101 storie sul Friuli che non ti hanno mai raccontato
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101 storie sul Friuli che non ti hanno mai raccontato - Mariachiara Davini
125
Prima edizione ebook: ottobre 2013
© 2013 Newton Compton editori s.r.l.
Roma, Casella postale 6214
ISBN 978-88-541-5926-6
www.newtoncompton.com
Edizione digitale a cura di Librofficina
Progetto grafico: Sebastiano Barcaroli
Copertina: Daniele Magrelli
Illustrazione di copertina: © Emiliano Tanzillo
Mariachiara Davini
101 storie sul Friuli
che non ti hanno mai raccontato
Illustrazioni di Toni Bruno
101storieFriuli_IC01.tifINTRODUZIONE
Ci sono esploratori, artisti del circo, dive dello spettacolo. Streghe ed eretici, poeti, conquistatori in carne e ossa o leggendari, artigiani amati in tutto il mondo. Inventori geniali, assassini, cuochi sopraffini, uomini potenti, donne coraggiose. Fra loro si aggira addirittura qualche spettro, che ancora trascorre notti inquiete sui bastioni di antichi palazzi, e tra un amore travolgente e un bandito sanguinario si avverte il profumo di una cucina, la musica di un rito antico, le voci di credenze magiche. I protagonisti – persone, cose, costumi, fantasmi, piante, luoghi – delle 101 storie raccolte in questo volume provengono da epoche differenti, a volte dal tempo della storia, altre da quello del mito; in comune hanno un territorio, il Friuli, la porta a Oriente del nostro Paese: da qui filtrano e si mescolano le correnti del Mediterraneo e i venti visionari dell’Est, da qui sono entrati conquistatori e sono uscite idee rivoluzionarie, qui sono divampate le guerre per i confini.
Attraverso questo passaggio proviamo a incamminarci anche noi, per esplorare una terra che è un mosaico di geografie e culture. Ci facciamo guidare nel viaggio dagli aneddoti meno noti dei suoi personaggi celebri, dalle leggende tramandate a voce e dalle tradizioni più singolari. Sappiamo bene fin dall’inizio che non riusciremo a cogliere il volto del Friuli: da ogni parte si provi a catturarlo, il volto sfugge, forse semplicemente non esiste. Al suo posto resta un coro di fisionomie, voci, lingue. Di storie, appunto. Solo alcune delle infinite che sul Friuli si possono raccontare.
MARIACHIARA DAVINI
101storieFriuli_IC01.tif101 STORIE SUL FRIULI CHE NON TI HANNO MAI RACCONTATO
101storieFriuli_IC13.tif1.
IL POZZO D’ORO DI AQUILEIA
«T i vendo il campo, ma non il pozzo d’oro» recitavano fino al Novecento i contratti di compravendita stipulati nella zona di Aquileia. Una clausola che testimonia come l’avidità e una certa, quasi tenera, dose di illusione possano avere una vita particolarmente lunga. Per la precisione, quasi duemilacinquecento anni.
L’antefatto risale al 452 e alla discesa in Italia di Attila, re degli unni, richiamato nella penisola da una donna. Giusta Grata Onoria è la figlia dell’ex imperatore romano d’Occidente Corrado
III
e la sorella dell’imperatore in carica Valentiniano
III
. Costretta dal fratello a restare nubile, per timore che un consorte troppo ambizioso possa usurpargli il titolo imperiale, Onoria si trova condannata a un ruolo di anonima comparsa che le va proprio stretto. I suoi primi tentativi di minare il potere di Valentiniano, con una congiura ordita insieme all’amante Eugenio, vengono puniti con l’esilio a Costantinopoli e l’obbligo di sposare un vecchio senatore romano. Ma, come si dice, Valentiniano ha fatto i conti senza l’oste, anzi senza la sorella. Onoria è una donna indomita e passionale, assetata di potere. Non ha alcuna intenzione di demordere e prepara una controffensiva audace: scrive una lettera chiedendo di essere salvata da quel matrimonio imposto e aggiunge, alle parole, un ragguardevole gruzzolo d’oro e il proprio anello imperiale, perché sia chiara l’identità del mittente. Poi invia il tutto niente meno che al capo degli unni, Attila. Certo Onoria non è una sprovveduta: Attila è senza dubbio ambizioso, ma soprattutto tiene sotto scacco da anni l’Impero d’Occidente seminando morte e distruzione.
