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Ultime lettere di Jacopo Ortis
Ultime lettere di Jacopo Ortis
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Ebook277 pages4 hours

Ultime lettere di Jacopo Ortis

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About this ebook

Premessa di Eraldo Affinati
A cura di Paolo Mattei
Edizione integrale

Con i suoi contenuti e con il suo stile questo libro ha dato inizio alla prosa italiana moderna. Impostato come un romanzo epistolare lirico, incentrato sulla drammatica vicenda sentimentale del giovane protagonista, perdutamente innamorato – fino alla soluzione estrema del suicidio – di una donna promessa a un altro, l’Ortis è al tempo stesso un romanzo epico, in cui il giovane Foscolo volle esprimere la propria crisi politica, filosofica ed esistenziale. Una crisi scaturita dal contrasto insanabile tra natura e storia, tra l’amore per la donna e l’aspirazione alla gloria, tra il bisogno di pace e il tumulto delle passioni.

«O mie speranze! Si dileguano tutte; ed io siedo qui derelitto nella solitudine del mio dolore.»



Ugo Foscolo

nacque a Zante nel 1778. Ebbe vita intensa e avventurosa, amori appassionati e disordinati. Poeta, polemista, politico e soldato, deve la sua fama soprattutto alle Ultime lettere di Jacopo Ortis, al carme Dei sepolcri e al poema Le Grazie. In esilio dal 1814, morì povero a Londra nel 1827. Di Foscolo, la Newton Compton ha pubblicato Lettere d’amore e Ultime lettere di Jacopo Ortis.
LanguageItaliano
Release dateDec 16, 2013
ISBN9788854136854
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    Ultime lettere di Jacopo Ortis - Ugo Foscolo

    EC210 - FOSCOLO Le ultime lettere EBOOK.jpge-classici.png

    210

    Prima edizione ebook: novembre 2011

    © 2009, 2010 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-3685-4

    www.newtoncompton.com

    Edizione digitale a cura della geco srl

    Ugo Foscolo

    Ultime lettere di Jacopo Ortis

    Premessa di Eraldo Affinati A cura di Paolo Mattei

    Edizione integrale

    logo_NCE.jpg

    Il suicidio vitale di Jacopo Ortis

    Quando Ugo Foscolo, che in realtà si chiamava Nicolò, cominciò a scrivere Le ultime lettere di Jacopo Ortis, la storia di un giovane suicida a causa di una doppia disillusione, amorosa e politica, aveva soltanto vent'anni, ma la sua vita era già talmente piena d'esperienze da sembrare quella di un uomo adulto.

    Nato a Zante, isola ionica sotto il dominio veneziano, il 6 febbraio 1778 dal medico Andrea, italiano, e da Diamantina Spathis, greca, studiò a Spalato, in Dalmazia e, dopo la morte del padre, si trasferì nella capitale lagunare insieme alla madre, ai due fratelli e alla sorella. Quello che sarebbe diventato uno dei nostri più grandi scrittori ebbe un 'adolescenza difficile: orfano, greco-italiano, esule, senza patria. Ce n 'era abbastanza per alimentare nel suo genio precocissimo un fuoco espressivo che non tardò a manifestarsi informe di sfrenato vitalismo partecipativo.

    Sin dall'inizio, nella povera casa del Campo delle Gatte, che oggi appare recintato da alte mura ma un tempo doveva essere aperto sui prati, si atteggiò a ribelle, poeta e patriota, al punto tale che la vecchia oligarchia veneziana lo schedò come pericoloso cospiratore. Frequentava, oltre ai salotti letterari di Isabella Teotochi Albrizzi, primo amore giovanile, nonché confidente e lungimirante guida, i corsi di letteratura che Melchiorre Cesarotti, la cui versione dai Canti di Ossian di James Macpherson non gli era di certo sfuggita, teneva all'università di Padova. Leggeva e scriveva con implacabile furore trovando nel patrimonio degli antichi maestri le sue vere radici.

