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Tutti i romanzi
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Madame Bovary • Salammbô • L’educazione sentimentale (con le “appendici” Memorie di un pazzo e Novembre) • La tentazione di sant’Antonio • Tre racconti • Bouvard e Pécuchet

Con un saggio di Marcel Proust
Edizioni integrali

A cura di Massimo Colesanti

Fra i più grandi scrittori moderni, Flaubert è considerato un realista. Ma l’impegno di esattezza, la documentazione, l’impersonalità nascono da una posizione esistenziale di rifiuto pessimistico della realtà. E questi canoni della sua arte sono osservati e sofferti, sono martirio e compenso del suo desiderio di perfezione, di assoluto. Avrebbe voluto scrivere un libro su nulla, perché l’importante non è la materia, ma l’opera da realizzare nella scrittura. La norma è per lui un antidoto contro la realtà ripugnante: vi si costringe dentro, ma anela ad esserne fuori. Ha scritto e riscritto, per così dire, un unico libro, sul doppio registro ora della scarnificazione della realtà contemporanea (Madame Bovary, L’educazione sentimentale), ora di evasione lirica, storica e immaginaria (Salammbô), ironica e tormentata (La tentazione di sant’Antonio), raffinatamente stilistica (Tre racconti). E come testamento ci ha lasciato Bouvard e Pécuchet, una satira feroce della stupidità umana.


Gustave Flaubert

nacque nel 1821 a Rouen. Iniziò giovanissimo a scrivere racconti, novelle e pièces storiche. Nel 1840 si iscrisse alla facoltà di legge di Parigi, ma non terminò gli studi. A questo periodo risalgono i primi contatti con i circoli letterari della capitale. Nel 1846 tornerà nella provincia di Rouen, dove morirà nel 1880.
LanguageItaliano
Release dateDec 16, 2013
ISBN9788854141803
Tutti i romanzi
Author

Gustave Flaubert

Gustave Flaubert was born in Rouen in 1821. He initially studied to become a lawyer, but gave it up after a bout of ill-health, and devoted himself to writing. After travelling extensively, and working on many unpublished projects, he completed Madame Bovary in 1856. This was published to great scandal and acclaim, and Flaubert became a celebrated literary figure. His reputation was cemented with Salammbô (1862) and Sentimental Education (1869). He died in 1880, probably of a stroke, leaving his last work, Bouvard et Pécuchet, unfinished.

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    Tutti i romanzi - Gustave Flaubert

    382

    Titolo originale:Madame Bovary. Moeurs de province,trad. di Ottavio Cecchi; Salammbô,

    trad. di Paola Angioletti; L’Éducation sentimentale. Histoire d’un jeune homme,

    trad. di Claudio Rendina; Mémoires d’un fou, trad. di Maurizio Grasso; Novembre. Fregments

    d’un style quelconque, trad. di Paola Angioletti; La Tentation de saint Antoine, trad. di Frances

    Tentori Montalto; Trois contes (Un coeur simple, La Légende de saint Julien l’Hospitalie

    Hérodias), trad. di Maurizio Grasso; Bouvard et Pécuchet, trad. di Bruno Schacherl;

    Dictionnaire des idées reçues, trad. di Maurizio Grasso

    Prima edizione ebook: giugno 2012

    © 1996, 2011 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-4180-3

    www.newtoncompton.com

    Edizione elettronica realizzata da Gag srl

    Gustave Flaubert

    Tutti i romanzi

    Madame Bovary, Salammbô, L’educazione sentimentale

    (con le appendici Memorie di un pazzo e Novembre),

    La tentazione di sant’Antonio, Tre racconti, Bouvard e Pécuchet

    Con un saggio di Marcel Proust

    A cura di Massimo Colesanti

    Note introduttive alle singole opere di Massimo Colesanti,

    Mario Lunetta, Nicola Muschitiello

    Edizioni integrali

    Newton Compton editori

    Introduzione

    Un libro come modo di vivere

    Per parlare oggi di Flaubert, e per cercare di comprenderlo, stando proprio alla lezione che si ricava dal suo odio del luogo comune, occorre anzitutto evitare di fermarsi soltanto su alcune delle sue numerose e fin troppo abbondanti dichiarazioni di principio poetico. Si va avanti su una strada che si è rivelata, specie in questi ultimi tempi, sbagliata se non falsa. Il realismo, nel senso inteso da Champfleury, o anche da altri scrittori, non è un'etichetta che si possa facilmente adattare a Flaubert, che nettamente la rifiutò. E così il canone della impersonalità; che se può verificarsi in molti, ma singoli episodi, raramente risulta da un libro intero, e meno che mai da tutto il complesso dell'opera così distintamente segnata da una personalità assai originale, anzi prodigiosa di scrittore.

