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I cani e i lupi
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I cani e i lupi
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I cani e i lupi

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About this ebook

Introduzione di Maria Nadotti
Traduzione di Luisa Collodi
Edizione integrale

Harry è attratto e al tempo stesso terrorizzato da Ada, come un cucciolo mite che sobbalza all’ululato lontano e selvaggio di un lupo, al misterioso richiamo del sangue che spaventa e affascina. Eppure, fra i due bambini, la differenza è enorme: lui abita in una sontuosa villa, è ricco, elegante e curato, mentre lei è figlia di ebrei poveri, disprezzati ed evitati da tutti. Fin dal primo sguardo, Ada capisce che Harry è l’unico amore della sua vita; il ragazzo è impaurito. Molti anni dopo si rincontreranno a Parigi e scopriranno che l’antica attrazione non è sparita.

«La città ucraina, culla della famiglia Sinner, era, agli occhi degli ebrei che la abitavano, formata da tre distinte regioni, come sui quadri antichi: i reietti in basso, tra le tenebre e le fiamme dell’inferno, i mortali al centro della tela, rischiarati da una luce tranquilla e pallida, e, in alto, il regno degli eletti.»


Irène Némirovsky
nata a Kiev nel 1903 da una famiglia di ricchi banchieri di origini ebraiche, visse a Parigi dove, appena diciottenne, cominciò a scrivere. Nel 1929 riuscì a farsi pubblicare il romanzo David Golder, ottenendo uno straordinario successo di critica e di pubblico. Irène continuò a scrivere, ma presto fu costretta a usare un altro nome, perché gli editori, nella Francia occupata dai tedeschi, avevano paura di pubblicare i libri di un’ebrea. Nel luglio del 1942 fu arrestata e deportata ad Auschwitz, dove ad agosto, a trentanove anni, morì, lasciando incompiuto il suo ultimo capolavoro, Suite francese. La Newton Compton ha pubblicato Suite francese, Due; Come le mosche d’autunno - Il ballo; Il vino della solitudine; I cani e i lupi; Il calore del sangue - Il malinteso; Jezabel; Il signore delle anime; David Golder; I fuochi dell’autunno.
LanguageItaliano
Release dateDec 16, 2013
ISBN9788854148871
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    I cani e i lupi - Irene Nemirovsky

    Capitolo 1

    La città ucraina, culla della famiglia Sinner, era, agli occhi degli ebrei che la abitavano, formata da tre distinte regioni, come sui quadri antichi: i reietti in basso, tra le tenebre e le fiamme dell’inferno, i mortali al centro della tela, rischiarati da una luce tranquilla e pallida, e, in alto, il regno degli eletti.

    Nella città bassa, vicino al fiume, viveva la marmaglia, gli ebrei infrequentabili, i piccoli artigiani. Gli affittuari delle botteghe sordide, i vagabondi, un popolo di bambini che si rotolavano nel fango, parlavano soltanto yiddish, portavano camicie a brandelli ed enormi berretti su colli fragili e lunghi boccoli neri. Molto lontano da loro, in cima a colline coronate di tigli, si trovavano, tra le case degli alti funzionari russi, e quelle dei signori polacchi, alcune belle dimore che appartenevano a ricchi israeliti. Avevano scelto quel quartiere a causa dell’aria pura che vi si respirava, ma soprattutto perché, in Russia, all’inizio di questo secolo, sotto il regno di Nicola ii, gli ebrei erano tollerati soltanto in certe zone, in certi distretti, in certe strade, e perfino, a volte, da un solo lato di una strada, mentre l’altro gli era proibito. Le proibizioni, tuttavia, esistevano soltanto per i poveri: non si era mai sentito dire che una mancia non avrebbe fatto addolcire anche le più severe. Il punto d’onore degli ebrei era di sfidarle, non per un vano spirito di contraddizione, o per orgoglio, ma per rendere noto agli altri ebrei che valevano più di loro, che avevano guadagnato più soldi, venduto a miglior prezzo le rape o il frumento. Era un modo per far sapere la crescita del proprio patrimonio. Un tale era nato nel Ghetto. A vent’anni, aveva qualche soldo, saliva uno scalino nella vita sociale; cambiava casa e andava a stabilirsi lontano dal fiume, vicino al mercato; subito sul lato pari (proibito) della strada; più tardi, sarebbe salito ancora: si sarebbe stabilito nei quartieri dove, secondo la legge, nessun ebreo aveva il diritto di nascere, di vivere, di morire. Lo rispettavano; per la comunità era al contempo oggetto di invidia e simbolo di speranza: si poteva salire fino a quelle altezze. La fame non contava niente, né il freddo e la sporcizia contavano, con simili esempi, e, nella città bassa, molti sguardi si alzavano verso le fresche colline dei

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