    Il folto gruppo di rime e traduzioni da classici greci e latini comprese nella Raccolta Naranzi (1794) mostra una consapevolezza lirica davvero unica. Due anni dopo, nel Piano di Studi il futuro scrittore impose a se stesso una serie di letture non solo letterarie, anche filosofiche e politiche: proprio in quell'importante documento programmatico compare il proposito di comporre un libro intitolato Laura-Lettere, un episodio a sé poi inglobato nell'Ortis.

    Questo romanzo epistolare, il primo della letteratura italiana, dopo quelli di Samuel Richardson (Pamela, 1740), Jean Jacques Rousseau (La nouvelle Hélo'ise, 1761) e Johann Wolfgang Goethe (I dolori del giovane Werther, 1774), nasce nel tumulto dell'attivismo politico, quando molti italiani, pervasi dall'entusiasmo rivoluzionario di stampo giacobino, intravidero la possibilità di emanciparsi dal servaggio cui si sentivano costretti dalla soffocante presenza austro-ungarica.

    Gli ideali di libertà, uguaglianza e fraternità, che i francesi appoggiarono non senza calcolo nazionale, si diffusero a macchia d'olio. Foscolo, membro della Società patriottica, collaboratore di fogli riformisti quali il «Monitore italiano» e il «Genio democratico», scrisse ingenui versi in favore dei fratelli transalpini: celebri quelli ai Novelli repubblicani e l'Ode a Bonaparte liberatore. Nel 1797 al teatro Sant'Angelo fu rappresentata, tra gli applausi del pubblico, una sua tragedia, il Tieste, nella quale Veroe protagonista, doppiamente deluso dall'amore impossibile per Ippodamia e dalla tirannide del fratello Atreo, si suicida.

    È in sostanza lo stesso tema delle Ultime lettere di Jacopo Ortis, la cui prima redazione, con il titolo Storia di due amanti infelici, che comprendeva solo le prime 45 lettere, apparve a Bologna nel 1798. L'operetta, molto sentimentale e patetica, venne completata in modo arbitrario da un mediocre letterato, Angelo Sassoli, il quale non esitò a consegnarla all'editore Mar sigli. Foscolo, che nel frattempo s'era arruolato nel corpo dei Cacciatori a cavallo, quando lo venne a sapere, entrò in tipografia con la spada sguainata.

    Lo scrittore, perfettamente consapevole dei limiti del testo, riprese il romanzo e lo ripubblicò nel 1802 a Milano in una versione ben più matura della precedente, anche perché nel frattempo dentro di lui stava cominciando a crescere l'impulso a un controcanto autobiografico che dalla congerie di appunti e frasi manualisticamente denominate Sesto tomo dell'Io al carteggio con Antonietta Fagnani Arese, dallo spiccato accento ironico, conoscerà poi, in anni successivi, una serie di sorprendenti sviluppi, fino alla creazione di un personaggio artificiale, Didimo Chierico, cui Foscolo idealmente affiderà la traduzione del Viaggio sentimentale di Lawrence Sterne, i cui presupposti sono presenti in realtà già nella pronuncia sin troppo stentorea di Jacopo Ortis.

    Ma soprattutto il libro, in questa seconda edizione, diventava il frutto retroattivo di una bruciante delusione politica: quella provata dallo scrittore, il quale aveva combattuto per la causa rivoluzionaria restando ferito nella battaglia di Cento, allorché, dopo il trattato di Campoformio (17 ottobre 1797), vide Napoleone cedere Venezia all'Austria in cambio della Lombardia. Un'intera generazione si sentì tradita. Ecco perché Le ultime lettere di Jacopo Ortis diventò presto uno dei vangeli del Risorgimento: basti pensare alle pagine accorate che gli riservò Giuseppe Mazzini.