    Certo esiste una «dottrina» di Flaubert (come esiste la sua Corrispondenza). Ma non è da considerare come un codice rigido e immutabile di riferimento, bensì come una specie di regesto di formule enucleate via via dall'operazione in corso, e che riguardano sempre e soprattutto, al di là di ogni apparente astrazione, le opere che si vanno facendo, un processo in fieri. La Corrispondenza non è che semplicemente spieghi o commenti le opere, ma le completa, le integra, o ne costituisce il doppio negativo. È anch'essa un «libro» di Flaubert (e non il meno affascinante) che partecipa ambiguamente alle opere omogenee che Flaubert va scrivendo, cioè dal di dentro e dal di fuori, seguendole nel loro sviluppo ma al tempo stesso come negandole, o neutralizzandole, o almeno ricattandole sul piano delle intenzioni, dei progetti, in un rapporto curioso, di fedeltà e di repulsione, di soddisfazione e di tormento, di fiducia e di disperazione.

    L'oggetto è sempre il libro da scrivere, diciamo meglio «un libro», come giustificazione e scopo dell'esistenza («Un libro non è mai stato per me che un modo di vivere in un ambiente qualsiasi, Corr., 1858 e 1859), in quanto la trama e l'ambiente sono in sostanza relativi - e questo già intacca e contraddice a molti princìpi del realismo -; un libro come «incombenza esistenziale» per sopravvivere, e che quanto più dura e lunga sarà, tanto più servirà a rimuovere o a diradare tedi e ossessioni. Quando Flaubert è gravido di un nuovo progetto, fa sempre preparativi come per una grossa impresa o un viaggio lungo e straordinario. Non è tanto l'opera di documentazione che lo preoccupa (e che non ha poi quel posto di grande rilievo che si è voluto credere: «M'infischio dell'archeologia!», dirà proprio a proposito di Salammbô, questo presunto lavoro di restauro archeologico). È l'idea di una lotta con e per la scrittura, che lo attira e lo spaventa. Programma spazi e tempi, fa piani rigorosi, prevede anni di lavoro, che poi risultano sempre troppo corti. Annuncia lunghi ritiri e silenzi, muore in certo senso alla vita esterna (e a un certo momento ha proprio l'intenzione di fare annunciare la sua morte, per non essere interrotto e seccato). Appare infastidito, angosciato da quel compito ch'egli stesso si impone, è ansioso di terminarlo, ma poi lo fa durare, lo prolunga, non se ne libera pur protestando di volersene liberare, di non poterne più. È nel suo resistere, nel suo durare che la prosa, diciamo anche la scrittura, ha per Flaubert un fascino tormentoso, satanico. E la «conclusione» di un libro è sempre per lui in certo senso provvisoria, e come annullata o già ripresa da un altro progetto. Una voluttà mai esausta di martirio, di olocausto: un calice amaro che si vorrebbe allontanare e che pure si beve avidamente, con il gusto del sacrificio («Ci vorrebbero dei Cristi dell'Arte», Con., 1853). Nei trent'anni della sua piena maturità e attività (1851-1880), Flaubert non ha potuto per questo che scrivere o riscrivere pochi libri: l'importante era per lui il libro nel suo farsi, da farsi, non da terminare, da compiere («È da stupidi voler concludere», scriveva già nel 1850). Il successo, i tempi, il denaro, la stampa non lo interessavano che minimamente. Erano relegati nel fondo del suo pensiero, su orizzonti molto vaghi e del tutto indifferenti. Non aveva la mania tipografica, diceva; un libro finito gli diveniva del tutto indifferente, perché usciva dalla sfera di idee che glielo aveva fatto intraprendere. Era felice di potersi subito immergere in altri esercizi.

    Cinque anni per scrivere Madame Bovary (1851-56), e poi, quasi senza interruzione, altri cinque per Salammbô (1857-62); quindi non meno di sette per i progetti e per la stesura dell'Éducation sentimentale (1862-69), che del resto riprende progetti e redazioni precedenti, dai giovanili Mémoires d'un fou (1836) alla prima Éducation sentimentale del 1843-45. E così non ha ancora terminato e pubblicato La Tentation de saint Antoine (1874), a cui pensa fin dal 1846, che già progetta Bouvard et Pécuchet, la cui stesura, interrotta dalla morte, è inframezzata dai progetti e dalla redazione dei Trois contes (1876-77). Si direbbe, e non solo per queste circostanze esterne e cronologiche, un continuum, un libro unico che riprende, in modi diversi, dopo ogni apparente sospensione o svolta. L'importante non è riuscire in un libro, ma perdersi in esso. Per ritrovarsi.

