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Tutti i romanzi e i racconti e Dizionario filosofico
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Tutti i romanzi e i racconti e Dizionario filosofico

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Introduzione di Valentino Parlato
Con un saggio di G.B. Angioletti
Edizioni integrali

Nei romanzi filosofici di Voltaire sembra essersi cristallizzato lo spirito di un intero secolo: l’arguzia, l’eleganza, il culto delle buone maniere e dell’intelligenza che caratterizzano il Settecento trovano in essi la loro espressione più compiuta e perfetta, ma contemporaneamente si armano di vis polemica, di satira accusatoria, di amara ironia per combattere, come afferma Giovanni Macchia, la battaglia «in difesa della ragione, della civiltà, della cultura» che un regime sempre più antico, dissoluto e cieco ferocemente avversava per salvaguardare l’eternità dei propri privilegi. Dopo aver scritto Zadig, il suo primo romanzo, Voltaire non abbandonerà mai più questo genere letterario, che gli assicurò l’immortalità. Attraverso romanzi e racconti come Micromegas, Candido o La principessa di Babilonia contribuì in maniera decisiva alla diffusione dei Lumi, la cui filosofia, unendosi alle rivolte popolari, portò a quello sconvolgimento epocale che fu la Rivoluzione francese. La sua penna caustica smascherò impietosamente gli idoli dell’oscurantismo: dietro lo schermo delle allegorie orientaleggianti o delle maschere burlesche, l’intento critico delle sue opere narrative è così evidente che risulta impossibile separarle dagli scritti più apertamente militanti come il Dizionario filosofico, il cui stile è altrettanto vivace e ricco di invenzioni argute. «Consideriamolo in questa vitalità, nell’eterno dinamismo del suo pensiero, da cui sgorga una forma di sanità, quasi di felicità: felicità dell’agire, dell’intervenire, felicità di salvare l’uomo. Consideriamolo nella sua moderna dignità di scrittore, che ha visto nel libro il simbolo del pacifico progresso umano».



Voltaire

François-Marie Arouet, che nel 1718 assumerà lo pseudonimo di Voltaire, nacque a Parigi nel 1694. Nel 1718 era già un celebre tragediografo; nel 1726, come conseguenza di un duello, conobbe la Bastiglia e l’esilio in Inghilterra; dopo una vita intensa condotta tra fughe, amicizie regali, studi e impegno civile contro l’intolleranza e l’ingiustizia, nell’aprile del 1778 tornò a Parigi ma morì quasi subito, il 30 maggio 1778. Scrisse opere storiche, poemi epici, libelli polemici, versi d’occasione, prose filosofiche e letterarie.
LanguageItaliano
Release dateDec 16, 2013
ISBN9788854141865
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    Tutti i romanzi e i racconti e Dizionario filosofico - Voltaire

    388

    Le traduzioni dei Romanzi e racconti e del Dizionario filosofico

    sono rispettivamente di Paola Angioletti e di Maurizio Grasso

    Prima edizione ebook: settembre 2012

    © 1995, 2011 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-4186-5

    www.newtoncompton.com

    Edizione elettronica realizzata da Gag srl

    Voltaire

    Tutti i romanzi e i racconti

    e

    Dizionario filosofico

    Introduzione generale di Valentino Parlato

    Traduzioni di Paola Angioletti e Maurizio Grasso

    Note introduttive di Riccardo Campi e Angelo G. Sabatini

    Con un saggio di G.B. Angioletti

    Edizioni integrali

    Newton Compton editori

    Introduzione

    Se non sbaglio, questo è un ritorno in Italia di Arouet François-Marie, meglio conosciuto come signor di Voltaire. Negli ultimi tempi, e da molto, frequentava poco il nostro paese. A meno che non abbia fatto qualche viaggio in incognito per trovare qualche amico, ma chi? Forse Umberto Eco? Chi altro poi?

    Certo la morte di Italo Calvino e anche l’uscita di scena dei vecchi amici (nemici) di Italo Calvino gli deve aver fatto cadere il piacere di venire in Italia. Tra gli altri era andato via anche Leonardo Sciascia, che gli aveva fatto l’omaggio di un piccolo Candido. Con i Calasso, i Ceronetti, i Cacciari non si doveva trovare a suo agio. Il cattivo odore della metafisica gli guastava il piacere della conversazione: non c’era più quel sapore francese, che lui trovava anche in Cina. E Voltaire, che pure non sopportava la pesantezza, non era granché attratto neppure dal pensiero debole di Vattimo e degli altri. Ricordando le conversazioni americane con Calvino il patriarca di Ferney deve aver fatto qualche amara considerazione sulla differenza tra velocità, leggerezza e debolezza. Dov’era finito l’ésprit? E poi la complessità, come contrario della chiarezza, e l’ottimismo come esaltazione dell’immutabilità del presente non debbono averlo molto attirato. Come Candido, si deve essere detto che era meglio coltivare «il nostro giardino».

    Tutt’altra cosa cinquantanni fa o, meglio, nel decennio immediatamente successivo la seconda guerra mondiale, quando l’infâme sembrava schiacciato per sempre. Allora molti uomini e donne, anche in Italia, avevano fatto proprio l’imperativo di Voltaire, «écraser l’infâme». C’erano riusciti e benché fossero passati tanti anni, tante culture si fossero sovrapposte, nuovi maestri imposti all’attenzione e rispetto del mondo, tuttavia dopo la caduta del fascismo e del nazismo ci fu un grande ritorno della «fortuna di Voltaire». Il suo Trattato sulla tolleranza, presentato da Palmiro Togliatti e stampato in edizione popolarissima, veniva usato come libro di formazione della risorta democrazia italiana. E come armi della battaglia delle idee entravano in circolazione il Dizionario filosofico, Candido, Zadig, Micromegas (che ad alcuni apparve come una straordinaria anticipazione dei migliori racconti di fantascienza, quasi un incitamento ad Asimov), L’uomo dai quaranta scudi, ecc. Le lettere filosofiche e il Secolo di Luigi XIV animavano il lavoro di filosofi e storici.

    Per capire questo ritorno, leggere in modo meno astratto i suoi racconti, forse per capire meglio Voltaire medesimo, mi pare essenziale rievocare quella stagione felice di Voltaire in Italia e forse ci vorrebbe un lavoro più lungo e minuzioso sulle edizioni del Canguro e della Bur, sui dati di vendita, le recensioni e le polemiche, la discussione che Il trattato sulla tolleranza sollevò all’interno del PCI. Quelli erano tempi nei quali maestro Andrea Zdanov non ci andava tanto leggero.

    Quella stagione felice, quasi una pantheonizzazione, non durò a lungo.

    I tempi cambiavano rapidamente, la crescita industriale del paese rendeva lo scontro sociale più aspro, ma soprattutto, e anche per il fiorire dei movimenti di liberazione nazionale a livello mondiale, maturavano più radicali esigenze di trasformazione. Così ad insidiare la fortuna di Voltaire arrivò, com’era inevitabile, il solito Gian Giacomo Rousseau. I due, per quanto affratellati nelle famose parole di Gavroche («se cadi per terra la colpa è di Voltaire, se cadi nel ruscello la colpa è di Rousseau»), erano proprio antagonisti. Nella spinta radicale dei nuovi tempi (poi sarebbe venuto anche il ’68) l’eguaglianza di Rousseau faceva premio sul «buon senso» di Voltaire ed «écraser l’infâme» appariva - come si diceva allora - una «lotta arretrata». Così Rousseau fu presentato come una sorta di predecessore anticipatore di Marx; e Voltaire con Marx non c’entrava proprio niente, tornasse quindi nei salotti della borghesia, che peraltro di Voltaire aveva amato al massimo la scostumatezza libertina senza apprezzarne mai il «buon senso», rimuovendo sempre quella sua fissazione da vecchio di «écraser l’infâme».

    Di questa sua piccola disavventura italiana Voltaire non deve essersi affatto stupito. Penso che abbia sorriso e ricordato che, tale e quale, anche se in forme più adeguate alla grandezza della Francia, la stessa cosa gli era capitata ai tempi della Grande rivoluzione. L’11 luglio del 1791, attraversando tutta Parigi, con varie tappe simboliche, innanzitutto quella alla Bastiglia, il corpo di Voltaire, su un carro trainato da quattro cavalli bianchi, fu portato al Pantheon come il primo grande precursore della rivoluzione. «Lo sguardo penetrante di Voltaire», recitavano i discorsi celebrativi, «ha letto nell’avvenire, scorgendovi l’aurora della rigenerazione di cui spargeva i semi.» Poi cominciò il declino. Robespierre faceva notare che la rivoluzione aveva rimpicciolito molti uomini dell’ancien régime e annetteva Voltaire all’ancien régime. Da uno spoglio di 4500 opuscoli e pamphlet degli anni 1791,1792 e 1793 risulta che nel 1791 le citazioni del nome di Voltaire superavano di gran lunga quelle di Rousseau, nel 1792 i due erano a pari merito e già nel 1793 il rapporto si era rovesciato. Alla fine, sia ai giacobini che ai reazionari Voltaire apparve uno che dava più importanza alle passioni che alla virtù, un edonista più vicino agli «scostumati» che ai virtuosi. Lo lasciarono nel Pantheon, ma non era più il padre della rivoluzione, peraltro nello spazio di pochi anni termidorizzata e napoleonizzata.

