedicato a lui. Tutto intorno a esso stanno appollaiati dei grossi uccelli dal becco grande e affilato. La leggenda vuole che, all’arrivo di un greco, gli uccelli rimangano calmi. Ma se un barbaro fa il tentativo di sbarcare, allora gli uccelli prendono il volo e, in picchiata, cercano di ucciderlo. Si narra che siano i compagni di Diomede, che furono trasformati in uccelli».

    «E tu volevi avere riguardo per i miei sentimenti?». Balista rovesciò la testa all’indietro e rise. «Ovviamente, nessuno te l’ha detto. Nella mia tribù di barbari, nessuno dà grande importanza ai sentimenti – se non, al limite, quando siamo molto ubriachi».

    II

    Dopo la partenza da Cassiope, gli dèi erano stati gentili. L’inaspettata furia di Noto, il vento del sud, aveva lasciato il posto a Borea, il vento del nord, con quella sua vena leggera e gentile. Con le montagne a precipizio dell’Epiro, Acarnania e il Peloponneso sulla sinistra, la Concordia aveva proceduto principalmente a vela seguendo il fianco occidentale della Grecia. La trireme aveva doppiato capo Tainaron, superato il passaggio tra Malea e Citera e poi, a remi, si era diretta a nord-est verso l’Egeo, puntando il suo malvagio rostro verso le Cicladi: Milos, Serifos, Syros. Ora, dopo sette giorni e con la sola isola di Rheneia da doppiare, avrebbero raggiunto Delos in un paio d’ore.

    Una roccia minuscola, quasi brulla, al centro del cerchio delle Cicladi, Delos era sempre stata diversa dalle altre isole. All’inizio aveva vagabondato sulla superficie delle acque. Quando Latona, sedotta da Zeus, il re degli dèi, e perseguitata da sua moglie, Era, fu rifiutata da ogni altro posto sulla terra, Delos la ospitò, e lì lei partorì il dio Apollo e sua sorella Artemide. Come premio, Delos fu fissata in quel punto per sempre. I malati e le donne prossime a partorire venivano traghettati fino a Rheneia: nessuno poteva nascere o morire su Delos. Per lunghi anni l’isola e i suoi santuari avevano prosperato, senza mura di difesa, nelle mani degli dèi. Nell’età d’oro della Grecia, Delos era stata scelta come quartier generale della lega creata dagli ateniesi per intraprendere la guerra per la libertà dai persiani.

    L’avvento di Roma, la nube dell’Occidente, aveva cambiato tutto. I romani avevano dichiarato Delos un porto franco, non certo per pietà, ma per sordido commercio. La loro ricchezza e avidità aveva trasformato l’isola nel più grande mercato di schiavi del mondo. Si diceva che, al suo apice, più di diecimila uomini, donne e bambini sciagurati venivano venduti ogni giorno su Delos. Eppure i romani non erano riusciti a proteggere Delos. In vent’anni, l’isola sacra era stata saccheggiata due volte. Per amara ironia della sorte, coloro che si erano guadagnati da vivere con la schiavitù furono portati via, schiavi, dai pirati. Ora, i suoi santuari e la sua posizione propizia come luogo di sosta tra l’Europa e l’Asia Minore continuava ad attirare alcuni marinai, mercanti e pellegrini, ma l’isola era solo un’ombra di quella che era stata.

    Demetrio continuò a fissare Delos. Alla sua destra si delineava il profilo grigio e inarcato del monte Cinto. Sulla sua cima c’era il santuario di Zeus e Atena. Sotto, si raggruppavano altri santuari dedicati ad altri dèi, egizi e siriani, così come greci. Al di sotto, scendendo verso il mare, c’era la città vecchia, un’accozzaglia di muri imbiancati e tetti rivestiti di mattonelle rosse che luccicavano sotto i raggi del sole. La colossale statua di Apollo catturò lo sguardo di Demetrio. La testa con i lunghi capelli intrecciati, scolpita innumerevoli generazioni prima, era girata dall’altra parte. La fissità del suo sorriso era rivolta a sinistra, in direzione del lago sacro. E lì, accanto al lago sacro, c’era la vista che aveva terrorizzato Demetrio sin dal momento in cui era venuto a conoscenza della rotta della Concordia.