    Un libro da scrivere è dunque l'oggetto dell'opera. La corrispondenza ne è il soggetto. Non ci meravigliamo che Flaubert abbia scritto così poco o quasi affatto, per le riviste e per i giornali, abbia così poco, pubblicamente, partecipato alla vita letteraria del suo tempo. L'unico suo scritto pubblicato di teoria o di critica letteraria degno di nota è la prefazione alle postume Dernières chansons (1872) dell'amico Bouilhet, anch'essa del resto riscritta e corretta più volte. La sua corrispondenza assorbe e sostituisce ogni lavoro potremmo dire extra-narrativo o, per rimanere nella terminologia che abbiamo adottata, extra-libresco. Vi confluisce tutto ciò che non entra e non deve entrare nel libro che si sta scrivendo: progetti, considerazioni, pregiudizi, idee sull'arte che il libro stesso applica o rinnega, umori, desideri, repulsioni, idiosincrasie, pruriti, riflessioni, sfoghi, senza peli sulla lingua. Quando si leggono alcune lettere di Flaubert, si ha il senso da una parte di un rovello continuo, di una tensione estrema ed enfatizzata; dall'altra di una détente, di una decompressione. Il «corrispondente», cioè la persona a cui la lettera è indirizzata, vi ha pure il suo posto, e Flaubert è prodigo ed avido di consigli e di umana partecipazione e comprensione per le vicende altrui (si rileggano ad esempio le lettere a Mlle Leroyer de Chantepie, a Amélie Bosquet, a George Sand, e soprattutto quelle, dal tono molto più aperto e familiare, alla nipote Caroline, al prediletto Bouilhet, a Jules Duplan, a Ernest Feydeau, ai Goncourt, a Maupassant, ecc.). Ma potremmo dire che non è mai un posto di rilievo ed è spesso trascurabile rispetto al resto. Il corrispondente è a volte non molto di più che un testimone invitato a partecipare alla tormentata operazione in corso, quasi ad assistervi, e a rompere quindi quel cerchio di solitudine in cui Flaubert si è costretto. Questo vale soprattutto per le lettere del periodo 1851-1880; che si pongono in un rapporto più immediatamente dialettico, di simmetria e di scontro, con i libri ch'egli scrive in quello stesso periodo. Ma può verificarsi, ad un altro livello, anche per le lettere del periodo «giovanile» precedente, dove, pur nell'effusione più intimistica, discorsiva e descrittiva (le «lettere d'amore» della prima fase del suo rapporto con Louise Colet, 1846-1848; le lettere alla madre, ai familiari, agli amici durante il viaggio in Oriente), Flaubert prende già coscienza delle sue qualità e possibilità di scrittore, dopo la doppia crisi della sua giovinezza, fra i primi «saggi», pervasi da un esasperato e in tutto romantico autobiografismo (oltre ai Mémoires d'un fou e la prima Éducation sentimentale, sono da ricordare almeno Smarh, 1839, e Novembre, 1842, che già costituiscono quasi tutti il tentativo di riscrittura di uno stesso libro), e la malattia che segnerà per sempre le fasi nevrotiche di esaltazione e di depressione del suo temperamento. Pensiamo ad una dichiarazione come questa, che implica già un confronto angoscioso, di attrazione e di fastidio, con il libro:

    [...] ieri mi sono messo a letto in preda a una specie di stato di sconforto, pensando a tutto quello che mi resta da fare per Sant Antonio. Ne ero come schiacciato. Oggi va meglio. Speriamo che riuscirò a finirlo, ma più vado avanti, più la fine si allontana. [Lettera alla madre, estate 1849.]

    Immenso, formicolante vivaio di idee e di impressioni su tanti argomenti diversi, ma con largo spazio per il fatto letterario, per l'opera in corso, queste migliaia di lettere non sono soltanto un documento interessantissimo sulla società francese, provinciale e parigina, dalla monarchia di Luglio alla Terza Repubblica, o un diario, dettagliato e unitario; sono anche, insieme agli abbozzi, e alle brutte copie, un elemento indispensabile della creazione di Flaubert, un pretesto o «hors-texte» che oltre ad annunciare il testo oggettivo in via di costruirsi, lo denuncia e lo condiziona. Non è la solita «corrispondenza» cui si ricorre per notizie, rivelazioni, illuminazioni, e che può aggiungersi, a fini crìtici o esplicativi, all'opera. È opera essa stessa, è componente costitutiva di un mondo letterario, è vaso comunicante in circuito aperto, perenne, per immissione e derivazione, col testo, fra progetti, riflessioni, negazioni. Di qui l'estrema unità e coerenza dell'opera flaubertiana; di qui anche l'autorizzazione che può avere oggi lo storico o il critico nell'unificare, nella sua analisi, senza eccessivi pericoli di arbitri o di confusioni, lettere e libri. Monaco d'una Tebaide dell'Arte, eremita prigioniero, convinto e martoriato, di questo suo sogno di Assoluto, Flaubert si è proiettato in ogni sua pagina. È dunque in tutta la sua complessità che la sua scrittura, che il suo dramma va esaminato e compreso.