    Così erano andate le cose duecento anni prima, quindi, perché meravigliarsi? Tanto più che anche la fortuna di Rousseau non sarebbe durata a lungo, tanto più che anche il bicentenario della Grande rivoluzione nel 1989 per un verso si era trasformato in una grande autocritica e per l’altro aveva segnato la fine, in forma di autodissoluzione, di quello che per quasi un secolo era stato il grande sogno di trasformare il mondo. Credo che Voltaire ridacchiasse con amara ironia, pari forse a quella con la quale, nel 1770, racconta in una lettera a Madame Necker che essendo venuto lo scultore Pigalle a Ferney per fargli una statua, la gente del villaggio, vedendo Pigalle tirar fuori i ferri del suo mestiere, pensò subito che si trattasse di un chirurgo che era venuto per dissezionare il corpo di Voltaire. «È così, cara signora», scriveva Voltaire, «voi fo sapete, un qualsiasi spettacolo diverte gli uomini.»

    Ma perché, a quasi trecento anni dalla sua nascita (299 anni esatti) il signor di Voltaire ha pensato di fare questo viaggio in Italia con, nella valigia, tutti i suoi romanzi, i racconti e il dizionario filosofico?

    Bella domanda. Parliamo prima del suo viaggio e poi del suo bagaglio.

    La premessa è che Voltaire odiava «il sistema», odiava la metafisica ed era assolutamente convinto che l’azione intellettuale dovesse avere un effetto pratico. Questa premessa è importante - anche per leggere questo volume - ed è documentata dalla vita e dall’opera di Voltaire.

    La risposta, molto schematica e da dimostrare, è che il patriarca di Ferney, «il vecchio atleta» di Michelet, deve essersi convinto che l’infâme è tornato in campo alla grande e conquista terreno, e che il mondo, quello occidentale innanzitutto, ma non solo, ha un grande bisogno di ésprit. Voltaire è tollerante e, a modo suo sopportò e apprezzò anche Rousseau. Ma Rousseau, se ne avrà voglia, potrà venire dopo: questo non è proprio il suo tempo, c’è bisogno di ironia, l’eguaglianza è momentaneamente fuori mercato. In questo momento la medicina, il vaccino contro l’infâme è il suo ésprit. Ma ha ragione Voltaire a pensare che l’infâme sia nuovamente tra noi ed è efficace il suo vaccino?

    Può darsi che Voltaire abbia letto il testo della conferenza sul fascismo che il suo amico Umberto Eco ha pronunziato qualche tempo fa alla Columbia University e ne sia rimasto impressionato, ma la risposta al primo quesito tocca a noi lettori. Pensiamo a rispondere. Gli indizi a conferma del sospetto sono molti e vaghi, ma è certo che anche Voltaire non avrà potuto fare a meno di osservare che l’illuminismo è in disgrazia e che anche il progresso del suo giovane amico Condorcet viene considerato roba da buttare nella spazzatura. Potrà essere giusto o sbagliato, ma è così e Voltaire - anche prima che lo scrivesse Kant (questo passaggio i moderni kantiani lo hanno rimosso) sapeva che «L’illuminismo è l’uscita dell’uomo da uno stato di minorità il quale è da imputare a lui stesso. Minorità è l’incapacità di servirsi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Imputabile a se stessi è questa minorità se la causa di essa non dipende da difetto di intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di servirsi del proprio intelletto senza essere guidati da un altro. Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! - è dunque il motto dell’illuminismo.

    La pigrizia e la viltà sono le cause per cui tanta parte degli uomini, dopo che la natura li ha da lungo tempo affrancati dall’eterodirezione (naturaliter maiorennes) tuttavia rimangono volentieri minorenni per l’intera vita; per cui riesce tanto facile agli altri erigersi a loro tutori. E tanto comodo essere minorenni! Se ho un libro che pensa per me, un direttore spirituale che ha coscienza per me, un medico che decide per me sulla dieta che mi conviene, ecc., io non ho più bisogno di darmi pensiero da me. Purché io sia in grado di pagare, non ho bisogno di pensare: altri si assumeranno per me questa noiosa occupazione».

    Non voglio insistere su questo punto - tocca ai lettori valutare e giudicare -, ma è forte l’impressione che in questa fase storica, diciamo più modestamente in questi anni, in Italia sia forte il desiderio di quel che Kant definiva «stato di minorità», quasi che il raggiunto benessere ci abbia dato finalmente la possibilità di «pagare» perché altri pensi per noi. E questo stato di minorità si accompagna (e come potrebbe essere altrimenti dal momento che la delega di responsabilità a un maggiore corrisponde sempre all’assunto che ci sia un mondo buono, come lo immaginano i bambini) a un rassegnato ottimismo panglossiano da far paura. La tentazione di trascinare Voltaire nell'immediato dibattito politico italiano è fortissima, ma sarebbe poco corretta verso un signore che già da solo e sempre con la sua vecchia fissazione ha deciso questo suo viaggio in Italia.

    Veniamo ora al suo bagaglio, i romanzi, i racconti, il dizionario filosofico.

    Voltaire ebbe una straordinaria passione, quasi una devozione, per la poesia e la tragedia, ma se avesse scritto solo poesie e tragedie non sarebbe Voltaire. Solo gli specialisti e i cultori di letteratura francese sanno oggi qualcosa de La Henriade o de La pucelle d’Orleans o delle tragedie Oedipe, Brutus, Zaire, Sophonisbe, Irene, ecc. In questo viaggio in Italia Voltaire ha pensato bene di alleggerirsi e di portare con sé solo romanzi, racconti, dizionari, che sono - non va dimenticato - il prodotto della sua maturità, tutta roba prevalentemente scritta dopo i cinquantanni. Voltaire, forse anche per prudenza data la loro pericolosità politica, fece sempre mostra di tener la distanza da questi scritti, definiti a seconda dei casi «giochi da scolaro», «sciocchezze», «bagattelle», addirittura «coglionerie». Ma non era sincero o affettava snobismo. In un momento di sincerità gli capitò di scrivere la verità: «Mai venti volumi in folio riusciranno a fare delle rivoluzioni: quelli che bisogna temere sono i piccoli libri portatili che costano trenta soldi. Se il Vangelo avesse avuto un prezzo di copertina di 1200 sesterzi la religione cristiana non si sarebbe diffusa e stabilizzata...». E, non a caso, Voltaire volle definire «portatile» (oggi si direbbe tascabile), nel titolo stesso il suo Dizionario filosofico. Voltaire era ed è un uomo che non scrive per scrivere (cosa di cui accusava Rousseau), ma per influire, agire, lottare, écraser l’infâme. Pertanto aveva il senso dei lettori, del pubblico, del mercato, dell’obiettivo politico. Leggiamo dunque questi racconti di Voltaire con lo spirito di Voltaire. Non fermiamoci al piacere piccolo borghese dell’arguzia, della buona battuta, ma ritroviamoci quell’ésprit, che come un acido fortemente corrosivo dissolse l’antico regime e contribuì decisamente alla formazione del nostro mondo moderno, dove tutto continua a non andar bene. Leggete il dizionario e i racconti e i romanzi e vi troverete suggerimenti e stimoli di una modernità inaudita. Vi troverete anche una serie di notazioni e suggestioni ecologiche. Un piccolo esempio di divertente attualità, tratto, appunto, dal Dizionario tascabile: «I siriani immaginarono che l’uomo e la donna, creati nel quarto cielo, si azzardarono a mangiare una focaccia invece dell’ambrosia che era il loro pasto naturale. L’ambrosia esalava dai pori; ma dopo aver mangiato una focaccia, bisognava andare di corpo. L’uomo e la donna pregarono un angelo di indicare loro dov’era il gabinetto. Vedete, disse l’angelo, quel piccolo pianeta, piccolo così, a circa sessanta milioni di leghe da qui? è quello il gabinetto dell’universo; andateci subito. Ci andarono, e là furono lasciati; da allora il nostro mondo è quello che è».

    L’importante in questa lettura illuministica è - come raccomandava Kant - non essere pigri, non confondere il pagamento del prezzo di questo libro, con l’acquisto del diritto a non pensare da se stessi. Nemmeno, e tanto meno con Voltaire, si può scegliere lo «stato di minorità». E soprattutto non confondere il «buon senso» di Voltaire con il «buon senso» dei tanti qualunquisti che popolano il nostro paese. Quanto ai racconti consiglierei particolarmente ai parlamentari che si occupano - senza mai concludere alcunché - del grande problema della giustizia tributaria (una vera comica) di leggersi con attenzione L’uomo dai quaranta scudi. Con un discreto montaggio di quello scritto potrebbero metter su un intervento parlamentare di straordinario successo e quell’intervento sarebbe di tanta attualità, che pochissimi si accorgerebbero che, ancora una volta, «la colpa è di Voltaire».