Il re degli unni – che a quanto pare possedeva già una nutrita schiera di mogli e figli e un appetito erotico fuori del comune, insieme a un’inestinguibile sete di potere – non si fa pregare: interpreta l’appello di Onoria come una richiesta di matrimonio, manda a Valentiniano una lettera in cui la dichiara sua moglie e chiede come dote appena metà dell’Impero d’Occidente. Di fronte al prevedibile rifiuto, nel 452 il re unno invade l’Italia.
Giunto dalla Pannonia, Attila varca quella che da sempre è la porta italiana d’Oriente: il Friuli. Con le sue truppe tristemente famose per la ferocia, si dirige verso Aquileia. I ricchi notabili romani si preparano a lasciare la città per rifugiarsi a Grado, isola dell’omonima laguna. Ma – racconta una leggenda – prima di partire decidono di raccogliere le proprie ricchezze e metterle al sicuro sotto terra. La tradizione annovera nel tesoro anche la coppa da cui Cristo bevve durante l’Ultima cena, portata ad Aquileia da Giuseppe di Arimatea. I ricchi romani fanno quindi scavare ai propri schiavi un pozzo (puteum aureo, in latino), poi lo riempiono d’oro e oggetti preziosi e lo coprono per dissimularlo. La sorte peggiore tocca, guarda un po’, agli schiavi, annegati dopo quella faticaccia insieme al loro segreto. Una morte purtroppo del tutto inutile. Dopo un lunghissimo assedio, Attila finirà per prendere possesso di Aquileia, lasciandosi dietro la solita scia di devastazione: la distruggerà per sempre (non venne mai ricostruita splendida come prima del suo passaggio) e, si dice, spargerà il sale sui propri passi. Passata la furia unna, i notabili aquileiesi ritorneranno in città, per scoprire che del tesoro si è persa ogni traccia.
Mai più ritrovato, resiste fino quasi ai nostri giorni solo nei contratti di compravendita, dove i venditori fanno valere sugli acquirenti lo ius putei. Ovvero, il diritto di possesso sul pozzo dei tesori, nell’eventualità che scavando il nuovo proprietario lo ritrovi. Il futuro è imprevedibile e nella vita è bene prepararsi a ogni, improbabile, evenienza.
101storieFriuli_ILLU01.tifLA BASILICA PATRIARCALE DI SANTA MARIA ASSUNTA AD AQUILEIA
101storieFriuli_IC02.tif2.
ATTILA SULLA COLLINA
Mentre attraversava il Friuli diretto a Ravenna – dove correva a rivendicare il proprio diritto su metà dell’Impero in quanto «legittimo» marito di Onoria, l’augusta sorella dell’imperatore Valentiniano – Attila seminava terrore e distruzione. Se il suo passaggio lasciava la terra inerte, fecondava però l’immaginazione, facendo fiorire i racconti. La storia del Friuli è intrisa di leggende sul re degli unni, reinterpretazione fantastica di un momento terribile e memorabile del suo passato. Tanto che anche Udine, secondo la tradizione, sarebbe debitrice al terribile condottiero.
In particolare, gli dovrebbe il colle su cui si erge il castello cittadino, e l’avvallamento ai suoi piedi, dove oggi trova posto la piazza più grande della città, piazza Primo maggio. In realtà il colle è una formazione di origine morenica, un accumulo di rocce e detriti trasportati dallo scivolamento di un ghiacciaio, che in un tempo decisamente precedente ad Attila ha innalzato proprio in mezzo alla pianura una collina isolata, centro casuale di una futura città. Nemmeno il castello ha nulla a che fare con il re degli unni, dal momento che le prime notizie documentate della presenza di un edificio sul colle risalgono solo al 983 d.C., quando una fortificazione militare posta sulla collina venne donata dall’imperatore romano Ottone
II
al patriarca di Aquileia Rodoaldo. Su quell’antico castrum sorse in seguito un complesso fortificato più ampio dove i patriarchi di Aquileia si installarono fino al 1420, quando la città di Udine e il Friuli passarono sotto il controllo della Serenissima. Nel 1511 la fortezza venne distrutta dalle fiamme e nel 1517 i lavori di ricostruzione presero avvio sotto la guida dell’architetto Giovanni Fontana. Il castello come lo conosciamo oggi è frutto di quest’opera di ricostruzione, terminata solo cinquant’anni più tardi, a cui lavorarono anche i pittori Giovanni da Udine, collaboratore di Raffaello Sanzio, Pomponio Amalteo, Giovanni Battista Grassi, Francesco Floreani e Gianbattista Tiepolo.