    Realismo. E rifiuto della realtà

    Un'essenziale schematizzazione della «dottrina» di Flaubert (e rinviamo, fra l'altro, all'ottimo studio di Alberto Cento), deve tener conto almeno di cinque o sei punti. C'è anzitutto la coscienza di una specie di rifondazione di un genere letterario, del «genere romanzo», che può oscillare fra romanzo vero e proprio, racconto o romanzo-epopea, ma rimanendo sempre sul piano della narrazione, forma particolarmente congeniale a Flaubert, fin dai primi tentativi, e dalla quale egli molto raramente si discosta (i suoi tentativi teatrali furono un fallimento). Senza giungere alla satira semiseria di Bouvard e Pécuchet, che presi da mania letteraria (capitolo V) procedono nella loro ricognizione fra stroncature, riserve, sbadigli o effimeri entusiasmi, è chiaro che Flaubert fa quasi tabula rasa di tutta la produzione precedente. «Il romanzo è appena nato, e aspetta il suo Omero», scrive nel 1852, e a proposito proprio dell'«omerico» Balzac, che pure ammira abbastanza, mentre detesta Stendhal, accomunato una volta a Veuillot e a Proudhon - nientemeno - come della stessa razza «bizzosa e anti-artista». Il romanzo deve costituirsi come rappresentazione, stilisticamente elaborata e perfetta, della realtà, in una sovrapposizione in tutto combaciante di forma e di sostanza. La Scienza indichi anche qui i suoi procedimenti, le sue tecniche di scomposizione, di studio, di calcolo, e quindi di ricomposizione, di combinazione, di «reazione» fra i vari elementi, senza perdite, sbavature, residui. La letteratura, l'Arte - che vuol dire, restrittivamente, per Flaubert, il romanzo - deve seguire in questo senso le «vie della Scienza», deve essere «espositiva» (che non vuol dire «didascalica»), in un'operazione chimico-estetica che mostri e coinvolga nella scrittura il reale nella sua totalità. Non è molto difficile parlare di se stessi, ma degli altri (ma non è forse che la maggiore difficoltà è di parlare di sé attraverso gli altri?). E Flaubert crede che fino ai suoi tempi si è parlato molto poco degli altri: «Il romanzo non ha fatto altro finora che esporre la personalità dell'autore, anzi dirò di più, tutta la letteratura in generale non ha fatto che questo, salvo due o tre casi. Perciò bisogna che le scienze morali prendano un'altra strada, e procedano come le scienze fisiche, con imparzialità» (Corr., 1857).

    Un realismo scientifico, dunque, non limitato ad una visualizzazione plastica dell'oggetto, a una «dagherrotipia» dell'ambiente o della persona, ma che riproduca anche legami e processi interni, che ripercorra il grande processo della creazione. La forma non è un involucro o mantello, ma un segno vivente: è la carne stessa del pensiero, come il pensiero ne è l'anima, la vita (Corr., 1853). «[...] la forma e l'idea, per me sono tutt'uno e non so cosa sia l'una senza l'altra. Più un'idea è bella, più la frase è sonora [...]. La precisione del pensiero crea (ed è essa stessa) quella della parola» (Corr., 1857). È il modo di partecipazione a ricreare il dato che la realtà offre, compenetrandolo, permealizzandolo e diciamo pure rivitalizzandolo. L'importante non è tanto «fare vero», ma anche «fare bello e vivo». Di qui il «dramma» fondamentale di Flaubert: trovare sempre l'esatto punto di unione o di fusione fra un intervento autonomo e un elemento condizionante, in maniera che né il primo deformi il secondo, né il secondo banalizzi il primo. Si comprende come allora per lui lo «stile» divenga una vera fatica di Sisifo, uno sforzo estremo che non ha mai fine.

    Ma come, per altri versi, il Sisifo di Camus, anche Flaubert soggiace a questa fatica come alla ragione stessa della sua esistenza. Egli vive in questo suo continuo soccombere e ricominciare, in questa sua perenne insoddisfazione di equilibri precari, in questo suo continuare a scrivere nell'agghiacciante coscienza che è impossibile scrivere (e non è un caso che da questa flaubertiana crisi della possibilità di scrittura Barthes prenderà le mosse, con diverse motivazioni, del suo Grado zero della scrittura). Sono fin troppo note le proteste, le urla del buon «omaccione normanno» (come disse De Lollis) nella morsa di quelle ch'egli chiamava «le angosce dello stile», l'angosciosa ricerca della parola giusta, della frase giusta ma anche armoniosa, dal calibro e dal timbro precisi. Non vuota sonorità naturalmente, né verboso esercizio. Diceva di sentirsi lo stile «nella pancia». Le sue frasi hanno sempre qualcosa di corposo e di teso, di vibrato. Si sente che dentro vi circola sangue e non linfa e che battono all'unisono con il contesto, e senza accusare, o raramente, lo sforzo, l'impegno che sono costate.