    Per concludere questa introduzione (che vuole essere niente altro che una cordiale e affettuosa lettera di benvenuto e di augurio a Voltaire che, con la sua valigia di libretti portatili, ha ritenuto opportuno, forse necessario, tornare in Italia) vorrei cedere la parola a un signore della letteratura francese, cioè a Giovanni Macchia che, nel suo Il naufragio della speranza (Mondadori, 1994), scrive: «Nessuno forse, in vita e in morte è stato odiato ed amato quanto Voltaire. Altre personalità, nel suo stesso secolo, godono del calmo refrigerio dell’ombra, restano al loro posto, vengono devotamente rispettate. Montesquieu è una di queste. Voltaire non consente simili tranquille devozioni. Viene adorato o insultato, respinto come un sacrilego avvelenatore, oppure idoleggiato come un liberatore. Lo stesso Joseph de Maistre, che aveva tutte le ragioni per dime male, confessava, leggendolo, di restare sempre sospeso tra l’ammirazione e l’orrore. E dispiace che, scendendo col tempo la scala degli esseri pensanti, Voltaire sia stato ridotto a cercarsi i suoi nemici nei tetri reazionari e i suoi amici nei piccoli borghesi, fedeli alle idee comuni.

    «Cerchiamo», ci dice Macchia alzando il tono della voce, «di sottrarre Voltaire a simili pericolose influenze. Come un uomo che continuamente si muove, egli muta volto secondo le epoche che lo guardano. Un tempo l’orto di Candido simboleggiava una morale del rifiuto. Oggi alla luce della storia civile ed economica esso rappresenta, come è stato sostenuto, l’esatto contrario: affermazione del movimento storico, liberato da ogni preoccupazione metafisica. Ed anche il suo pessimismo può essere visto come una filosofia dell’azione. Le resistenze che si oppongono al progresso, la forza del passato possono essere vinte solo quando, riconosciuta la loro esistenza, si ha fiducia e si agisce in funzione del futuro. Consideriamolo in questa vitalità, nell’eterno dinamismo del suo pensiero, da cui sgorga una forma di sanità, quasi di felicità: felicità dell’agire, dell’intervenire, felicità di salvare l’uomo. Consideriamolo nella sua moderna dignità di scrittore, che ha visto nel libro il simbolo del pacifico progresso umano. E su questa via, al di là del tempo in cui visse (e per cui non si può pensare ad una Francia e ad un’Europa moderne senza di lui) continua ancora oggi ad operare. E se alla fine dell’Ottocento, in epoche di libertà e di tolleranza, Voltaire sembrava invecchiato e superato, ecco che la sanguinosa recente storia d’Europa, il terribile tempo in cui viviamo, hanno reso ancora una volta vivi il suo insegnamento e la sua battaglia in difesa della ragione, della civiltà, della cultura».

    Queste parole di Giovanni Macchia sono di straordinaria attualità e per questo le riporto e per questo diamo tutti il nostro più grande benvenuto al signor di Voltaire che ha deciso di fare questo viaggio in Italia. E gli diciamo anche di darci una mano, ne abbiamo bisogno.

    VALENTINO PARLATO

    Le favole geniali di un grandissimo dilettante

    Saggio di G. B. Angioletti

    Era nato per scrivere. Sarebbe perfino diventato un poligrafo, fissandosi in un alto dilettantismo dal quale avrebbe tratto fama e onori sempre crescenti, in una società che tanto più ne distribuiva quanto più innocuo riteneva il giuoco letterario degli ingegni brillanti. Scriveva tragedie, commedie, poemi, storie di uomini e di regni, operette filosofiche; e da alcuni di questi lavori sperava gloria imperitura, specie dalle poesie e dalle tragedie, come la lunga epopea Henriade, e fe vane Zaire, Alzire, Meropio Semiramidi; e così sperava l’ammirazione degli studiosi o la gratitudine dei regnanti per il suo Secolo di Luigi XIV, per la sua Storia di Carlo XII per le varie trattazioni di carattere speculativo. Ma la sua vera, grande vocazione non era la poesia lirica o epica, né l’arte drammatica, né la filosofia o l’assidua ricerca storica, per quanto indiscutibili risultassero i suoi meriti in qualsiasi prova si fosse cimentato. Vogliamo dire che Voltaire rimaneva malgrado tutto un grandissimo dilettante, cioè seguiva orme già da altri tracciate, nei suoi poemi quanto nelle sue opere di teatro, senza possedere d’altra parte un senso filosofico profondamente originale e novatore. Racine da un lato, Locke dall’altro, gli suggerivano i temi, i modi, le idee che egli poi, con quella sua prodigiosa facilità di scrittura, sapeva ripresentare in vesti tanto seducenti e smaglianti. Ma il tempo, come sempre accade, lascia in piedi il tronco e fa cadere foglie, fiori e frutti che da esso presero vita; e se pure si rinnovano, è per cadere di nuovo, per quanto siano attraenti e abbiano rallegrato e nutrito tutta una stagione. Di quel grande lavorio di Voltaire, svolto in buona parte negli anni della giovinezza e della maturità, ben poco infatti si ricorda dagli stessi specialisti; mentre pochissimo ricordano gli uomini di media cultura: forse soltanto il Secolo di Luigi XIV e il Dizionario filosofico; ma perché queste opere (scritte d’altronde tra i cinquanta e i sessant’anni) più si avvicinano a quella che in lui era la grande, la vera vocazione.

    La vocazione della prosa didascalico-narrativa, del racconto simbolico, del ritratto e della divulgazione polemica delle idee: qui Voltaire porta al massimo grado di efficacia un tipo di scrittura che già aveva trovato i suoi maestri in Montaigne e in La Bruyère, ma aggiungendovi di suo un calore di fantasia, una felicità inventiva che ne assicurano l’immediata presa sui lettori. Ricrea, insomma, il romanzo moralistico, o se vogliamo la favola intellettualistica, seguendo l’impulso che più si confaceva al suo spirito. Qui si affondano le radici dell’albero che doveva rigogliosamente, a sua volta, rivestirsi di foglie e di frutti: quegli stessi che ancora oggi si rinnovano per opera dei sempre numerosi imitatori o seguaci di quel tipo di letteratura. «Scrivere alla Voltaire» è già di per se stessa una definizione corrente; e che non sia ancora caduta in disuso, questo significa che in quelle prove Voltaire non fu un dilettante. Così i suoi romanzi e i suoi racconti, che di quella vocazione rappresentano la riuscita più alta, sono entrati per sempre nella storia letteraria non soltanto di Francia, ma del mondo intero.

    Nessun servizio migliore Voltaire poteva rendere ai propri intendimenti, se non scegliendo quel modo di diffonderne la conoscenza. Le idee, trovando la loro forma più adatta, apparvero perfino inedite; e ancora oggi passano popolarmente per idee di Voltaire, anche se sono le idee degli empiristi inglesi, dei deisti, degli illuministi: di Locke soprattutto, ma anche di Newton, di Shaftesbury, di Bayle, e in altro senso di Swift; e se pure Voltaire, onestamente, ne ammise sempre la derivazione, il grande divulgatore rimane lui, senza alcun dubbio. E questo perché egli possedeva una dote che gli altri, salvo lo Swift, ignoravano: la comunicativa; e aveva altresì una passione che, negli altri, o era di sicuro assente o veniva con scrupolo repressa: il piacere di battersi contro gli avversari, e quindi la sempre attuale e sempre operante forza polemica. Era, sì, o si proclamava, deista, agnostico, amico della ragione, della libertà e del progresso; respingeva sì, le idee innate, la rivelazione, l’intervento risolutore della Provvidenza, e ostilissimo si dichiarava al pietismo, al dispotismo, ai privilegi di casta; ma se di propagare questi princìpi gli importava realmente e sinceramente, ancor più gli importava di servirsene per colpire in modo diretto i suoi avversari. Artista, dunque, più che filosofo, attento agli effetti più che alle cause, al concreto più che alle teorie e alle astrazioni. I suoi maggiori bersagli erano Pascal (in primo luogo Pascal: un gigante, come egli stesso riconosceva, contro il quale era grande onore combattere), e Bossuet, e Leibniz, e anche Descartes e Rousseau: cioè anche coloro che più erano vicini al suo modo di pensare, ma che egli trovava o troppo ambigui e perplessi, o troppo invischiati in un umanitarismo risol. ventesi nel culto del proprio io. E le sue vittime erano i parassiti e i fanatici di tutte le religioni, i regnanti illiberali di tutti i paesi, i funzionari e i letterati conformisti di tutti i tempi: persone ben precisate, che gli stavano fisse nella mente, e che egli appena si curava di travestire o di coprire di un leggero velo, mentre li esponeva al disprezzo o al ridicolo della gente.

    Per divulgare le verità nelle quali credeva, e per meglio colpire i suoi nemici, si liberò dagli impacci di una corte che lo ammirava nella speranza di blandirlo, ma che non mancava di farlo punire ogni qual volta la sua impennata diventava troppo ardita o il suo sorriso appariva troppo insolente. Abbandonò la Francia, trascorse un lungo periodo presso un sovrano «illuminato», Federico II di Prussia; ma ancora non gli parve di essere abbastanza libero, e volle ritirarsi presso Ginevra, a Ferney, dove rimase per quasi tutto il rimanente della sua vita, tornando a Parigi solo per gustarvi, ottantaquattrenne, i tardivi piaceri dell’apoteosi; e, qualche mese dopo, morirvi. Così, in quel lungo periodo della sua indipendenza, potè dare sfogo in pieno al proprio temperamento; e già prossimo alla vecchiaia (Candido fu pubblicato quando egli aveva già sessantacinque anni), dedicò le forze migliori, sempre rigogliose, proprio a quella «prosa narrativa» che in gioventù aveva quasi disdegnata. Riverito, ammirato dai più alti ingegni del tempo, temuto dai potenti, odiato, se pur da lontano, dagli avversari che lo coprivano di calunnie, insulti e delazioni (e anche questa era gloria), egli divenne il vero sovrano dello spirito, il «santone», il «patriarca», riuscendo, senza esserselo proposto, a realizzare quell’unità culturale europea che rimane oggi un desiderio, se non più un sogno, di tutti gli spiriti liberi. E ciò gli fu consentito anche dalla grande rinuncia a conseguire una diversa gloria letteraria attraverso le sue opere di poesia e di teatro; una gloria che lo avrebbe costretto a troppi compromessi, non solo, ma che egli stesso, nell’intimo del suo animo, doveva forse sentir condannata alla caducità. Fu grande perché seppe concedersi interamente, con entusiasmo sempre rinnovantesi, a quella che abbiamo chiamato la sua vera vocazione.

