Romanzo mafioso. Alla conquista di Cosa Nostra
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Romanzo mafioso. Alla conquista di Cosa Nostra - Vito Bruschini
35
Prima edizione ebook: dicembre 2013
© 2013 Newton Compton editori s.r.l.
Roma, Casella postale 6214
ISBN 978-88-541-6175-7
www.newtoncompton.com
Realizzazione a cura di Librofficina
Progetto grafico: Sebastiano Barcaroli
Foto: © Shutterstock.com
Vito Bruschini
Romanzo mafioso
2. Alla conquista di Cosa Nostra
1
In attesa di giudizio
Carcere dell’Ucciardone, Palermo, gennaio 1969
Non si respirava aria buona all’Ucciardone in quel freddo inverno del 1969. Da qualche mese si era diffusa la voce che un canarino aveva deciso di farsi una "cinguettata" con il giudice Tamburini.
La notizia, per i mafiosi in attesa di giudizio, fu devastante perché se il curnutu, come ormai tutti i mafiosi avevano ribattezzato l’anonimo pentito, si metteva a raccontare fatti e misfatti delle cosche, il procuratore avrebbe avuto la possibilità di raccogliere prove in grado di inchiodarli in croce per molti decenni.
Non si respirava aria buona all’Ucciardone anche a causa dei rapporti tesi tra alcune cosche mafiose.
La violenta guerra che aveva insanguinato Palermo e che si pensava fosse stata scatenata dalla famiglia Labruna, contro i Russo, per alcuni chili di droga misteriosamente scomparsi, in realtà era stata provocata in modo subdolo da Michele Cavaterra, capo mandamento dell’Acquasanta. Il suo obiettivo era quello di sostituirsi alla cosca perdente, nel lucroso affare degli stupefacenti. Il soprannome di Cobra gli calzava a pennello perché Cavaterra era maestro nel provocare attentati e omicidi, facendo in modo che la colpa ricadesse su famiglie innocenti.
Saro, che si trovava nel carcere in attesa di giudizio per alcuni reati commessi a Corleone, era stato preso di mira dal boss dell’Acquasanta, soltanto perché era sotto la protezione dei fratelli Labruna, suoi acerrimi nemici.
Cavaterra andava a dire in giro che prima o poi Saro avrebbe fatto la fine del cappone a Pasqua. E con quelle chiacchiere che circolavano nell’ora d’aria, Saro non viveva giorni tranquilli all’Ucciardone.
In quello stesso periodo, si trovava in carcere anche Pietro La Torre, capo mandamento dell’Uditore, grande alleato di Michele Cavaterra.
Saro un bel giorno si ritrovò nell’infermeria del carcere con La Torre e un certo Giancarlo Laganà, un killer al soldo della famiglia di Michele Cavaterra. Nessuno di loro era affetto da alcuna malattia. Dietro quel ricovero c’erano i buoni uffici del medico mandamentale, un tale dottor Franco Barbieri. Il dottore era stato inviato lì da Tano Badaloni per tentare di scoprire il nome del traditore che stava raccontando i segreti di Cosa Nostra al giudice Tamburini.
Non a caso l’Ucciardone era stato soprannominato dai mafiosi Il Grand Hotel
. Si poteva far entrare di tutto e per i boss di riguardo era assicurato un soggiorno più confortevole nei saloni dell’astanteria.
Ma l’incontro con La Torre non aveva reso felice Saro. Anzi, la presenza del killer personale di Cavaterra era la dimostrazione che per lui si stava preparando qualche sorpresa poco piacevole.
Quella stessa notte infatti La Torre e Laganà aspettarono con pazienza che si addormentasse. Il loro piano era quello di ucciderlo nel sonno.
La Torre avrebbe raccontato che Saro aveva tentato di ammazzare con un coltello Giancarlo Laganà per antichi dissapori. Ma era riuscito soltanto a ferirlo e Laganà, dopo avergli tolto il coltello dalle mani, lo aveva pugnalato a sua volta. Il killer doveva farsi ferire a un braccio così da rendere credibile l’aggressione e poter sostenere la versione del tentato omicidio da parte del corleonese.