    Ma questa fusione stilistica, questa tormentosa opera di raffinamento sulla solida gettata della materia non è possibile senza una specie di partecipazione negativa, senza un rapporto di impegno e di distacco insieme. Il canone dell'impersonalità è certamente uno dei più conclamati e vistosi di questa «dottrina», non tra i più fermi e inattaccabili. E Flaubert vi è tornato troppe volte sopra per non dare l'idea che da più parti esso franasse o gli sfuggisse di mano. È un principio che sembrerebbe talvolta legato soprattutto alla prosa, alla prosa del romanzo, ma riguarda in realtà la stessa concezione dell'Arte. La messe che qui si può raccogliere è sovrabbondante, strabocchevole: «L'Arte non ha nulla a che spartire con l'artista» (Corr., 1852); «Bisogna scrivere più freddamente. [...] Tutto deve farsi a freddo, con calma» ( Corr., 1853); «Ricordiamoci sempre che l'impersonalità è il segno della forza» (Corr., 1853); «No! No! La Poesia non dev'essere la schiuma del cuore» (Corr., 1854). E citiamo anche quest'ultima dichiarazione, che è fra le più complesse e articolate (e più celebri):

    Madame Bovary non ha nulla di vero. È una storia completamente inventata; non vi ho messo nulla né dei miei sentimenti né della mia vita. L'illusione (se c'è) deriva al contrario dall'impersonalità dell'opera. È uno dei miei principi: non bisogna scriversi. L'artista dev'essere nella sua opera come Dio nella creazione, invisibile e onnipotente; dappertutto deve sentirsi la sua presenza, ma senza mai apparire. [Lettera a Mlle Leroyer de Chantepie, 18 marzo 1857.]

    Lasciamo stare, per ora, che questo contraddice (come è stato più volte notato), ad altre affermazioni, sia per quel che riguarda alcune innegabili «fonti» cronachistiche e, per così dire, topografiche del romanzo, sia per quanto riguarda una «identificazione» dell'autore almeno con la protagonista; ed è il famoso detto, tante volte citato e discusso: «Madame Bovary sono io». Si potrà anche sostenere che Flaubert non l'abbia mai pronunciato, ma non si potrà mai rovesciarlo. Perché Flaubert tanto più si scrive quanto più pretende di non scriversi. Questa «impersonalità» o «impassibilità» non è un freddo principio aprioristico, una grigia uniforme da indossarsi in ossequio a categoriche disposizioni, ma è un soccorso, un «rimedio» a posteriori. Nasce anzitutto come reazione e disgusto (e un discorso analogo è da fare per altri «teorici» dell'impassibilità, per Gautier; ad esempio, o per il primo Leconte de Lisle). Non è un caso che Flaubert abbia insistito su questa pretesa «impersonalità» soprattutto mentre scriveva Madame Bovary; quel «sistema» doveva essere per lui come un antidoto, uno strumento per assumere la materia di cui trattava senza lasciarvisi coinvolgere. Quell'argomento «borghese» gli rivoltava lo stomaco; era un magma ripugnante che bisognava vincere, plasmare, con una rude ginnastica di stile, con un paziente e ingrato lavoro di anatomia. Si sentiva come un uomo che suonasse il piano con delle palle di piombo su ogni falange. E mentre si snervava in questo duro esercizio, sognava argomenti e sistemi di scrittura opposti, sentiva il bisogno di epopee gigantesche, aveva «pruriti di epopea», riconosceva d'essere portato a scrivere «grandi cose sontuose, battaglie, assedi, descrizioni del vecchio oriente favoloso» (Corr., 1854; ed è già il tema di Salammbô).

    Ciò che gli è congeniale, naturale, è il non-naturale per gli altri, lo straordinario, il fantastico, «l'urlo metafisico, mitologico», «lo stile ditirambico e turgido». Egli si definisce «uno che sbraita nel deserto della vita» (Corr., 1853). Si costringe a stare nella «norma», ma anela ad esserne fuori. «Enorme» - come confessava - è la situazione del suo spirito, per entusiasmo o disdegno. L'impersonalità nasce quindi anche da una posizione di rigetto, di rifiuto, e dunque si nega nel momento stesso in cui viene applicata e riconfermata. È una scelta, sempre provvisoria e revocabile, dell'«umano» obiettivo con il rimpianto del «lirismo» in cui si vorrebbe spaziare con ampia libertà, e in cui si aspira a tornare. Una Sfinge impassibile continuamente insidiata, sfiorata e turbata dalle ali di una mobilissima Chimera (e ricordiamo il significativo dialogo fra la Sfinge e la Chimera nella Tentation de saint Antoine). D'altro canto Flaubert sente il libro come qualcosa di intimo, di profondamente legato a chi lo scrive e lo produce, come un viscere del nostro organismo, che partecipa della nostra vita, che dà e riceve impulsi ed emozioni. «Un libro è una cosa essenzialmente organica, fa parte di noi stessi. Ci siamo strappati dal ventre un po' di trippa, che serviamo ai borghesi. Le gocce del nostro cuore si possono vedere nei caratteri della nostra scrittura.» (Corr., 1859.)