    Scrisse così i capolavori che rimarranno. Quei romanzi, quei racconti dove l’idea perseguita diventa sensibile, diremmo quasi visibile, attraverso una folla di personaggi, tutti dipinti o disegnati con mano fermissima: perché erano veri, perché, come noi oggi li vediamo durante la lettura delle sue pagine, così egli li vedeva davanti a sé, in carne e ossa: i papi, i vescovi, i monsignori, i gesuiti, i monaci, gli inquisitori, i giansenisti, i protestanti, i re, i principi, i ministri, le favorite, le cortigiane, gli storici, i filosofi, i fisici, i poeti, i soldati. Per necessità artistica, e anche per la prudenza che i tempi rendevano necessaria perfino a chi poteva ritenersi al riparo delle vendette, Voltaire ambienta i suoi racconti in paesi quasi sempre lontani; specie in quell’Oriente rimasto favoloso nell’immaginazione popolare, o in quell’America ancora «selvaggia», resa mitica e paradisiaca da Rousseau e dai suoi seguaci. Ma non per valersi di quegli ambienti disinteressandosi della loro realtà; anzi, approfittandone per due scopi che gli stanno a cuore: prima per combattere il fanatismo e la superstizione ovunque si trovino (un Gran Lama, un bonzo, un bey o uno sceicco stanno per lui sullo stesso piano dei preti e dei signorotti europei); e poi per allargare il concetto di storia universale; ché più volte egli si indigna della boria occidentale, quella stessa che fa di tre o quattro nazioni europee il centro del mondo e della civiltà; e per contrasto parla di popoli antichissimi presso i quali la cultura si sviluppò assai prima che non da noi, facendone retrocedere gli inizi, per una gustosa deformazione burlesca, di centinaia di migliaia di anni. Ma, si badi bene, di cultura parla, e non già di supremazia dell’uomo primitivo su quello civilizzato: Rousseau, lo abbiamo visto, non gode le sue simpatie (tanto che, una volta, lo chiama «assurdo ciarlatano»). Voltaire crede nel progresso, gli piace la vita brillante di società, disdegna gli anacoreti e i naturisti, e commisera gli uomini e le donne che rinunciano ai piaceri e alle opere della vita per rinchiudersi nei conventi e far voto di castità (un voto che produce effetti deleteri, dice sovente, come la mancanza di mano d’opera per il progresso e la mancanza di soldati per la difesa del proprio paese). La solitudine, la rinuncia non sono affar suo. Non risparmia le sue frecciate contro certi aspetti poco edificanti della vita cittadina, ma non manca di osservare: «Per conto mio, quando contemplo Parigi o Londra, non trovo nessun motivo di mettermi in quello stato di disperazione di cui parla Pascal; vedo una città che non somiglia per nulla a un’isola deserta, ma popolosa, opulenta, e dove gli uomini sono felici per quel tanto che la natura umana lo comporta». I suoi «candidi», i suoi «ingenui», li espone a tutte le ingiustizie del mondo, ai pericoli derivanti dall’onestà e dall’innocenza; ma non perché tornino a rifugiarsi nello stato larvale dei loro sentimenti elementari, bensì perché da quelle esperienze traggano un arricchimento dell’intelletto, una saggezza più profonda e più avvertita, e infine perché diventino a loro volta portatori di «lumi» tra le genti ottenebrate dalle ancestrali sudditanze ai misteri soprannaturali. Egli non ammette miracoli sulla terra; ma ammette, ed esalta, i prodigi che nel consorzio degli umani può compiere l’intelligenza. Se, però, fa l’elogio del buon senso, della ragione, rifugge tuttavia dall’ateismo. Il suo Dio è inconoscibile, ma rimane l’unico ispiratore del bene, il vero moderatore dell’universo: un Dio che ha donato agli uomini l’intelletto, perché seguano le leggi alle quali Egli stesso, dopo averle dettate, non potrebbe più sottrarsi.

    Tutto ciò non sarebbe pertanto bastato ad assicurare a Voltaire un così vasto consenso di lettori. Siamo sempre nel campo delle ipotesi, dei «programmi di vita». Non sarebbe bastato, se Voltaire non fosse stato un grande scrittore. Un prosatore perfetto, un classico. E proprio qui, nelle prose narrative assai più che nei lunghi poemi epici, nelle odi, nelle tragedie, anche un poeta.

    I suoi non sono romanzi nel senso che oggi noi intendiamo (o meglio nel senso che generalmente si intendeva nel secolo scorso). Non potrebbero neppure esserlo. Il Settecento era dominato dalla cultura e dall’intelligenza. In un’Europa che ammirava sopra ogni altra cosa lo spirito, che ricercava ansiosamente il vero al di fuori dei dogmi e delle armonie prestabilite, e che pertanto doveva vincere e abbattere tanti nemici, non c’era tempo per la narrazione oggettiva dei fatti. Era un tempo di favole allusive e di saggi letterari, di relazioni, comunicazioni, dispute, epistolari (già concepiti, anche questi, in vista di una postuma pubblicazione). Ancora lontani un Balzac, un Flaubert, uno Stendhal: osservatori e relatori scrupolosi di una realtà quotidiana che nessuno metteva più in dubbio, fioriti in un regime di relativa ma sufficiente libertà, e quindi dispensati dal ricorrere tanto a certe astuzie o a certi travestimenti, quanto a temerarie prese di posizione ideologiche. Voltaire, invece, sta in pieno nella battaglia, e perciò commenta, giudica, interviene ad ogni momento, impartisce lezioni, e si serve dell’ironia più sottile e più tagliente: tutto l’opposto, cioè, di quel che faranno gli altri esponendo, dimostrando per esemplificazioni minuziose la loro tesi ben nascosta dietro il simulacro dell’oggettività pura, e vietandosi di mai apparire di persona. In altre parole, Voltaire cerca la verità, la sua verità, quella che lui personalmente ritiene inconfutabile, mentre gli altri cercheranno la realtà, quella che sta davanti agli occhi di tutti, e che per ciò stesso deve apparire inconfutabile a tutti.

    Ma Voltaire poco si cura della realtà, come poco se n’erano curati i suoi predecessori. Essa in arte non gli dice nulla. Per lui è più agevole trovare il vero in una creazione del tutto arbitraria, in una fantasia del tutto sfrenata, che non nell’osservazione e nell’analisi dei fatti: e sa, d’altra parte, che proprio i fatti più autentici possono apparire i più inverosimili. (Il vecchio Boileau dell’Arte poetica diceva: «Jamais au spectateur n’offrez rien d’incroyable, - Le vrai peut quelquefois n’ètre pas vraisemblable»; e Voltaire ha tutta l’aria di condividere questa opinione.) Egli è ancora legato alla tradizione del «Gran secolo», di quel Seicento francese in cui sentimenti e passioni venivano incarnati da «eroi» e

    da «eroine», ed espressi secondo un linguaggio che artisticamente li staccava dalla loro consueta prosasticità. Voltaire, nemico dichiarato di ogni mitologia, sente tuttavia il bisogno di idealizzare, di rendere mitiche perfino le sue vittime, trasportandole in un clima leggero, frizzante, stimolante, dove ogni tratto realistico finisce con l’assumere una parvenza simbolica. Il suo maestro è Racine (non già Comeille, che anzi detesta per il suo stile disunito e per il suo ossequio alle idee dominanti presso le autorità costituite). Tutto prende luce dalla sua intelligenza, egli è sempre presente, tutto fa risplendere, palpitare, in una prosa di ritmo costante, nella quale non trovi una parola di più, un aggettivo sprecato, un giro sintattico involuto o troppo greve. Anche i caratteri, per quanto lo consente l’intenzione didascalica, sono tracciati con impareggiabile precisione; e al di là del loro assunto simbolico, rimangono persone vive: specie le figure di donne, innamorate o intriganti, capricciose o corrotte, e anche angeliche (ché la bontà, lo spirito di sacrificio non sono mai assenti dalle opere di Voltaire; checché ne dicano i suoi avversari, egli non è un acido moralista o un cinico immoralista; e il suo cuore è sempre pronto ad ascoltare ogni battito più forte, più ansioso dei cuori altrui, in una delicatezza talvolta maliziosa ma sempre autentica). Queste donne, Voltaire le presenta galantemente, sorridendo, senza mai infierire, neppure quando la pittura sembra troppo acerba o violenta. Si badi, del resto, come le parole «forti», di cui sovente si compiace, si inseriscano naturalmente, diremmo quasi con grazia, nel discorso, perdendovi il loro significato letterale osceno; sono pizzichi di pepe sulla già saporita minestra che egli ci ammannisce, non già veleni; e soltanto i bigotti potrebbero scandalizzarsene.