    Siamo di fronte a un libro aperto, come spesso è stato definito: Foscolo vi tornò ancora una volta nell'edizione di Zurigo, targata 1816, che riportava anche la Notizia bibliografica scritta dall'autore, con l'aggiunta della lettera del 17 marzo 1798, potente nella sua riflessione storico-filosofica, e di numerose integrazioni speculative, quasi pre-leopardiane, sulla natura matrigna (17 aprile 1798 e 20 marzo 1799). Nel 1817 ci sarà un'ultima revisione stilistica a dimostrazione di quanto lo scrittore fosse legato a questo romanzo che, nella sua enfasi declamatoria, resta una summa decisiva per comprendere tutta l'opera foscoliana.

    La narrazione è concepita come una raccolta di lettere che Lorenzo Alderani presenta al lettore, in memoria dell'amico Jacopo Ortis, il quale gliele aveva indirizzate confidando nella sua comprensione. Il nome Lorenzo era un omaggio sterniano, ma così si chiamava anche il destinatario delle poesie sepolcrali comprese nelle Notti di Edward Young, tradotte a Venezia già nel 1784. Gerolamo Ortis era invece l'identità di uno studente padovano suicida. Questo per dire quanto Foscolo fosse attento sia alla tradizione letteraria, sia alla cronaca giornalistica dei suoi tempi.

    L'attacco del romanzo, teso a enunciare il dramma di Jacopo, è talmente famoso da essere entrato nella percezione italiana: «Il sacrificio della patria nostra è consumato: tutto è perduto; e la vita, seppure ne verrà concessa, non ci resterà che per piangere le nostre sciagure, e la nostra infamia».

    Non si leggono Le ultime lettere di Jacopo Ortis senza accettare questo tono retorico, nel quale l'ascendenza plutarchiana si mischia a quella alfieriana in un esploso lirico di solennità statuaria che neppure le frequenti descrizioni paesaggistiche riescono a smussare, permeate come sono di sensibilità arcadica e pastorale, nel florilegio dei calchi petrarcheschi, eppure già così presaghe di intuizioni poetiche future, specie nell'evocazione dei raggi solari, in cui si sente, oltre al ricordo di precoci esperienze giovanili (gli sciolti Al Sole), anche l'anticipo dei sonetti maggiori («E verrà giorno che Dio ritirerà il suo sguardo da te, e tu pure sarai trasformato; né più allora le nubi corteggeranno i tuoi raggi cadenti...»).

    La prima parte del romanzo, ambientata nei Colli Euganei, mette in scena il doppio stallo del protagonista, costretto a fuggire da casa perché schedato dalla nuova amministrazione veneziana, e innamorato di Teresa, promessa da suo padre, il signor T***, a Odoardo, nobile e conformista. La ragazza, tuttavia, nei frequenti momenti di assenza di quest'ultimo, ricambiava la corte di Jacopo passeggiando insieme a lui in compagnia di Isabella, la sorellina.

    Inutilmente il giovane cerca consolazione nella storia di Lauretta, anch 'ella vittima di una passione inappagata. Più spesso si rifugia nella solitudine, amaramente consapevole della propria sconfitta esistenziale e politica: «E' ti pare che se odiassi gli uomini, mi dorrei comefo' de' lor vizj? tuttavia poiché non so riderne, e temo di rovinare, io stimo migliore partito la ritirata».

    In Ortis c'è già tutto Foscolo: il sepolcro vi è continuamente alluso, quale riposo agognato e fine dell'ansia vitale che la passione alimenta. Così come vi è presente la funzione rigeneratrice della bellezza, unico conforto per «le nate a vaneggiar menti mortali», secondo l'inconfondibile sigla presente nel dodicesimo verso dell'ode All'amica risanata che troverà un supremo compenso lirico nelle Grazie.