    Pubblicare è quindi un darsi in pasto alla folla, è una prostituzione, e al livello più alto, e più vile! L'imparzialità, l'impassibilità sono dunque anche strumenti di difesa, stratagemmi di pudore ambiguamente ricercati e adoperati: sono (o dovrebbero essere) corazze impenetrabili, temperate in uno sforzo spaventoso di estraniazione, di distanza, diciamo pure in un'operazione impossibile: dare come lontano, «altro», diverso, ciò che è vicino, proprio, identico a noi stessi. Le opere giovanili, e gli abbozzi, le brutte copie dei suoi stessi capolavori mostrano del resto quanto naturalmente Flaubert fosse portato, più di altri scrittori, a vivere in «simpatia» con i suoi personaggi, e quanto dovesse costargli recidere caparbiamente i doppi e tripli fili che ad essi lo legavano; come per liberarsene, per separarsene. Una sensazione «acquisita, non spontanea», ha notato giustamente Richard, che osserva ancora: «Tutto il suo sforzo lo conduce a provare senza approvare: ma all'inizio, egli viveva interamente in ogni personaggio, incollato a lui, in preda a lui. L'oggettività flaubertiana nasce da uno sradicamento da se stesso...». Ma si tratta forse, più che di una dissociazione violenta, di una lenta, spietata «disincarnazione», dopo e anche durante una vera identificazione ossessiva. Flaubert scriverà a Taine, verso il 1868: «I miei personaggi immaginari mi coinvolgono, mi perseguitano, o piuttosto sono io a mettermi dentro di loro. Quando scrivevo l'avvelenamento d'Emma Bovary, sentivo così bene il sapore dell'arsenico nella bocca, mi sentivo talmente avvelenato io stesso, che mi sono procurato due indigestioni, l'una dopo l'altra, due indigestioni vere e proprie, perché ho vomitato tutto il mio pasto...».

    Pessimismo e fede nell'Arte

    Non abbiamo voluto qui ridimensionare, o in tutto ribaltare un principio; semmai proprio in questa luce ambigua l'impersonalità di Flaubert può assumere la sua più vera originalità: non involucro o scafandro da indossarsi con facilità, ma drammatica risorsa, morale e letteraria, per mantenere a un livello costante la tensione della scrittura, per restituire su un piano omogeneo e armonico un'accidentata e stridente ricerca di Forma. Perché questo principio si salda ad altri supporti della «dottrina», e almeno a questi due, in apparente contraddizione, e piuttosto in opposizione o compensazione dialettica: il pessimismo e la fede nell'Arte.

    Alla nevrosi giovanile di Flaubert si è già accennato; ma non credo che basti dire ch'essa insiste, latente manifesta, per tutta la sua vita, determinando le sue idiosincrasie, i suoi scarti umorali. Il pessimismo flaubertiano ha anche le sue teorizzazioni e giustificazioni logiche; e se non si costituisce in vero e proprio sistema filosofico, si configura certo come un'angoscia esistenziale lucidamente sofferta e accettata, come incapacità di adattamento nella quotidianità e nella realtà. Sui margini del vuoto vertiginoso che la noia continuamente spalanca, Flaubert si attesta in posizioni di isolamento, di rifiuto e di protesta. Proprio perché ha un senso acuto, tremendo della realtà, dello «schifo dell'esistenza», egli tenta continuamente di esserne fuori. Di qui il suo senso perenne di ansia, di disperazione come stato morale, che egli spietatamente analizza, in ogni piega, e che confessa così spesso e così apertamente ai suoi amici, o che trasfonde nei suoi personaggi («Sono un gran dottore in malinconia», Corr., 1858). Senso soprattutto del finito, della labilità di ogni cosa, di ogni avvenimento, perfino dell'angoscia ch'egli avverte nel chiuso del suo studio di Croisset, come in mezzo all'animazione mondana, o al cospetto dei grandi spettacoli della natura o nelle splendide dimore. Penso alle sue riflessioni a Fontainebleau (dove ha fatto il suo bravo «sopralluogo» per il libro che sta scrivendo, L'Éducation sentimentale, III, 1).

    Ma acre disgusto, fino alla nausea, e ancora alla voglia di vomitare, fisicamente, egli prova specialmente per l'uomo, per l'uomo Flaubert come per l'uomo in generale («Di brutto, c'è solo l'uomo. Come è triste tutto questo», Corr., 1853; «La mia anima, quando mi ci chino sopra, mi manda sbuffi nauseabondi», Corr., 1858). Disprezzo egli riserva all'intera umanità, nelle sue perenni qualità di perversione animalesca e di meschinità morale, di conformismo ipocrita. Altro che impersonalità. Scrive a proposito di Salammbô: «Da questo libro non risulta che un immenso disdegno per l'umanità (bisogna amarla assai poco per averlo scritto)» (Corr., 1861).