    Abbiamo accennato alla poesia di Voltaire. Essa è presente in certe improvvise fosforescenze, di casta bellezza, che illuminano a tratti la sua pagina; e se presto si spengono, lo si deve all’intervento del pudore: un pudore di artista spregiudicato, che non vuol mai scoprirsi, né passare la misura del patetico. Certi viaggi, certi tratti favolosi (ad esempio, i liocorni bianchi, l’araba fenice, i tornei, le tempeste, le apparizioni improvvise di paesi e città), certi subitanei tremori e spaventi amorosi, sono vera poesia; e ancor più, forse, lo è la simpatia umana per la brava gente che soffre e viene ingiustamente condannata (come nelle scene, così gentilmente ironiche e affettuose, del giansenista rinchiuso in carcere con l’urone): una simpatia anch’essa velata e repressa, tutta tradotta in termini poetici.

    Non si vuol fare di Voltaire un santo, e neppure un modello di civiche virtù, per quanto occorra una buona dose di irragionevolezza, ormai, per vedere in lui l’immagine stessa del demonio. Allo stesso modo, non si vuol fare credito interamente ai suoi ideali estetici; certi giudizi, come quello ben noto su Shakespeare, ci indispettiscono ancora. Ma chi non ha commesso tali errori? La storia letteraria di tutti i tempi ne è piena, e non bisognerà mai chiedere a un grande scrittore di giudicare imparzialmente, e con ben fondate ragioni critiche, un altro scrittore, specie se di tendenza opposta alla sua. L importante, per noi, è che il giudicante rimanga scrittore anche al di là del proprio giudizio errato o iniquo: e questo è il caso, appunto, del «patriarca» di Ferney. Per qualche monsignore troppo schernito, qualche gesuita o principotto messo in berlina, o qualche poeta bistrattato, quante pagine scintillanti, quanta prosa perfetta!

    Rimarrà, dunque, di Voltaire, il ricercatore strenuo della verità, l’assertore delle libere coscienze, il fustigatore dei fanatici e dei prepotenti. Quanto alle sue teorie, pur preferendo esaminarle nei suoi ispiratori, e pur ammettendone la discutibilità, occorre persuadersi che il mondo ha avuto bisogno anche di quelle, per liberarsi da tanti pregiudizi e per aprirsi a un più umano criterio. E se questa affermazione potrebbe far sorridere di compiacimento Pangloss, l’adoratore ostinato del principio ottimistico secondo il quale dal male proviene sempre un bene, rimarrebbe tuttavia da dimostrare che Voltaire incarnasse in sé lo spirito maligno... Vorremmo ancora aggiungere, poiché i pregiudizi e i fanatismi sono tornati tante altre volte a tormentare, ad asfissiare il mondo, che ogni secolo avrebbe bisogno di un Voltaire; mentre oggi, nel tempo in cui viviamo, molti gridano, molti si esaltano contro le ingiustizie, e tuonano, e invocano orrende ritorsioni, ma per quel loro stesso agitarsi incomposto risultano inefficaci o rovinosi; laddove un Voltaire, uno che sappia persuadere con la sottile forza dell’arte e dell’ironia, invano si cercherebbe. Si è così tentati di dedurre che il tempo dell’intelligenza non è ancora tornato, e che questo è invece il secolo delle passioni istintive incontrollate, o della fiacchezza spirituale, o della più desolante abulia.

    Rimane, infine, lo scrittore: con la sua grazia, il suo sapore, la sua leggerezza ed eleganza; il prosatore impeccabile ma non accademico, sciolto, fluente e tuttavia alieno dal deforme e dall’esagitato. Rimangono Candido e la sua sventurata Cunegonda, l’ingenuo e la sua dolcissima Saint-Yves, Amabed e Adatea, Jenni e Primerose; e tutta una folla di personaggi maggiori e minori, il frate Giroflé, Paquette e Martino, Pococurante (nel quale Voltaire si compiaceva talvolta di aver tracciato il proprio ritratto), e il signor Andrea, e la tenera principessa di Babilonia con la non meno tenera principessa Amaside, e il dottor Goudman con lo scienziato Sidrac; e tanti, tanti altri, a decine, a centinaia. Rimangono: ed è risultato stupefacente, per un autore che non ha cercato il reale, e tuttavia ha popolato la nostra memoria di figure simboliche dotate di tanta capacità di durata. Perché queste stesse figure, attraverso la magia dell’arte, sono diventate portatrici di un’invulnerabile verità umana.

    G.B. ANGIOLETTI

    Nota biobibliografica

    LA VITA

    François-Marie Arouet, che assumerà lo pseudonimo di Voltaire ¹ dal 1718, nasce a Parigi il 21 novembre 1694, ultimo figlio dell’agiato notaio François e di Marguerite D’Aumard. A dieci anni, rimasto orfano di madre, entra nel collegio gesuitico Louis-le-Grand, frequentato dai rampolli dell’alta borghesia parigina. Nel 1710 François-Marie termina gli studi al Louis-le-Grand e, seguendo il volere del padre, che vuole avviarlo alla carriera forense, si iscrive alla facoltà di giurisprudenza.

    Introdotto dal suo padrino, l’abate di Châteauneuf, nei circoli libertini, grazie al suo precocissimo ingegno e al suo carattere indipendente il giovane Arouet acquista presto notorietà mondana. Preoccupato, suo padre lo manda nel 1713 a L’Aia come segretario dell’ambasciatore francese; ma dopo lo scandalo suscitato dalla relazione dell’indisciplinato figlio con la giovane ugonotta Olympe Du Noyer, gli procura un impiego presso Alain, procuratore allo Châtelet. François-Marie preferisce però alla procedura i piaceri della poesia e dei salotti. Nel 1714 concorre senza successo al premio di poesia dell’Académie Français. Certi versi satirici contro il Reggente, Filippo d’Orléans, gli valgono prima l’esilio a Sully-sur-Loire nel 1716, poi undici mesi di reclusione alla Bastiglia e un nuovo esilio a Châtenay.

    Ma la tragedia Oedipe, rappresentata con grande successo nel 1718 e scritta l’anno precedente in prigione, a ventiquattro anni lo rende famoso sotto il nome di Voltaire e lo risarcisce delle sofferenze patite in carcere. Con Marianne (1725) Voltaire consolida la sua fama letteraria e la sua situazione patrimoniale, già cospicua per l’eredità paterna; il suo impertinente linguaggio gli causa però nel 1726 una lite alla Comédie con il cavaliere di Rohan, che lo fa bastonare dai suoi servitori; invano il borghese Voltaire cerca soddisfazione in un impossibile duello contro il nobile avversario: finisce nuovamente alla Bastiglia.

    Liberato a condizione di lasciare Parigi, Voltaire si reca in Inghilterra, dove resta tre anni, durante i quali frequenta le maggiori personalità della politica e della cultura, si dedica all’edizione definitiva della Henrìade (1718), poema che celebra l’opera illuminata di Enrico IV, e prepara l’Histoire de Charles XII. Gli anni trascorsi in Inghilterra, dove il costituzionalismo parlamentare è ormai consolidato, esercitano su di lui un’influenza decisiva e orientano la sua scrittura verso l’impegno civile: si inizia e si appassiona alla vita politica e al pensiero inglesi, che poi divulgherà in Francia con le Lettres philosophiques ou anglaises, e prende coscienza del suo ruolo di scrittore libero e nemico dei pregiudizi sociali.

    Le Lettres anglaises, pubblicate in Francia nel 1734, un anno dopo l’edizione inglese, sono condannate dal parlamento parigino e bruciate pubblicamente (destino che sarà comune a gran parte delle opere successive), e Voltaire, che era tornato in Francia nel 1729 e vi aveva rinnovato la sua fama con la rappresentazione di alcune opere teatrali, tra cui Zaïre (1732), deve fuggire da Parigi.

    Dapprima si rifugia in Lorena, allora territorio tedesco, poi a Cirey, in Champagne, presso la marchesa du Châtelet, con cui già dal 1733 ha intrecciato una relazione profonda e che durerà fino alla morte di lei. A Cirey, revocata la sua condanna (1735), trascorre con periodi alterni una decina di anni (1734-1744) di fervidissimo lavoro: compone poemi (Mondain, 1736; Discours en vers sur l’homme, 1738), tragedie (Alzire ou les Américains, 1736; Mahomet, 1741; Mérope, 1743), scritti storici e filosofici (Traité de métaphysique, pubblicato postumo), si interessa alle scienze naturali (Eléments de la philosophie de Newton, 1737), compie viaggi in Belgio, in Olanda, in Prussia, talvolta per sfuggire alle minacce delle autorità; ma è inquieto, tormentato: il suo carattere, il suo intelletto ambizioso, avvertono la mancanza della fama, della mondanità, di amicizie regali che il lungo isolamento ha loro negato.