    L’aveva vista solo una volta, ed era stato cinque anni fa, ma non avrebbe mai potuto dimenticare l’agora degli italiani. Era stato spogliato e lavato – la merce doveva apparire al meglio – e poi legato al ceppo. Rappresentava il modello di schiavo docile, con la minaccia di bastonate, se non peggio, che gli ronzava nelle orecchie. Poteva sentire l’odore dell’umanità affollata sotto il sole spietato del Mediterraneo. Il banditore aveva pronunciato il suo imbonimento – «ben istruito… potrebbe essere un buon segretario o contabile». Frammenti dei commenti indecenti di uomini rozzi arrivavano fino alle sue orecchie – «Uno stronzo istruito, direi», «Turpilio sì che avrebbe saputo come usarlo al meglio». Un’offerta redditizia, e l’affare fu concluso. Nel ricordo, Demetrio sentì la faccia bruciargli e gli occhi trafitti da lacrime di rabbia non versate.

    Demetrio provava sempre a non pensare all’agora degli italiani. Per lui, era il momento peggiore in tre anni di oscurità, dopo la soffice luce primaverile del periodo precedente. Non ne parlava nemmeno: lasciava intendere che era nato in schiavitù.

    Il quartiere del teatro della città vecchia di Delos era un groviglio di strade strette e tortuose, sovrastate dai muri pendenti di case dimesse. La luce del sole vi arrivava con difficoltà, nel migliore dei casi. Ora, con il sole alto sull’isola di Rheneia, era quasi buio pesto. I frumentarii non avevano pensato a portare una torcia o ad assoldare un tedoforo.

    «Merda», disse l’ispanico.

    «Che c’è?»

    «Merda. Ho appena pestato un grosso mucchio di merda». Ora che era stato preso l’argomento, gli altri due si accorsero di quanto puzzasse il vicolo.

    «Lì. Un segnale per guidare i marinai al porto», disse il nordafricano.

    Scolpito all’altezza dello sguardo c’era un enorme fallo. La cappella sfoggiava un sorriso. Le spie si incamminarono nella direzione indicata dal segnale, con l’ispanico che si fermava di tanto in tanto per raschiare il sandalo.

    Dopo una breve camminata nel buio sempre più intenso, arrivarono a una porta affiancata da due falli intagliati. Un portiere grosso e brutale li lasciò entrare, quindi furono guidati da una vecchia megera, orrenda in modo inimmaginabile, a una panca accostata a un tavolo. Chiese dei soldi in anticipo, prima di portar loro da bere: due parti di vino in cinque parti d’acqua. Gli unici altri clienti erano due anziani del luogo immersi in una conversazione.

    «Perfetto. Assolutamente, fottutamente perfetto», disse la spia proveniente dalla Suburra. Semmai, il fetore era peggiore lì dentro che non fuori. I fumi del vino stantio e di antico sudore si univano all’odore prevalente di umidità e decomposizione, piscio e merda. «Spiegatemi com’è possibile che voi due facciate parte del seguito del dux in qualità di scribi ben pagati e rispettati, mentre un romano nativo, un figlio di Romolo come me, deve fare la parte di un semplice messaggero».

    «È colpa nostra se scrivi così male?», disse l’ispanico.

    «Balle, Sertorio». Il soprannome veniva da un famoso ribelle romano che aveva stabilito la sua base in Spagna. «Roma è solo una matrigna per te e per il qui presente Annibale».

    «Già, deve essere stupendo nascere nella latrina di Romolo», disse il nordafricano.

    Smisero di bisticciare appena furono serviti da un’anziana prostituta con indosso un trucco molto pesante, una tunica molto corta e un braccialetto con una serie di amuleti: un fallo, la clava di Ercole, un’ascia, un martello e un’immagine di Ecate a tre facce.