    L'umanità intera, nella sua essenza di ogni tempo e di ogni luogo ripetiamo, non la borghesia. È fin troppo noto, e vi si è insistito non so quante volte, come il «borghese» gli ripugni, di quanti insulti e sarcasmi egli lo copra e lo accoppi. Ma è dar prova di miopia critica non accorgersi che in verità egli condanna la borghesia come uno stadio, quello a lui contemporaneo della specie umana, non come una classe sociale e dominante, cui occorrerebbe sostituirne un'altra migliore. Flaubert è contro il Progresso, contro l'industrializzazione, che non fa che sviluppare il brutto in proporzioni gigantesche (e oggi non gli si darebbe certo torto). Detesta mode, costumi, invenzioni: dalla crinolina, «che ha divorato le natiche», alla litografia che non fa che propagare spaventosamente cattivi disegni. Sotto il marchio della mediocrità utilitaristica, perfino le pietre divengono «sciocche», e «le grandi strade sono stupide» (si rileggano, fra tante altre che si potrebbero citare, le lettere a Louise Colet del 29 gennaio 1854 e quella a George Sand, del maggio 1867, sull'Esposizione parigina di quell'anno). Egli tuona certo contro il secolo XIX; «un secolo di puttane»; ma in quale altro secolo Flaubert sarebbe vissuto a suo agio? Borghese del resto è anche lui, di nascita, di censo, e per molte abitudini se non per molte convinzioni. È e vuole restare troppo libero per essere un libertario. È per una «aristocrazia legittima», auspica un «governo di mandarini» (Corr., 1871), ed è comunque ben lontano dall'approvare ogni tentativo di rovesciare l'ordine costituito (si pensi alle sue feroci invettive contro la Comune, ma anche ai silenzi, alla debolezza, alla perplessità di Frédéric di fronte alle impennate repubblicane e socialiste di Sénécal e di Deslauriers, nella Éducation sentimentale, e all'insuccesso politico dello stesso Frédéric, così ridicolizzato, e alle sue delusioni). Falso scopo contro cui scatena tutti i suoi odi, le sue amarezze, le sue insoddisfazioni, la borghesia è per Flaubert il mito negativo della sua vita, una testa di turco per un uomo scontento di sé, scontento di vivere, un uomo «seccato dall'esistenza», e che si sente, come artista, estraneo e diverso.

    Un pessimismo radicale, dunque, un naufragio permanente in un mare di «malattia nera». Un'ancora di salvezza sembrerebbe a volte la Scienza. Ma quale Scienza? Figlio (e poi fratello) di un medico, Flaubert respira fin dall'infanzia un'aria iniziatica di osservazione e di scoperta. La conoscenza, lo studio dei fenomeni e dei sintomi, la diagnosi, il consulto, la storia come giurisprudenza di ciò che si è fatto, si è detto, si è scritto nel passato, sono tutti elementi costitutivi del suo modo di pensare, anche se nelle sue immani fatiche di documentazione egli non distingue troppo fra opere veramente scientifiche, storiche, e opere di fantasia, romanzi veri e propri (come in Salammbô, ad esempio). Ma anzitutto la sua è una Scienza per così dire propedeutica, in funzione dell'Arte, cioè una Scienza che ha il suo scopo fuori della Scienza. E d'altro canto egli attinge a vari campi, secondo le occasioni e le necessità del «libro» che sta scrivendo, e manca quindi del rigore d'un approfondimento costante e continuo sempre nella stessa direzione. Rimane in lui una fiducia vaga, e utopistica, visionaria, nell'«avvenire della Scienza», e in una Scienza diciamo così «globale» che tutto risolva e rimetta a posto sul piano materiale e morale. Legge gli «ideologi», ammira certo un Renan, ma ancora di più un Michelet (e il «poeta», il «Veggente», più che lo scienziato), a cui tributa elogi davvero iperbolici per Il mare, per Il prete, la donna e la famiglia, per la Bibbia dell'umanità. La Scienza rimane per il momento un «mito», che si avvererà nel futuro, quando rimuovendo errori e assurdi pregiudizi, si accetterà coraggiosamente di vivere senza più alcuna illusione, nella realtà dei fatti, secondo le esigenze di ogni giorno.

    Nell'attesa, la fede di Flaubert è l'arte, ma come un cilizio, che distribuisce sofferenze indicibili e gioie supreme. Perché, come appunto la Fede, non è qualcosa che si possa assumere una volta per tutte, e poi riposare tranquilli. La sua forza e il suo tormento, è nell'esercizio continuo, nel travaglio di dubbi e di disperazioni. È l'antidoto di cui necessitano dosi giornaliere. Flaubert è un tossicodipendente dell'Arte. Ha bisogno del suo delirio, della sua martoriante euforia, e ne teme le pause, i vuoti, «[...] dato che l'esistenza non è tollerabile se non nel delirio letterario. Ma il delirio ha le sue intermittenze: ed è allora che ci si annoia» (Corr., 1861). «Cerco di inebriarmi con l'Arte, come altri fanno con l'acquavite [...]; non si è felici, ma non si soffre più» (Corr., 1857).