Che c’entra in questa storia di patriarchi e veneziani, in questo adoperarsi di architetti, pittori e decoratori, il brutale re degli unni? Poco in effetti, quasi nulla. Se non fosse che l’immaginazione dei friulani attribuisce a lui l’esistenza stessa del colle. Narra infatti la leggenda che quella collina, su cui cinquecento anni dopo fu costruito un castro militare, se ne stia lì per volere di Attila. Dopo aver devastato Aquileia e aver appiccato un terribile incendio, Attila doveva pur procurarsi una galleria adeguata da cui assistere allo spettacolo grandioso delle fiamme che divoravano la bella città dei patriarchi. Presto fatto, in tre giorni i soldati eressero il colle: certo, un uomo del suo livello non si faceva intimidire da qualche chilometro di pianura. Attila, secondo la leggenda, ordinò ai suoi uomini di innalzare un colle, trasportando la terra nei propri elmi. Così anomalo in mezzo alla piana su cui si allarga la città di Udine, il colle del castello resterebbe a memoria di quell’uomo terribile e grandioso che travolse il Friuli.
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UNA GROTTA E UN INGANNO
Attila stava scendendo in Italia, diretto con la sua orda di unni sul Friuli. Dietro di loro, si diceva, non restava che morte e distruzione. Dal castello di Biacis, vicino a Pulfero nelle Valli del Natisone (Udine), la regina Vida era in preda all’angoscia: conosceva bene la fama degli unni, doveva trovare un modo per mettere in salvo la sua gente. Così, dopo aver pensato a lungo, ebbe un’idea. Raccolse i suoi sudditi e insieme a loro si rifugiò nella grotta di San Giovanni d’Antro, una grande caverna sul fianco del monte Mladesena. Lì, pensava la regina, sarebbero stati al sicuro. E infatti Attila e i suoi non riuscirono a raggiungere la grotta, il cui ingresso si apriva su una parete di roccia verticale, e non potendo stanare i rifugiati li posero d’assedio. Dopo molti mesi dentro la caverna i viveri cominciavano a scarseggiare. Restava ormai solo un sacco di grano: di fronte alla prospettiva certa della morte, la regina decise di rischiare tutto e tentò la strada dell’inganno. Prese il sacco di grano e lo rovesciò al vento, all’ingresso della grotta, di fronte agli occhi stupefatti degli unni. Poi, a gran voce, tese il suo tranello: la gente asserragliata lì dentro – gridò – aveva ancora tanti sacchi di grano quanti erano i chicchi che vorticavano in aria. Gli unni caddero nella trappola: pensarono che la grotta avesse un accesso segreto da cui la popolazione di Pulfero si riforniva di viveri e tolsero d’assedio la caverna.
È solo una leggenda: la regina Vida è frutto dell’immaginazione popolare, ma la grotta di San Giovanni d’Antro esiste eccome ed è stata una presenza così importante nelle Valli del Natisone che intorno alle sue viscere misteriose sono sorte mille storie. La caverna, di cui sono stati esplorati i primi quattromilacinquecento metri, si sviluppa in corridoi, laghetti, camini, saloni, meandri che oggi sono facilmente visitabili dai turisti per i primi trecento metri. Dai resti che vi sono stati ritrovati e dalle opere murarie ancora visibili, sappiamo che è stata frequentata da uomini e animali sin dai tempi preistorici e che durante le invasioni barbariche servì effettivamente da rifugio per la popolazione. Magari non guidata da una regina astuta come Vida, ma certo asserragliata al sicuro dei suoi impenetrabili corridoi.
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SOTTO IL SEGNO DELLE DONNE
Al disgregarsi dell’Impero romano, l’Italia fu attraversata dalle scorrerie dei barbari, popolazioni stanziate ai confini nord-orientali. Fra gli altri, i longobardi segnarono in maniera profonda, indelebile il Paese, instaurando una dominazione estesa e potente dal 568 d.C. al 774. Gli storici oggi concordano nel dire che i longobardi nacquero dall’unione di diversi popoli germanici, aggregatisi durante secoli di migrazioni a partire da un primo nucleo di winnili originari della Scania, nell’attuale Svezia, terra ricca di gente ma non altrettanto di risorse. Proprio per sfuggire a una temibile carestia, nel
II
secolo d.C. i winnili si sarebbero messi in cammino verso sud, stabilendosi lungo il basso corso del fiume Elba e spostandosi poi nel
V
secolo in Pannonia, l’attuale Ungheria. Da qui mossero i loro attacchi all’Italia, fino a invaderla. La via d’accesso per la penisola fu proprio il Friuli: nel 568 Cividale del Friuli, piccolo centro lungo il fiume Natisone, cadde sotto la loro aggressione e fu, a tutti gli effetti, il primo insediamento longobardo in Italia.