    Il sentimento, insieme neo-classico e romantico, brucia come una febbre nella passione amorosa, la quale si rivela una metafora della gioventù. Teresa è soltanto una sagoma. Foscolo vuole rappresentare la fatale incompiutezza dell'esistenza, destinata a restare senza pienezza.

    Eppure in questo libro ci sono anche squarci di realtà che non torneranno più nella sua opera: certe figure di vecchie attaccate alla vita residua, impegnate soltanto a sopravvivere nelle loro fredde capannucce, in una miseria senza tempo; oppure i fondali degli orti dove i ragazzi poveri giocano perduti nello struggimento del mondo che passa; perfino gli ambienti sconsolati di un patriziato imbelle e tronfio, privo di vera coscienza civile.

    Poi Ortis fugge. Nella seconda parte il libro si trasforma in uno straordinario diario di viaggio: Rovigo, Ferrara, Bologna. Dopo aver appreso delle future nozze di Teresa, fuma oppio. Michele, servo fedelissimo, al quale infine il suicida lascerà una Bibbia, qualche soldo e l'orologio, va e viene per l'Italia portando messaggi alla donna. Jacopo visita le tombe di quelli che considera i suoi veri padri: Galileo, Machiavelli e Michelangelo nella chiesa di Santa Croce, a Firenze, dove cerca invano di avvicinare Alfieri, ma l'astigiano, confermando la sua vocazione di misantropo, rifiuta. Va a Monteaperto, sulle tracce dantesche.

    Vorrebbe recarsi a Roma, «su le reliquie della nostra grandezza», ma le autorità gli negano il passaporto. Allora punta su Milano dove incontra Giuseppe Parini, ormai vecchio, del quale, passeggiando accanto a lui nei giardini di Porta Orientale, ammira la tempra di uomo libero. Si confida con l'autore del Giorno, gli racconta di Teresa.

    Nel finale del libro compaiono anche personaggi persi, disillusi, falliti. È significativo questo contrasto fra umili e illustri, alto e basso, parole e silenzio. Sulla riviera ligure Jacopo accoglie lo sfogo di un ex compagno di studi padovano, ufficiale della Cisalpina, costretto a vagare con moglie e figlie alla ricerca di una impossibile stabilità. Pulsa il sentimento della patria negata. Notevole è la lettera da Ventimiglia nello spiegamento di un individualismo eroico che inutilmente si contrappone alla ragion di Stato, in un recupero operativo della compassione, quale ultimo rifugio:

    Lorenzo, sai tu dove vive ancora la vera virtù? in noi pochi deboli o sventurati; in noi, che dopo avere sperimentati tutti gli errori, e sentiti tutti i guai della vita, sappiamo compiangerli e soccorrerli. Tu o Compassione, sei la sola virtù! tutte le altre sono virtù usuraje.

    Sembra essere questa la vera conclusione, in formidabile sintonia leopardiana. Il resto assomiglia a una lunga risacca prima del gesto estremo, dalla tappa riminese, dove Jacopo apprende che Teresa si è sposata, alla visita sulla tomba di Dante a Ravenna, fino al ritorno sui Colli Euganei dove si consuma il dramma. Il giovane, ormai sconvolto, travolge di notte a cavallo un povero contadino, quasi un cupo presagio di ciò che sta per accadere. Negli ultimi giorni va a Venezia a visitare la chiesa dove venne sotterrata Lauretta, ma la trova chiusa. Sono pagine che sembrano scritte con l'inchiostro rosso. Si sente il disincanto italiano: la nostra forza e la nostra fragilità.

    Il giovane, come un predestinato, si accinge a spegnere tutte le luci prima di sprofondare nel sonno eterno: torna da sua madre e dal vecchio maestro, Cesarotti, nella cui casa riposa. Dopodiché si uccide con il pugnale, secondo l'uso degli antichi, non con le pistole del giovane Wherter! Eppure, così come scriverà Walter Binni a proposito dei Sepolcri («Mai tanta vitalità era stata raccolta intorno alle tombe!»), lo stesso potremmo dire noi per Le ultime lettere di Jacopo Ortis: pochi suicidi sprigionarono, nei protagonisti del Risorgimento, una carica altrettanto forte di sogni, progetti, azioni e buone volontà al lavoro.