La Torre e Laganà sapevano quanto Saro fosse pericoloso e aspettarono che crollasse addormentato. Sentivano che smaniava e si rigirava nel letto, senza prender sonno.
Poi il corleonese si alzò per andare al bagno. Accese la luce dello stanzino, orinò nel bugliolo, azionò lo sciacquone e spense la luce. Trascorsero alcuni minuti. Ai due che lo aspettavano nei loro letti parvero un’eternità. Lo sentirono tossire.
Saro rientrò nella camerata, immersa nella penombra. Procedeva lentamente a tentoni, per non sbattere contro eventuali ostacoli. Girò intorno al suo letto e finalmente s’infilò tra le coperte.
Laganà, tentando di perforare con lo sguardo il buio, lo vide sdraiarsi.
Saro sembrava aver trovato pace. Dopo un’ora il respiro diventò regolare. Si era finalmente addormentato. La Torre si voltò lentamente verso il letto di Laganà e nella penombra percepì che anche lui si era addormentato. Gli toccò delicatamente un braccio e il sicario aprì gli occhi. Era in uno stato di dormiveglia e riprese immediatamente il controllo della situazione. Tese l’orecchio e avvertì il ritmo regolare e il respiro pesante di chi è addormentato.
Scostò con la lentezza di un bradipo le coperte e scese dal letto a piedi nudi. Con la destra impugnava il lungo e massiccio coltello da macellaio. Poggiò i piedi a terra e lentamente si diresse verso il letto del corleonese. Camminava in punta di piedi per evitare qualsiasi sonorità con le mattonelle sconnesse del pavimento. Strinse l’impugnatura con forza e sollevò il coltello, pronto a colpire.
Saro dormiva dandogli le spalle. Il killer era ormai a un metro dal suo letto. Fece un altro passo, ma un frammento di vetro gli penetrò la pianta del piede. Poggiò l’altro a terra per equilibrarsi, ma altre schegge vetrose gli si ficcarono tra le dita e il tallone penetrando nella pelle come spilli. Questa volta non riuscì a trattenere un gemito. Ma Saro si era allertato già dal primo rumore. Sgusciò dal letto proiettandosi con violenza contro l’aggressore.
Coricandosi aveva preso la precauzione di non togliersi le scarpe. Con un calcio gli colpì la mano che impugnava il coltello, facendoglielo volare lontano, poi con la fronte gli sparò una testata sulla bocca con tutte le forze, facendogli saltare i due incisivi superiori. Un fiotto di sangue inondò il volto di Laganà che non s’aspettava una reazione così improvvisa e violenta.
Saro però non aveva smaltito la sua furia e lo colpì ripetutamente al volto a pugni nudi, finché l’uomo non scivolò a terra, ferendosi con i numerosi frammenti di vetro sparsi per terra. Erano i resti della lampadina del bagno che il corleonese aveva infranto e poi sparpagliato intorno alla sua branda.
La Torre, vista la mala parata, si era precipitato a raccogliere il coltellaccio. Saro si girò verso di lui, afferrando un cuscino per usarlo come scudo. Nella penombra La Torre poté vedere i suoi occhi che sfavillavano come braci ardenti. Capì che se Saro lo prendeva, sarebbe stata la sua fine.
«Calmati! Io non c’entro niente con quello stronzo», gli gridò, agitando il coltello.
«Noi di Corleone, siamo villani, ci chiamate così, vero?... Ma non siamo coglioni», gli sibilò Saro con tutto il suo odio. «La Torre, comincia a raccomandare l’anima a Dio».
S’accese la luce della camerata. Il rumore della colluttazione aveva messo in allarme l’infermiere e le guardie del piano. Quando i due agenti videro La Torre che impugnava il coltello, lo immobilizzarono e gli infilarono le manette.
Poi i lamenti dell’altro ricoverato, rovesciato bocconi sul pavimento, attirarono la loro attenzione.
Saro lo indicò: «Ha tentato di ammazzarmi». Poi si rivolse a La Torre. «È vero?», gli chiese per non essere smentito.