    Gli anni dal 1743 al 1750 costituiscono il periodo brillante della vita di Voltaire, ripiegamento ideologico dopo la battaglia delle Lettres philosophiques. Un vecchio amico di collegio, d’Argenson, allora ministro degli Affari Esteri, dopo avergli affidato alcune missioni diplomatiche in Prussia e in Olanda, chiama Voltaire a Parigi. Lo scrittore è finalmente ammesso alla corte di Versailles, dominata da Madame Pompadour; diventa storiografo del re e scrive opere di carattere cortigiano (La Princesse de Navarre, Le Poème de Fontenoy, Histoire de la guerre de 1741), nel 1746, dopo vari rifiuti, è eletto all’Académie Française. Scrive i romanzi filosofici Babouc (1746), Memnon e Zadig (1747).

    Le fortune cortigiane di Voltaire non sono però destinate a durare: tornato nuovamente in disgrazia a causa del pamphlet La voix du sage et du peuple, di chiara ispirazione democratica, dopo la morte (1749) della marchesa du Châtelet abbandona definitivamente Cirey e accetta l’invito del re di Prussia, Federico n, con cui intratteneva già dal 1736 un’amichevole corrispondenza, e alla cui corte liberale spera di dar corso alla sua polemica storica, politica e religiosa; a Berlino Voltaire passa tre anni (1750-1753) durante i quali scrive Micromégas, la Défense de M. Bolingbroke, e cura la prima edizione del Siècle de Louis XIV. Ma a poco a poco l’idilliaco sodalizio con il «re filosofo» sfuma, i loro rapporti si inaspriscono, al punto che Voltaire, dopo l’onta di una perquisizione e del sequestro delle proprie carte, decide di lasciare la Prussia; lo segue la nipote, Marie-Louise Mignet, vedova di Nicolas Denis, che lo aveva raggiunto da Parigi e che dal 1745 è in intimi rapporti con lo zio.

    Dopo varie disavventure, e un lungo soggiorno presso l’abbazia di Sénones, ospite del benedettino Calmet, nella cui ricca biblioteca raccoglie materiale per il suo lavoro storico, nel 1754 Voltaire acquista presso Ginevra la tenuta che chiamerà poi «Les Délices», dove si stabilisce. Nel 1756 pubblica l’Essai sur les moeurs et l’esprit des nations. Infine, nel 1758, si ritira nel castello di Ferney, in territorio francese ma non lontano dal confine svizzero.

    Gli anni di Ferney sono i più importanti per l’opera storica e politica di Voltaire, che ormai capeggia il «partito filosofico». Collabora a l’Encyclopédie, rafforza la collaborazione con d’Alembert, ma rompe con Rousseau, con cui inizia una lunga polemica a colpi di penna. Nel 1759 esce Candide, il capolavoro tra i suoi racconti filosofici. Al 1764 risale la prima edizione del Dictionnaire philosophique, subito condannato dal parlamento di Parigi, al 1767 il racconto filosofico Lingénu, al 1772 le Questions sur l’Encyclopédie.

    In questo angolo della provincia francese, dopo una serie di vicissitudini in cui i successi mondani si erano mescolati agli studi, l’impegno civile alle amicizie regali, i favori delle corti alle fughe, lo scrittore realizza finalmente il suo desiderio di indipendenza assoluta e mette a frutto quello spirito pratico che durante la vita trascorsa gli aveva permesso di accumulare una grande fortuna: insedia manifatture di seta, fabbriche di orologi, fa costruire fattorie e case per gli operai (in gran parte perseguitati religiosi), un teatro; si erge a difensore di tutte le vittime dell’intolleranza e dell’ingiustizia, prendendo parte ad alcuni clamorosi processi (da questi trae spunto per scrivere il Traité sur la tolérance), riceve principi e uomini di cultura di tutta Europa, ed è ormai la figura eponima dell’illuminismo.

    Nella sua corte il «patriarca di Ferney» passa così i suoi ultimi anni, libero e tranquillo. A Ginevra, nel 1775, sotto la guida dell’autore, inizia la pubblicazione delle sue Oeuvres complètes. A ottantaquattro anni, dopo ventotto di assenza ininterrotta, Voltaire torna a Parigi, invitato alla trionfale rappresentazione della sua ultima tragedia Irène alla Comédie Française: tributo, più che alla specifica opera, all’uomo che ha incarnato tutta una generazione intellettuale; vi muore un mese dopo, il 30 maggio 1778. L’arcivescovo di Parigi non concede la sepoltura in terra consacrata; le sue spoglie sono trasportate in Champagne, e là seppellite, quasi clandestinamente, nell’abbazia di Scellières. Nel 1791, sotto la Rivoluzione, per voto dell’Assemblea nazionale le sue ceneri saranno solennemente tumulate nel Panthéon, accanto a quelle di Rousseau.

    LE OPERE

    Per orientarsi all’interno della oceanica bibliografia degli scritti di e su Voltaire è necessario ricorrere alla consultazione dei repertori bibliografici, indispensabili strumenti di ricerca. Si segnalano:

    G. Bengesco, Voltaire. Bibliographie de ses œuvres, 4 voll., Paris 1882-1890 (rist. an. Nendeln 1977-1979), da integrare con J. Malcolm, Table de la bibliographie de Voltaire par Bengesco, Genève 1953 e T. Besterman, «Some eighteenth-century Voltaire éditions unknown to Bengesco», in Studies on Voltaire and the eighteenth Century, 64, 1968; M.M. Barr, A Century of Voltaire Study. A Bibliography on Voltaire (1826-1926), New York 1929; M.M. Barr e F.A. Speer, Quarante années d’études voltairiennes. Bibliographie analytique des livres et des articles sur Voltaire: 1926-1965, Paris 1968, cui gli autori hanno aggiunto Études voltairiennes récentes après 1925, Paris 1978.

    Le principali edizioni delle opere complete di Voltaire sono:

    Collection complète des Oeuvres de M. de Voltaire, pubblicata presso Cramer e Bardin, Genève 1756;

    Oeuvres complètes, a cura di Condorcet e Decroix, 70 voll., Kehl 1784-1789;

    Oeuvres complètes, a cura di Beuchot, voll. 56, Paris 1817-1822;

    Oeuvres complètes, a cura di Lahure, voll. 35, Paris 1859-1866 (che riproduce il testo dell’edizione Kehl);

    Oeuvres complètes, a cura di L. Moland, voll. 52, Paris 1877-1885 (rist. an. Nendeln 1979);

    Oeuvres complètes, a cura di T. Besterman, Genève a partire dal 1968, prevista in 136 voll.

    T. Besterman ha curato anche, tra il 1953 e il 1965, l’edizione completa della corrispondenza in 107 voll., di cui esiste una nuova edizione più facilmente accessibile pubblicata nella Bibliothèque de la Pléiade dell’editore Gallimard, in 14 voll., Paris 1977-1993.

    Tra le più recenti traduzioni italiane di singole opere di Voltaire segnaliamo:

    Il secolo di Luigi XIV, a cura di U. Morra, Torino 1951 (ristampa 1994);

    Scritti filosofici, a cura di P. Serini, 2 voll., Bari 1962 (ristampa 1972);

    Carlo XII re di Svezia, Milano 1963;

    Trattato sulla tolleranza, a cura di P. Togliatti, Roma 1966 (rist. 1982);

    Scritti politici, a cura di R. Fubini, Torino 1978;

    Memorie, a cura di A. Zaccaria, Palermo 1980 (col titolo Vita di Federico II, con un saggio di A. Savinio, Pordenone 1988);

    Saggio sui costumi, 4 voll., Milano 1981;

    La Pucelle d’Orléans, trad. di V. Monti, a cura di G. Barbarisi e M. Mari, Milano 1982;

    Cena del conte di Boulainvilliers e altri dialoghi filosofici, a cura di R. Vitiello, Roma 1984 (ristampa 1994);

    L’odalisca, (attribuito a Voltaire), a cura di R. Reim, Roma 1985;

    Lettere filosofiche, a cura di G. Pavanello, Milano 1987;

    Storia dell’affermazione del cristianesimo, a cura di F. Capriglione, Foggia 1987;

    Dialoghi di Evemero, a cura di G. Pasquinelli, Milano 1989;

    L’America, a cura di V. Gianolio, Palermo 1991;

    Lettere d’amore alla nipote, a cura di S. Morganti, Palermo 1993;

    Vita di Molière, Milano 1993.

    Edizioni e traduzioni dei romanzi e racconti filosofici

    Recueil des romans de M. de Voltaire, contenant Babouc, Memnon, Micromégas, le Songe de Platon, les Voyages de Scarmentado, Zadig et Candide, 2 voll., s.l. 1764; edizione ristampata altre due volte vivente l’autore: Neuchâtel 1771 e Londres 1775;

    Romans et contes de Voltaire, a cura di J. Bainville, Paris 1925-1926, 4 voll.;

    Romans et contes, a cura di P. van Tieghem, Paris 1930;

    Romans et contes, a cura di R. Groos, Paris 1954;

    Romans et contes, a cura di J. Varloot, Paris 1959, 2 voll.;

    Romans et contes, «texte établi sur l’édition 1775», a cura di H. Bénac, Paris 1960; Romans et contes, a cura di R. Pomeau, Paris 1966;

    Romans et contes, a cura di R. Pegasse, Paris, éd. de l’Imprimerie Nationale, 1978, 2 voll.