    ERALDO AFFINATI

    Introduzione

    Un romanzo nel romanzo: vicenda editoriale delle «Ultime lettere di Jacopo Ortis»

    Le Ultime lettere di Jacopo Ortis possono essere considerate la vera opera prima di Ugo Foscolo. Se non cronologicamente (l'anticipano diverse poesie e la tragedia Tiestej certamente dal punto di vista della necessità espressiva, rivelando la tipica urgenza di chi si esprime per la prima volta attraverso la letteratura e trova subito le parole giuste per farlo. Da questo punto di vista l'Ortis è senza dubbio (Grazie a parte) l'opera più travagliata, sofferta e personale di Foscolo. Il libro più suo,¹ e come tale, a detta di Walter Binni, «suscettibile di ripresa e di modificazione alla luce sia della sua maturata esperienza artistica che della sua intera esperienza vitale, politica, ideologica».²

    L'intuizione del critico, del resto, è facilmente riscontrabile ripercorrendo quel romanzo di un romanzo che è la storia editoriale delle Ultime lettere di Jacopo Ortis. Una vicenda che copre quasi venti anni a cavallo tra Settecento e Ottocento, nutrendosi di guerre, atti d'eroismo, grandi speranze e delusioni politiche: fino alla scelta drammatica dell'esilio, da parte di un Foscolo moralmente e ideologicamente sconfitto.

    La prima data da mettere in evidenza è il 1796, quando il poeta adolescente ma già ben determinato consegnò i suoi progetti all'ormai celebre Piano di studi, dove accenna a un libro «non interamente compiuto», Laura, lettere, a cui «l'Autore è costretto a dare l'ultima mano, quando anche ei non volesse».³ Si è molto discusso cercando di capire quanta parte di questo acerbo romanzo epistolare sia in realtà poi confluita nell'Ortis: critici come Rossi e Fasano sembrano suggerirci abbastanza , altri, come Goffis e Girardi, hanno invece ridimensionato questo apporto definendolo preistoria del romanzo foscoliano.

    L'Ortis nasce invece ufficialmente nel 1798 ed è affidato, non ancora ultimato, alle cure - non troppo affettuose, come vedremo presto - dell'editore Marsigli di Bologna. L'inquieto Ugo Foscolo s'era trasferito in quella città i primi giorni del settembre di quell'anno, dopo essersi fin troppo politicamente esposto a Milano, denunciando l'infamia del trattato di Campoformio (in particolare la supina accettazione del tradimento napoleonico da parte del clero e dei nobili) sulle pagine del «Monitore italiano». La scelta cadde su Bologna perché qui, l'anno precedente, Foscolo aveva vissuto una felice parentesi di celebrità con la sua ode a Bonaparte liberatore, ma anche per la vicinanza del fratello Gian Dionisio, che era di stanza alla scuola di artiglieria e genio di Modena.

    Quando però il libro era già in stampa gli eventi storici precipitarono. La coalizione degli austro-russi cominciò a invadere l'Italia e Foscolo si unì alla Guardia nazionale mobile di Bologna, combattendo con coraggio, guadagnandosi sul campo il grado di capitano e rimanendo ferito per ben due volte (nella presa di Cento e nella difesa di Genova).

