Dizionario della saggezza
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Dizionario della saggezza - Michel Eyquem de Montaigne
Introduzione
Il Cinquecento, soprattutto in Italia, evoca l’immagine di una società felice, caratterizzata dalla fioritura delle arti e da un’insaziabile sete di conoscenza e di rinnovamento. Le scoperte dei navigatori e degli astronomi rivelano all’uomo del Rinascimento un mondo assai più vasto e complesso di quello concepito dalla vecchia cultura medievale: la verità è ricercata non più – o almeno non solo – nei sacri testi ma attraverso lo studio della realtà del nostro pianeta.
Vi è tuttavia nel Cinquecento europeo un rovescio della medaglia che sarebbe impossibile ignorare: quello di un secolo crudele e drammatico nel quale la lotta politica, alimentata dal mutamento delle strutture produttive e dall’emergere di nuovi soggetti sociali, va spostandosi sul terreno religioso dove sono maturate le esperienze collettive di maggior rilievo.
Il 31 ottobre 1517 Martin Lutero affigge sulla porta del duomo di Wittenberg, nella Germania orientale, le sue novantacinque tesi contro il commercio delle indulgenze e la mondanità della Chiesa. È il primo atto di un lungo dramma che porterà alla fine dell’unità del mondo cattolico. Pochi anni dopo la protesta luterana scatena in Germania la cosiddetta «guerra dei cavalieri» che vede la piccola nobiltà feudale battersi contro la potente feudalità ecclesiastica e uscirne sconfitta: a distanza di soli due anni nella stessa Germania dilagano le rivolte contadine sostenute dalla predicazione di Thomas Müntzer che si concluderanno con una violenta repressione e l’impiccagione del capo degli anabattisti. Persino nella tranquilla Svizzera si accende la guerra civile tra cantoni cattolici e protestanti. E in Inghilterra non mancano lotte violente: se Enrico VIII afferma con l’istituzione di una Chiesa nazionale il predominio assoluto del potere politico su quello religioso, aprendo il paese allo spirito della Riforma protestante più congeniale a una società in sviluppo come quella inglese, sua figlia Maria I la Cattolica (detta anche la Sanguinaria) avvia una delle più spietate persecuzioni contro i protestanti. Né sarà più tenera verso i cattolici, anche se con maggiore moderazione, la grande Elisabetta, che le succederà al trono e che manderà a morte la cattolica regina di Scozia, Maria Stuarda. Tutto sullo sfondo dei continui conflitti tra le grandi potenze ai quali non sono certo estranee le motivazioni religiose.
Nella Francia di Montaigne lo scontro tra protestantesimo e quell’integralismo cattolico che vestirà presto gli abiti della Controriforma assume i toni estremi della guerra di religione. Uno scontro che, iniziato negli anni Cinquanta, quando Montaigne era ancora giovane, si concluderà verso la fine del secolo con l’incoronazione di Enrico IV, poco dopo la morte dello scrittore. Sono anni di caos selvaggio, di terrore individuale e collettivo nei quali la violenza, abilmente fomentata dalle potenze straniere (Spagna e Inghilterra) sconvolge il paese. Guerra dopo guerra, la Francia è messa a ferro e fuoco, la fame si diffonde ovunque con effetti non meno devastanti della peste che pure riappare periodicamente. Il fanatismo religioso legittima l’assassinio e la tortura. Tutto il paese è battuto da bande armate per le quali la motivazione religiosa finisce per essere solo una comoda etichetta.
È in questo periodo così buio per la Francia che cresce e matura Michel Eyquem de Montaigne, l’autore di una delle opere più suggestive e geniali di tutti i tempi, gli Essais. Un curioso tipo di gentiluomo di provincia, questo Montaigne. Nato da una famiglia arricchitasi con il commercio del vino e delle aringhe salate, un padre non insensibile alle vanità della politica e alla voglia di nobiltà, una ricca madre ebrea di origine spagnola, Michel vive un’infanzia serena nella quale l’eco delle violenze esterne sembra infrangersi contro le solide mura del castello paterno. Ogni mattina il piccolo Michel viene risvegliato con dolcezza dal suono della viola che gli augura una giornata felice. La prima educazione del bambino è affidata all’umile gente di un villaggio dipendente dal castello «per legarmi – come dirà Montaigne – col popolo e con la gente di quella condizione». Attento al messaggio di Erasmo da Rotterdam, il padre, che ha buona cultura e molte ambizioni per il figlio, non gli fa insegnare la lingua madre, il francese, ma il latino: lo fa cercando di evitargli ogni scoglio, senza pedanteria, quasi l’acquisizione dell’antica lingua fosse un gioco. Si dice che tutti intorno al giovane Michel – servi compresi, immaginiamo con quale difficoltà! – dovessero parlare solo in latino. All’insegnamento provvede un precettore tedesco che non conosce il francese.
Fin da ragazzo Michel ama il teatro, recita persino, è lettore accanito di Ovidio (che traduce già all’età di sette anni) e di Virgilio. Le sue esperienze amorose, da buon guascone, sono precocissime. Degli anni severi trascorsi nel collegio di Guyenne, a Bordeaux, Montaigne non conserva un buon ricordo sia per la scarsa preparazione degli insegnanti (anche se fra questi non mancano umanisti di fama come Buchanan e Muret), sia per i loro metodi spesso violenti. Poi all’università di Bordeaux, all’epoca considerata mediocre, preferisce, per i suoi studi di giurisprudenza, quella di Tolosa, la migliore in Francia insieme con quella di Parigi. La disciplina è durissima, nove ore di studio serrate. Dei suoi maestri di diritto Montaigne non fa alcun cenno negli Essais: ricorda invece, esaltandone la figura, Adrien Turnèbe, docente di belle lettere in quella università che diede mirabili edizioni di classici greci e latini. È a Parigi – sembra per cinque anni – a perfezionare la sua cultura umanistica e la sua conoscenza della letteratura greca classica. Gli studi umanistici finiscono per alimentare il suo spirito critico, un po’ ribelle, che non si accontenta mai di idee preconfezionate. Entra in magistratura come consigliere alla Cour des aides di Périgueux, un’istituzione giuridica che si scioglierà di lì a poco e nella quale, pur godendo del prestigio riflesso del padre, Montaigne brilla spesso per la sua assenza. E poi consigliere al parlamento di Bordeaux (1557-1560) dove ha come collega un giovane scrittore di talento, Étienne de La Boétie, traduttore di Senofonte e di Plutarco, autore di un violento pamphlet contro la tirannia, col quale stringe un’amicizia che sfiora la fratellanza. Con una certa enfasi Montaigne lo definisce «il più grande uomo di questo secolo». Il sodalizio che si instaura si interromperà dopo non molto tempo per la morte di La Boétie a soli trentatré anni ma lascerà un segno indelebile nell’animo di Montaigne: il valore inestimabile di una vera amicizia, alcune delle idee-guida politiche e morali che percorreranno la sua opera trovano le loro radici nel suo rapporto con «il fratello di elezione».
Per sedici anni esercita la professione di magistrato con il suo caratteristico senso della moderazione ma senza troppo amore, al punto di trascurarla appena può per frequentare la corte e seguirla nei suoi viaggi. È con Francesco II a Bar-Le-Duc e, tre anni dopo, con Carlo IX all’assedio di Rouen. Ma il suo temperamento lo mette spesso a disagio nella società di corte. Può accettare, anche se con difficoltà, la sua rigida etichetta ma non riesce a controllare la propria «libertà indiscreta di dire a torto o ragione ciò che mi viene in mente».
Dopo la morte di La Boétie, che lo colpisce «più di quella del padre, del