    Romans et contes, a cura di Deloffre e Van der Heuvel, postfaz. di R. Barthes, Paris 1992;

    Tra le innumerevoli edizioni francesi di singoli romanzi segnaliamo:

    Candide, a cura di A. Morize, Paris 1913 (rist. 1957); a cura di G.R Haven, New York 1934; a cura di R. Pomeau, Paris 1959;

    La princesse de Babylóne, et autre contes, a cura di P. Grimal, Paris 1942;

    Micromégas, Histoire des voyages de Scarmentado, Le blanc et le noir, a cura di R. Vercel, Paris 1945;

    Le taureau blanc, a cura di R. Pomeau, Lyon 1956;

    L’Ingénu, a cura di W.R. Jones, Genève 1957;

    Micromégas, a cura di G. Picot, Paris 1970;

    Zadig, a cura di G. Ascoli, Paris 1929, 2 voll. (rist. 1967); a cura di V.L. Saulnier, Paris 1946 (rist. Genève 1965); a cura di P. Grimal, Paris 1950; a cura di C. e P. Blum, Paris 1983.

    Tra le numerose traduzioni italiane di singoli romanzi segnaliamo:

    Zadig, a cura di P. Bianconi, Milano 1951; a cura di T. Richelmy, Torino 1974; a cura di R. Frattarolo, Firenze 1985;

    Candido, a cura di P. Bianconi, Milano 1954 (ristampa 1989); a cura di S. Di Gioacchino Corcos, Milano 1969; a cura di R. Frattarolo, Firenze 1986; a cura di G. Fattorini, Milano 1986; a cura di S. Gargantini, Milano 1991; a cura di M. Cavalli, Milano 1991;

    La principessa di Babilonia, a cura di P. Bianconi, Milano 1956;

    L’Ingenuo e Così Santa, a cura di P. Bianconi, Milano 1956;

    Storia di Jenni e II mondo come va, a cura di P. Bianconi, Milano 1963;

    Il toro bianco - Le orecchie del conte di Chesterfield - Micromégas, a cura di P. Bianconi, Milano 1963;

    Il bianco e il nero, e altri racconti, a cura di P. Bianconi, Milano 1965;

    Candido - Zadig - Micromega - L’Ingenuo, a cura di M. Moneti, Milano 1973; Micromega, con intr. di J.L. Borges, Parma 1979;

    L’Ingenuo, a cura di G. Gimbelli, Ferrara 1983;

    Candido, e altri racconti, Milano 1989;

    Candido e L’Ingenuo, Milano 1993;

    Oltre alle traduzioni di singoli romanzi e racconti, segnaliamo la traduzione integrale dell’opera narrativa di Voltaire a cura di Riccardo Bacchelli, Romanzi e racconti, Milano, Mondadori, 1990 e quella di Paola Angioletti, per l’edizione dei Romanzi e racconti filosofici, curata da G.B. Angioletti, Roma, Casini, 1955 (che qui si ristampa).

    Studi critici sui romanzi e racconti

    W.R. PRICE, The Symbolism of Voltaire’s Novels, New York 1911; I.O. WADE, Voltaire’s Micromégas. A Study in the Fusion of Science, Myth and Art, Princeton 1950; R.C. FLOWERS, Voltaire’s Stylistic Transformation of Rabelaisian Satirical Devices, Washington 1951; R. FALCKE, «Eldorado: le meilleur des mondes possibles», in Studies on Voltaire and the Eighteenth Century, 2, 1956; A. MAUROIS, «Voltaire. Romans et contes», in Lecture, mon doux plaisir, Paris 1957; G. CHOPTRAYANOU, Essai sur «Candide», Paris 1957; W.F. BOTTIGLIA, Voltaire’s Candide: Analysis of a Classic, numero monografico di Studies on Voltaire and the eighteenth Century, 7, 1959; I.O. WADE, Voltaire and Candide, Princeton 1959; W.H. BARBER, Voltaire’s Candide, London 1960; P. HAFFTER, «L’usage satirique des causales dans les contes de Voltaire», in Studies on Voltaire and the Eighteenth Century, 53, 1963; E. AUERBACH, «La cena interrotta», in Mimesis, vol. II, Torino 1964; L. SPITZER, «L’explication de texte applicata a Voltaire», in Critica stilistica e semantica storica, Bari 1966; C. MIRÒ, Alzire et Candide, ou l’image du Pérou chez Voltaire, Paris 1967; J. VAN DER HEUVEL, Voltaire dans ses contes, Paris 1967; J. SAREIL, Essai sur Candide, Paris 1967; M. GIACOMELLI DESLEX, L’aggettivazione nei «Contes» di Voltaire da «Zadig» a «Candide». Analisi, concordanze, indici, Torino 1968; D. RIGO BIENAIMÉ, Gli ultimi racconti di Voltaire, Pisa 1974; J. HELLERGOURC’H, «Mélinade ou la duchesse Du Maine: deux contes de la jeunesse de Voltaire», in Revue d’histoire littéraire de la France, 78, 1978; ID., «Genèse d’un conte de Voltaire» e «Encore la duchesse Du Maine: note sur les rubans jaunes de Zadig», in Studies on Voltaire and the Eighteenth Century, 176, 1979; S.S.B. TAYLOR, «Voltaire’s Humour», in Studies on Voltaire and the Eighteenth Century, 179, 1979; J. SCHERER, «L’univers en raccourci: quelques ambitions du roman voltairien», in Ibidem; G. MAIELLO, Voltaire, narratore fantastico, Napoli 1985; R.J. HOWELLS, «The Burlesque as a Philosophical Principie in Voltaire’s contes», in Voltaire and his World. Studies presented to W.H. Barber, Oxford 1985; G. GULLACE, Il «Candide» nel pensiero di Voltaire, Napoli 1985; J. BIANCO, «Zadig et l’origine du conte philosophique. Aux antipodes de l’unité», in Poétique, 26, 1985; J. SAREIL, «La discontinuité dans Candide», in Le Siècle de Voltaire, a cura di C. Mervand e S. Menant, Oxford 1987; J. VAN DER HEUVEL, «Le conte voltairien ou la confidence déguisée», in AA.W., Voltaire ou la liberté de l’esprit, Paris 1989; J. STAROBINSKI, «Sullo stile filosofico di Candide» e «L’Ingenuo sulla spiaggia», in Rimedio nel male, Torino 1990; H. MASON, «Candide», Optimism Demolished, New York 1993; R. PEARSON, The fables of reason. A Study of Voltaire’s «contes philosophiques», Oxford 1993.

    Edizioni e traduzioni del Dictionnaire philosophique

    Il Dizionario filosofico fu pubblicato per la prima volta anonimo a Ginevra (anche se nel volume figurava Londra) nel 1764 con il titolo Dictionnaire philosophique portatif.

    Delle molte edizioni apparse fino al 1776, vivente l’autore, ci limitiamo qui a richiamare le riedizioni che presentano rimaneggiamenti, supplementi ad articoli precedenti o nuovi articoli:

    Dictionnaire philosophique portatif, London (ma Genève) 1764;

    Dictionnaire philosophique portatif, «Nouvelle édition, revue, corrigée et augmentée de divers articles par l’auteur», London 1765 (questa edizione ebbe tre ristampe nello stesso anno);

    Dictionnaire philosophique portatif, «Nuovelle édition. Avec des notes. Beaucoup plus correcte et plus ample que les précédentes», Amsterdam, presso l’editore Varberg, 1765;

    Dictionnaire philosophique portatif, «Sixième édition revue, corrigée et augmentée de XXXIV articles par l’auteur» (in realtà, 16 dei 34 nuovi articoli dichiarati erano già apparsi nell’edizione Varberg), London 1767;

    La raison par l’alphabet, Genève 1769.

    In seguito, tra il 1770 e il 1776, uscirono altre cinque edizioni che riproducevano quella del 1769. Il titolo di Dictionnaire philosophique fu adottato a partire dal 1770. Tra il 1770 e il 1774 apparvero alcune edizioni di un’altra opera, Questions sur l’Encyclopédie, nella quale Voltaire, pur pubblicando numerosi articoli dai titoli inediti, riprese diverse voci del Dictionnaire philosophique, sia riproducendole esattamente, sia rimaneggiandole, sia mantenendo il titolo ma scrivendo sul medesimo argomento articoli interamente nuovi. La confusione tra le due opere si protrasse anche nell’edizione di Kehl delle opere complete di Voltaire, curata da Condorcet (1784-1789), nella quale sotto il comune titolo Dictionnaire philosophique erano riuniti alfabeticamente tutti gli articoli apparsi nel Dictionnaire e nelle Questions, oltre ad alcuni frammenti tratti arbitrariamente dalle voci redatte da Voltaire per l’Encyclopédie e per il Dictionnaire de l’Académie.

    Tra le riedizioni moderne del Dictionnaire philosophique segnaliamo:

    Dictionnaire philosophique, a cura di R. Pomeau, Paris 1964;

    Dictionnaire philosophique, a cura di J. Benda e R. Naves, Paris 1987; N Oeuvres alphabétiques, a cura di J. Vercruysse, Oxford 1987 (voi. xxxm delle Oeuvres complètes pubblicate dalla Voltaire Foundation).