    Indifferente a tanta passione politica e a tanto eroismo, Marsigli si preoccupò solo del romanzo rimasto a metà e dell'investimento congelato. Allora pensò di affidare il completamento dell'Ortis ad Angelo Sassoli, con i risultati artistici che ben possiamo immaginare. Quasi 130 pagine apocrife si aggiunsero così alle 138 foscoliane: in più l'oltraggio definitivo di due paginette di Annotazioni alle lettere di Jacopo nelle quali l'editore cercò di salvare il salvabile, facendo sue alcune prevedibili critiche da parte della censura austriaca (nel frattempo, infatti, Bologna era caduta in mano agli alleati antifrancesi). Eppure Marsigli, che tanto s'era dato da fare per arrivare a questa primissima edizione del 1798, si vide rifiutare l'autorizzazione a pubblicare il romanzo e si ritrovò con un'intera tiratura inutilizzabile nei suoi magazzini. Per questo si hanno solo due rarissime testimonianze dell'Ortis del 1798: una di proprietà del Chiarini (ora presso la Biblioteca di Storia moderna e contemporanea di Roma) e l'altra rinvenuta nella Biblioteca dell'Archiginnasio di Bologna.

    Senza perdersi d'animo l'editore operò allora di forbici e colla. Tagliò via diverse pagine sostituendole con altre totalmente inoffensive, rese ancora più drastica la sua presa di distanza da certe idee espresse nel libro ricorrendo a un moralistico Avviso a chi legge e cambiò il titolo in Vera storia di due amanti infelici ossia Ultime lettere di Jacopo Ortis. Ciò nonostante il pubblico - era l'agosto del 1799 -ignorò il libro. Eppure ancora un cambio di fortuna politica, l'anno successivo, portando di nuovo i francesi a Bologna - dopo la vittoria di Marengo - consentì allo spregiudicato editore un altro dei suoi funambolismi. Recuperato il testo iniziale, quello non censurato, ristampò il libro (dimenticandosi però di togliere le sue riserve moralistiche e politiche) e finalmente riuscì a incontrare il favore del pubblico.

    Così quando Foscolo ebbe notizia delle complesse vicende del libro solo parzialmente suo - nel 1801 già arrivato alla sua terza edizione - diffidò subito l'editore («io dichiaro solennemente queste edizioni apocrife tutte, e adulterate dalla viltà e dalla fame») con un articolo pubblicato sulla «Gazzetta universale» di Firenze e portò con sé a Milano l'intenzione dì arrivare finalmente alla conclusione e alla pubblicazione di questo travagliatissimo romanzo.

    Nel settembre del 1801 il tipografo milanese Mainardi tirò 500 copie del primo Ortis interamente dovuto a Foscolo, aggiungendo la breve lettera di Lorenzo da Rovigo alle 138 pagine già consegnate al precedente editore. Ancora una edizione incompleta, dunque, della quale si conosce un solo esemplare: quello inviato in omaggio a Goethe (ora conservato presso il Goethe-und Schiller Archiv di Weimar). Anche in questo rapporto editoriale qualcosa non funzionò e il poeta, dopo aver rimaneggiato il materiale, si fece stampatore in proprio per i tipi del Genio Tipografico. Milleseicento copie finalmente approvate dall'autore, nell'ottobre 1802: la prima edizione completa dell'Ortis.

    Il libro colpì l'emotività del pubblico, divenendo subito un grande successo, scandito da decine di nuove edizioni. Quasi tutte pirata, se è vero che Foscolo ne approvò solo due. Una definita mantovana (ma forse anch'essa milanese), l'altra pubblicata presso l'editore milanese Agnello Nobile, che ottenne un contratto di esclusiva, puramente nominale, fino a tutto il 1805. Nel frattempo i sogni repubblicani di Foscolo erano definitivamente naufragati. L'ambiguo compromesso che gli venne offerto dagli austriaci, entrati vittoriosamente a Milano - la direzione di un giornale in cambio del giuramento di fedeltà all'Austria - venne subito rifiutato. La risposta di Foscolo fu la fuga in Svizzera, donando, come dirà il Cattaneo, «alla nuova Italia una istituzione, l'esilio».