Pietro La Torre, percepì la minaccia, insita nella domanda, e fece un cenno di assenso. Quindi fu portato fuori.
Giancarlo Laganà fu ammanettato al letto. L’infermiere gli iniettò un calmante e cominciò a medicargli le ferite.
2
Il canto dell’usignolo
La cattura di Ninuzzu, ormai definito dai giornalisti la Primula rossa di Corleone, e dell’altro latitante, Saro, detto Manuzza, per le sue mani piccole, ma forti come quelle di una benna, avevano fatto guadagnare al commissario Angelo Manfredi una promozione a vicequestore e il conseguente trasferimento dalla questura di Corleone a quella di Palermo.
Alla finestra del suo ufficio, al secondo piano del palazzo della Questura centrale in piazza della Vittoria, si stava godendo la vista del giardino di palme e platani che abbelliva la piazza, una delle più belle della città.
Gli avevano comunicato che la tradotta era già partita dall’Ucciardone con il detenuto e che sarebbe arrivata da lì a poco.
Manfredi si lisciò la barba e i baffi. Era in attesa del furgone che trasportava Luciano Deriu, un corleonese accusato di estorsione e di associazione a delinquere aggravata. Deriu aveva almeno quattro omicidi sulla coscienza e a quanto pare sembrava disposto a rilasciare dichiarazioni spontanee.
Era lui l’usignolo a cui la mafia stava dando la caccia. Era importante mantenere il più stretto riserbo sulla sua identità. In Questura c’erano sicuramente talpe al soldo della mafia, per questo il giudice Cesare Tamburini, aveva preferito interrogarlo in un sotterraneo del Tribunale, lontano da orecchie indiscrete.
Vide in lontananza il furgone arrivare da Corso Vittorio Emanuele. Si fece trovare in strada e salì sul retro, dove su uno dei due sedili contrapposti si trovava una guardia carceraria. L’agente salutò il superiore e il commissario si sedette di fronte a lui.
Manfredi, con il suo metro e novanta, era costretto a tenere la testa piegata per non toccare il tetto del furgone. Lanciò un’occhiata al di là della porta con le sbarre che divideva l’interno del furgone in due zone.
«Buongiorno, Deriu», lo salutò il vicequestore. «Sei pronto per la dichiarazione?»
«Non ho chiuso occhio questa notte, commissario», rispose il detenuto. Era un uomo alto, magro, sui cinquant’anni, con le guance scavate e un principio di calvizie.
«Tranquillo. Hai fatto la scelta giusta. Il giudice ne terrà conto», concluse il commissario adagiandosi sullo schienale.
Dal garage del tribunale, Deriu fu condotto direttamente in una delle sale sotterranee adibite agli interrogatori.
La stanza era disadorna. Dal soffitto pendeva una lampada schermata da un paralume di ferro e al centro si trovava un tavolino con due sedie ai lati. Il commissario Manfredi fece cenno a Deriu di sedersi su una delle sedie e fece uscire la guardia carceraria. Gli offrì una sigaretta, ma poi lasciò l’intero pacchetto tra le sue mani. L’uomo però glielo restituì.
«È meglio di no. Quando torno in cella non vorrei che i miei compagni possano pensare di aver avuto un regalo da uno sbirro».
Il giudice Tamburini entrò poco dopo, portava una vecchia borsa di pelle. Manfredi gli andò incontro e gli strinse la mano.
Il magistrato era un uomo di corporatura robusta, portava perennemente gli occhiali, appesi sulla punta del naso e ad appena 48 anni era quasi calvo, salvo un’ombra di peluria sulle tempie. Da anni si dedicava alla caccia dei mafiosi della provincia di Palermo e negli ultimi tempi aveva intuito che l’ascesa dei corleonesi, avrebbe rappresentato un grave motivo di conflitto tra le comunità mafiose.
Il pentimento di Luciano Deriu poteva rappresentare una svolta nella ricerca dei responsabili degli omicidi avvenuti a Palermo e provincia negli ultimi anni.
Il magistrato si sedette e poggiò la