    «Se ha bisogno di tutta questa roba per allontanare l’invidia, immaginate come devono conciarsi le altre».

    Tutti bevvero. «C’è un’altra trireme imperiale nel porto», disse l’ispanico. «Sta trasportando un procuratore imperiale dalla provincia della Licia fino a Roma. Forse il dux ha combinato un incontro con lui qui?»

    «A meno che non sia già andato a incontrarlo», rispose quello così orgoglioso dei suoi natali nella città di Roma.

    «Il che sarebbe ancora più sospetto».

    «Balle. Il nostro barbaro dux è venuto qui perché ha sentito che c’era una consegna di schiavi persiani in vendita e voleva comprare un nuovo esemplare di culo; un persiano con un culo come una pesca per sostituire quel ragazzo greco consumato».

    «Stavo parlando con Demetrio, l’accensus. Pensa che sia tutta una specie di mossa politica. Apparentemente, molto tempo fa, i greci usavano questa piccola e miserabile isola come quartier generale della guerra religiosa contro i persiani. E dove shtiamo andando noi, se non a difendere la civiltà da un nuovo branco di persiani? Sembra che il noshtro barbaro dux voglia identificarsi come il portabandiera della civiltà».

    Gli altri due annuirono alle parole del nordafricano, pur non ritenendole vere.

    La porta si aprì, ed entrarono altri tre clienti. Come avrebbe dovuto fare qualsiasi altro membro del personale, i frumentarii si alzarono in piedi per salutare il praefectus fabrum, Mamurra. Si rivolsero inoltre alla guardia del corpo, Massimo, e al servo personale, Calgaco. I nuovi arrivati ricambiarono i saluti e andarono a sedersi a un altro tavolo. I frumentarii si scambiarono delle rapide occhiate, godendo della loro perspicacia. Avevano scelto la taverna giusta.

    I due fratelli che possedevano la taverna lanciarono uno sguardo ai loro ultimi clienti con una certa trepidazione. Il vecchio e brutto schiavo con la testa deforme, che era stato salutato come Calgaco, non avrebbe causato alcun problema – per quanto non lo si possa mai dire. Il praefectus, Mamurra, come tutti i soldati, poteva essere un problema. Indossava un abito militare – una tunica bianca con delle svastiche ricamate sopra, calzoni scuri e scarponi. Attorno alla vita aveva un cingulum, un’elaborata cinta militare, alla quale era allacciata una bandoliera ugualmente ornata, che arrivava fino alla sua spalla destra. Il cingulum aveva un sacchetto stravagante rimboccato in modo da formare un cappio alla destra della fibbia. Pendeva e finiva con gli usuali ornamenti metallici tintinnanti. Tutt’e due le cinte proclamavano la lunghezza del suo servizio e il suo alto rango. Erano ricoperte di medaglie al valore, amuleti e memento di svariate unità e campagne militari. Al fianco sinistro aveva una spatha, una spada lunga, e sul destro un pugio, un pugnale militare. Ai bei vecchi tempi avrebbe indossato solo il pugnale, ma i tempi instabili avevano cambiato le cose. La sua larga testa quadrata, come un blocco di marmo, era brizzolata; la barba, i capelli e i baffi erano tagliati molto corti. La bocca somigliava a una trappola per topi e i suoi occhi seri, quasi sempre fissi e spalancati, davano l’impressione che della violenza lui ne sapesse decisamente qualcosa.

    Il terzo uomo, quello loquace che gli inservienti avevano salutato come Massimo, era il peggiore. Indossava un abbigliamento simile a quello dell’ufficiale, ma non era un soldato. Portava un gladius alla vecchia maniera, una spada corta spagnola, un pugnale decorato e un mucchio di ornamenti dorati di poco valore. I suoi capelli neri non erano più lunghi di quelli dell’altro uomo, e aveva una barba corta ma folta. La cicatrice che appariva sulla punta del suo

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