    In terra elvetica, braccato dagli austriaci che non avevano gradito la cattiva pubblicità di un gesto così clamoroso, bisognoso di soldi, il poeta decise che era tempo di una nuova edizione del romanzo. Stretto l'accordo con Orell Fùssli di Zurigo il libro uscì nell'agosto del 1816, anche se riportava la data Londra 1814 per comprensibili ragioni di prudenza da parte dell'editore, il quale era stato volenteroso e scrupoloso nella stampa del libro, anche se la scarsa dimestichezza con l'italiano giocò qualche brutto scherzo.

    Ne uscì fuori un romanzo sostanzialmente nuovo dal punto di vista strutturale, stilistico e ideologico,⁶ ma gravemente scorretto, nonostante gli sforzi del giovane Andrea Calbo, chiamato come consulente linguistico a rimediare almeno agli errori più vistosi. Al libro venne aggiunta una Notizia bibliografica di 112 pagine (il romanzo vero e proprio ne contava 238): una sorta di radiografia-commento, purtroppo non sempre veritiera, del libro e della sua già lunga vicenda editoriale.

    Eppure ancora un passo ci separa dal punto d'arrivo di un percorso iniziato ormai venti anni prima. L'autore, nel settembre del 1816, decise di trasferirsi in Inghilterra, dove arrivò suscitando curiosità e interesse attorno alla propria opera. Già da qualche anno, del resto, Romualdo Zotti aveva pubblicato l'Ortis, riprendendolo dall'edizione milanese del 1802. Anche se non pienamente soddisfatto del risultato, Foscolo gli affidò l'ultimo Ortis zurighese, con l'intenzione di emendarlo dalle molte sviste tipografiche e dalle imperfezioni linguistiche. Ancora contrasti, ancora la necessità di rivolgersi, almeno in parte, a un altro editore (John Murray) ma alla fine si arrivò all'edizione londinese del 1817 delle Ultime lettere di Jacopo Ortis. Il libro diviso in due parti, di un volume ciascuna, comprende anche la traduzione di alcuni capitoli del Viaggio sentimentale di Sterne, alla quale Foscolo aveva lavorato con lo pseudonimo di Didimo Chierico.

    Venne confermata la Notizia bibliografica dell'edizione precedente, ma in una forma molto ridotta che la condensava in poche pagine. In questa nuova presa di posizione di Foscolo emersero appunto, per la forma estremamente riassuntiva, quelli che sono i nodi centrali del romanzo. Primo fra tutti il suo volersi proporre come documento di vita reale.

    Foscolo accenna a un fatto di cronaca (uno studente dell'Università di Pavia che si era ucciso, senza lasciare spiegazioni di alcun tipo del suo gesto) per concludere che, eccettuato il nome e l'effettiva scelta del suicidio alla quale Foscolo non arrivò mai, «lo scrittore rappresentò se medesimo tale quale era nei casi della sua vita, nell'indole e nell'età che egli aveva, nelle sue opinioni ed errori, e in tutti i moti tempestosi dell'anima sua, segnatamente in que' giorni ch'ei s'avvicinava a passi deliberati verso il sepolcro».

    Se queste notizie così insistite non possono convincere del tutto lettori moderni e smaliziati come Derla e Girardi,⁸ evidentemente la novità di un approccio che riuscisse a fondere vita e letteratura stava davvero molto a cuore al Foscolo. Che tornò su questo punto quando riconobbe i suoi debiti (e rimarcò la propria originalità) ⁹ nei confronti del modello più evidente dell'Ortis: I dolori del giovane Werther di Goethe. In questo modo pose anche fine alle tante voci di plagio che erano state fatte circolare ad arte da letterati non sempre disinteressati: «i due scrittori intesero rappresentare un quadro del suicidio, che il secondo ha pigliato il modo dal primo, e che nondimeno il secondo è più dettato dalla natura, e il primo assai più dall'arte».¹⁰ Oppure, detto con altre parole (quelle usate nella lettera a Bartholdy del 29 settembre

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