    L’edizione del 1987 curata da Raymond Naves con note e varianti a cura di Julien Benda (cui si rifà la presente traduzione), ha ripristinato il testo definitivo del Dictionnaire philosophique, consentendo al tempo stesso, con un intelligente apparato di note, di ricostruire la «storia» dei successivi rimaneggiamenti dei vari articoli nelle cinque edizioni base citate (tale informazione è stata mantenuta nell’edizione italiana qui presentata), e riportando utilmente in appendice le varianti e i supplementi pubblicati nelle Questions sur l’Encyclopédie.

    Del Dictionnaire philosophique portatif esistono diverse traduzioni italiane:

    Dizionario filosofico, a cura di M. Bonfantini, Torino 1950 (ristampato negli Oscar Mondadori, 1981);

    «Dizionario filosofico», in Opere filosofiche, a cura di P, Serini, Bari 1962, n vol.; Dizionario filosofico, a cura di M. Moneti, Milano 1981, 2 voll.;

    Dizionario filosofico, Milano 1987, 2 voll.

    Studi critici sul Dictionnaire philosophique

    G. PELLisiER, Voltaire philosophe, Paris 1906; C. DUCKWORTH, «Flaubert and Voltaire’s Dictionnaire philosophique», in Studies on Voltaire and the eighteenth Century, 18, 1961; D. GUIRAGOSSIAN, Voltaire’s «Facéties», Genève 1963; J.R. MONTY, «Etude sur le style polémique de Voltaire: le Dictionnaire philosophique», in Studies on Voltaire and the eighteenth Century, 44, 1966; A.J. BINGHAM, «The earliest Criticism of Voltaire’s Dictionnaire philosophique», in Studies on Voltaire and the eighteenth Century, 48, 1966; R. GALLIANI, «Les notes marginales au Dictionnaire philosophique», in Studies on Voltaire and the eighteenth Century, 156, 1976; P. RETAT, «Le Dictionnaire philosophique de Voltaire: concept et discours du dictionnaire», in Revue d’histoire littéraire de la France, 81, 1981; B.E. SCHWARZBACH, «The Problem of the Kehl Additions to the Dictionnaire philosophique: Source, Dating and Autheticity», in Studies on Voltaire and the eighteenth Century, 201, 1982.

    Studi generali sulla figura e l’opera di Voltaire

    G. DESNOIRESTERRES, Voltaire et la société au dix-huitième siècle, 8 voll., Paris 1867- 1876; G. MAUGRAS, Querelle de philosophes: Voltaire et J.-J. Rousseau, Paris 1886; É. FA GUET, Voltaire, Paris 1895; ID., La politique comparée de Montesquieu, Rousseau et Voltaire, Paris 1902; G. LANSON, Voltaire, Paris 1906; J.F. NOURISSON, Voltaire et le voltairianisme, Paris 1906 (nuova ed. 1960); E. SOURIAU, «La langue de Voltaire dans sa correspondance», in Revue d’histoire littéraire de la France, 21, 1921; A. BELLESORT, Essai sur Voltaire, Paris 1925; H. CELARIE, M. de Voltaire, sa famille et ses amis, Paris 1928; N.L. TORREY, Voltaire and the english Deists, New Haven 1930 (nuova ed. Oxford 1936); R. CRAVERi, Voltaire politico dell’illuminismo, Torino 1937; R. NAVES, Voltaire et l’Encyclopédie, Paris 1938; ID., Le goût de Voltaire, Paris 1938 (rist. an. Genève 1970); ID., Voltaire: l’Homme et l’Oeuvre, Paris, 1942 (nuova ed. 1962); L. FRANCIS, La vie privée de Voltaire, Paris 1948; C. LUPORINI, Voltaire e le «Lettere filosofiche», Firenze 1955 (nuova ed. Torino 1977); C. ROWE, Voltaire and the State, New York 1955; R. POMEAU, Voltaire par luimême, Paris 1955; ID., La religion de Voltaire, Paris 1956 (nuova ed. 1969); N. ADDAMIANO, Voltaire, Roma 1956; J. STERN, Voltaire et sa nièce Mme Denis, Paris-Genève 1957; F. DIAZ, Voltaire storico, Torino 1958; G.H. BRUMFITT, Voltaire historian, Oxford 1958; V. LUBLINSKY, «La bibliothèque de Voltaire», in Revue d’histoire littéraire de la France, 58, 1958; P. GAY, Voltaire’s Politics, Princeton 1959 (trad, it. Bologna 1991); J. SAREIL, Anatole France et Voltaire, Paris 1961; C. RIHS, Voltaire. Recherches sur les origines du matérialisme historique, Genève 1962; F. DIAZ, Filosofia e politica nel Settecento francese, Torino 1962; H.T. MASON, Pierre Bayle and Voltaire, Oxford 1963; R.A. BROOKS, Voltaire and Leibniz, Genève 1964; P. ALATRI, Voltaire, Diderot e il «partito filosofico», Messina-Firenze 1965; J. ORIEUX, Voltaire, Paris 1966 (trad. it. Milano 1968); R. BARTHES, «L’ultimo degli scrittori felici», in Saggi critici, Torino 1966; T. BESTERMAN, Voltaire, London 1969 (trad. it. Milano 1970); S. LANDUCCI, Voltaire, Milano 1969; AA.W., The Age of Enlightement. Studies Presented to Theodor Besterman, London-Edinburgh 1969; C. STRICKLEN, «The philosophical Mission: the Creation of an Idea: 1750-1789», in Studies on Voltaire and the Eighteenth Century, 86, 1971; M. DUCHET, Anthropologie et histoire au siècle des Lumières, Paris 1972 (trad. it. Bari 1976); C. GUSDORF, Dieu, la nature et l’homme au siècle des Lumières, Paris 1972; J.L. CURTIS, «La Providence: vicissitudes du Dieu voltairien», in Studies on Voltaire and the Eighteenth Century, 118, 1974; A. VARTANIAN, «Fiat lux and the Philosophes», in Diderot Studies, XVI, 1974; AJ. AVER, Voltaire, London 1980 (trad. it. Bologna 1990); P. LICCIARDELLO, Voltaire. La ragione senza maiuscola, Catania 1981; G. TAMAGNINI, Voltaire e i libertini. Diritto, politica e libero pensiero nell’opera di Voltaire, Modena 1981; H. MASON, La vita di Voltaire, Bologna 1984; R. PEYREFITTE, Voltaire, sa jeunesse et son temps, 2 voll., Paris 1985; R. POMEAU (sotto la direzione di), Voltaire en son temps, 4 voll.,Paris 1985-1993; P. ALATRI, Introduzione a Voltaire, Bari 1989; Voltaire, the Enlightement and the Comic Mode. Essays in Honour ofJean Sareil, a cura di M.C. Cutler, New York 1990.

    AGGIORNAMENTO BIBLIOGRAFICO

    Tra i più recenti studi su Voltaire segnaliamo:

    Etudes sur le Traité sur la tolerance de Voltaire, sous la direction de Nicholas Cronk, Oxford 2000; GERMANA CAROBENE, Tolleranza e libertà religiosa nel pensiero di Voltaire, Torino 2000; GILBERT KEITH CHESTERTON, Voltaire, Chieti 2000; RICCARDO CAMPI, Le conchiglie di Voltaire, Firenze 2001; La peine de mort, de Voltaire a Badinter, presentation, notes, chronologie et dossier par Sandrine Costa, Paris 2001; Dictionnaire general de Voltaire, publié sous la direction de Raymond Trousson et Jeroom Vercruysse, Paris 2003; L’affaire Pamela: lettres de Monsieur de Voltaire a Madame Denis, de Berlin, presentées de André Magnan, Paris 2004; JOHN LEIGH, Voltaire: a sense of history, Oxford 2004; CRISTIANE MERVEAUD, Bestiaires de Voltaire. Génèse de Candide, Oxford 2006; PATRICIA MENISSIER, Les amies de Voltaire dans la correspondance (1749-1778), Paris 2007; RICCARDO CAMPI, Voltaire: lo scandalo dell’intelligenza, Napoli 2007; PIERRE MILZA, Voltaire, Paris 2007; PIETRANGELO BUTTAFUOCO, Cabaret Voltaire: l’Islam, il sacro, l’Occidente, Milano 2008; ANNE-MARIE GARAGNON, Cinq études sur le style de Voltaire, Orléans 2008; CHRISTOPHE PAILLARD, Jean-Louis Wagnière, secretaire de Voltaire: lettres et documents, Oxford 2008; MAX GALLO, de l’Academie française, Moi, j’écris pour agir: vie de Voltaire, Paris 2008; BENOIT GARNOT, C’est la faute à Voltaire: une imposture intellectuelle?, Paris 2009; ANNICK AZERHAD, Le dialogue philosophique dans les contes de Voltaire, Paris 2010; GIULIO GIORELLO, Giulio Giorello incontra Voltaire, Milano 2010; MARTI DOMINGUEZ, Il ritorno di Voltaire, traduzione italiana dal catalano di Riccardo Cochetti, Roma 2010; SILVIA MATTEI, Voltaire et les voyages de la raison, Paris 2010.

    ¹ Anagramma di Arouet le jeune.

    Romanzi e racconti

    Titoli originali: Le Crocheteur borgne, Cosi-Sancta, Songe de Platon, Micromégas, Le monde comme il va, Zadig ou la Destinée, Memnon ou la Sagesse humaine, Lettre d’un

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