Ma quando i winnili si trasformarono in longobardi? La tradizione ha una spiegazione mitica del nome, tradizione riportata da Paolo Diacono, monaco, storico e scrittore longobardo di lingua latina, autore dell’Historia Langobardorum, la nostra fonte principale su questo popolo guerriero. La leggenda narra che i winnili stanziati in Scania, assediati dalla carestia, si divisero in tre gruppi. Uno di questi, composto dai più giovani, fu posto sotto il comando dei fratelli Ibor e Aio. I due valorosi guerrieri erano figli di una madre altrettanto notevole, Gambara, forse sacerdotessa devota alla dea Frea, sicuramente donna d’ingegno e di grande saggezza, faro per tutto il suo popolo. Ibor e Aio condussero la loro gente fino in Scoringa, sulle coste meridionali del Mar Baltico, regione controllata dai vandali. Esattori implacabili, i vandali esigevano tributi salati dalle popolazioni che abitavano le loro terre.
Ai longobardi quest’usanza non piaceva per niente. Gli piaceva così poco che, pur di non pagare le tasse, decisero di muovere guerra ai padroni di casa.
La notte prima dello scontro Gambara invocò l’aiuto della sua protettrice, la dea nordica Frea, moglie di Wotan, re dell’Olimpo norrenico. La dea diede alla sua sacerdotessa un consiglio che avrebbe segnato per sempre la storia dei longobardi. Le disse che l’indomani sarebbero dovute scendere in battaglia anche le donne, con i capelli sciolti sotto il mento, in modo da sembrare una lunga barba. Così, l’esercito longobardo sarebbe parso più numeroso e temibile.
Quando l’indomani Wotan guardò verso Oriente, dove sorgeva il sole, vide schierato un esercito immenso. «Chi sono quei lunghe-barbe?», chiese a Frea. Poi, convinto dalla sua sposa, il dio concesse loro la vittoria. I longobardi si batterono valorosamente ed ebbero la meglio sui vandali, impressionati dal numero dei nemici, e da quel giorno si votarono a Wotan, dio della guerra e re di tutti gli dèi del Nord.
Longobardi, langbart: lunghe-barbe. Secondo la tradizione questo popolo prese il proprio nome dalle barbe-chiome di donne schierate in battaglia, protette da una sacerdotessa saggia e da una dea ingegnosa. È solo una leggenda ovviamente, ma il significato del termine longobardi, secondo gli storici, è davvero «lunghe barbe», per i barboni lunghi e selvaggi che gli uomini sfoggiavano.
101storieFriuli_IC16.tif5.
ALBOINO, UN BRINDISI AL SUOCERO
Diventare padroni dell’Italia: ecco il sogno di tutti i popoli germanici di fronte al declino sempre più profondo e irreversibile dell’Impero romano. Il sogno si trasformò in realtà nel 568, quando i longobardi oltrepassarono i confini italiani, incontrando da parte bizantina ben poca resistenza. Passando attraverso l’Isonzo penetrarono nella penisola e presero stabilmente possesso di Cividale, loro primo insediamento e base per la successiva, trionfale espansione nel Paese.
A guidare quel popolo di cento-centocinquantamila individui fra guerrieri e «civili» – che a differenza delle altre genti germaniche si trasferivano in toto nei luoghi di conquista – fu il re Alboino, personaggio mitico, cantato quand’era ancora in vita nei poemi germanici e protagonista per la tradizione di una storia a tinte forti di amore e morte.
Molto prima di diventare re d’Italia, Alboino era stato un giovane guerriero valoroso e aveva sconfitto a più riprese il popolo dei gepidi in Pannonia, dove i longobardi erano stanziati prima dell’ingresso in Italia. Durante la tregua da una battaglia, Alboino aveva scorto nel campo nemico Rosmunda, la figlia del sovrano dei gepidi Cunimondo. Il colpo di fulmine era stato inevitabile, istantaneo, e nel cuore del principe longobardo si era insediato un desiderio che non gli dava pace.
La diplomazia e l’opportunità politica, però, avevano altri piani. Costretto dal padre Audoino, Alboino sposò Clodosvinta, figlia del re dei franchi, con un matrimonio che non riuscì affatto a sopire il pensiero di Rosmunda. Così, racconta la tradizione, dopo la morte prematura di Clodosvinta Alboino, ormai incoronato re dei longobardi, andò da Cunimondo per chiedere la mano della sua bella figliola. Il re dei gepidi non volle sentire ragioni, e così Alboino. Perciò, forse contro la volontà della principessa o forse no,