    Non si soffre più perché l'Arte è un modo di non vivere, di sottrarsi alla vita comune, di sprofondare in un «viaggio» fuori del tempo e dello spazio, sconfinando con vigorosi colpi d'ala dai vischiosi ritmi quotidiani. Non è esagerato dire, con espressione certo abusata, che Flaubert ha un vero «culto dell'Arte»: un culto esclusivo, morboso, che lo fa urlare contro chi non mette l'Arte sul suo alto piedistallo, chi cerca di «volgarizzarla» o strumentalizzarla. Bisogna rappresentare le Passioni, non difendere questo o quel Partito. Ed egli ha coscienza di scrivere per pochi, non si meraviglia dei suoi insuccessi. Pretende che bisognerebbe scrivere solo per se stessi, e che l'opera non dovrebbe uscire dal «silenzio dello studio». L'Artista e la massa sono due entità contrapposte e inconciliabili. Senza mitomanie o eccessivi fanatismi, Flaubert si sente depositario o sacerdote di un «credo»: in questo è il suo orgoglio, la sua amara fierezza. Riecheggia a volte, nella corrispondenza, e in altri scritti, la requisitoria virulenta della Préface di Mademoiselle de Maupin. Non è casuale la sua grande ammirazione e amicizia per Théophile Gautier, ed è significativo che egli ne attribuisca la morte ad una lenta soffocazione, causata dalla «stupidità moderna». «Théo è morto avvelenato dalla carognaggine moderna. Le persone esclusivamente artiste come lui non hanno nulla da fare in una società in cui domina la plebe» (Corr., 1872).

    L'Arte esclude la plebe come esclude in gran parte la Natura (e Flaubert preferisce Voltaire a Rousseau, anche per molti motivi ideologici). Egli non arriva a eliminare dal suo mondo poetico «il vegetale irregolare», come fa Baudelaire. È sensibile al richiamo di alcuni spettacoli, ai pleniluni ridenti sulla Senna che scorre sotto le sue finestre di Croisset, al ricordo lontano dei paesaggi africani o italiani («Ah! gli aranci di Sorrento sono lontani!» Corr., 1864). E non è che i suoi romanzi siano privi di stupendi quadri paesaggistici. Ma egli non è l'uomo della Natura: le sue «meraviglie» lo commuovono meno di quelle dell'Arte, le sue forze sovrumane lo schiacciano, gli fanno sentire il nulla della sua individualità, e non gli forniscono alcuna «grande idea». Durante un soggiorno in Svizzera, scrive a George Sand: «[...] Non capisco niente dei paesi che non hanno storia. Darei tutti i ghiacciai per i Musei Vaticani. È là che si sogna» (lettera del 3 luglio 1874).

    Un libro su nulla ovvero le vendette dell'Arte

    L'Arte anzitutto, dunque; ma su che cosa e di che cosa? Flaubert respinge l'ideale e il «romanzesco», come l'autobiografismo, e lo abbiamo già visto. Occorre cercare sempre la maniera di fondere nell'opera d'arte l'assoluto e il contingente, l'ideale e il reale. Ma la realtà ordinaria, banale, generalizzata, che Flaubert deve e vuole assumere, è appunto quella ch'egli rifiuta e disdegna: non resta che tentare, in vari modi, come una specie di scorporazione o di depurazione stilistica, e inglobarla come un dato necessario e negativo. L'Arte, in altri termini, vive dello stesso pessimismo da cui nasce, esorcizzato e cooptato a un tempo. Di qui direi la «tristezza» di Flaubert, la sua pagina sempre fondamentalmente malinconica, quel suo sentirsi a volte un saltimbanco demotivato che si produce nel suo esercizio quasi per forza d'inerzia, la sua predilezione per il «grottesco triste», corni di laceranti del suo dilemma, e che corrisponde agl'intimi bisogni della sua natura «buffonescamente amara», egli che ha il senso vivissimo del ridicolo, della sua stessa ridicolaggine, «non di quel ridicolo relativo che è il comico teatrale, ma di quel ridicolo intrinseco alla stessa vita umana, e che risulta dalla più semplice azione, come dal gesto più ordinario» (Corr., 1846; e pensiamo al Dizionario dei luoghi comuni).

    Avrebbe voluto fare perciò «un libro su nulla, un libro senza legami esterni» (Corr., 1852). Dei libri in cui ci fossero da scrivere solo delle frasi, come per vivere non c'è bisogno che di aria, dei libri senza piani prestabiliti, senza malizie, calcoli, supporti, che tuttavia sono anch'essi Arte, perché l'effetto dello stile dipende esclusivamente da essi (Corr., 1853).

    Un libro anche senza «materia». Il «realismo» di Flaubert esprime un dissenso niente affatto politico o morale o generazionale, ma esistenziale: non è una rappresentazione, ma uno scavo, una dissezione anatomica della vita umana, tanto più operante quanto più dettagliata e documentata. Potremmo applicare a tutte le sue opere quello ch'egli dichiarò a George Sand mentre scriveva L'Éducation sentimentale:

    Quale forma bisogna adottare per esprimere talvolta la propria opinione sulle cose di questo mondo, senza rischiare di passare, più tardi, per un imbecille? Ecco un grosso problema. Mi sembra che il modo migliore sia di dipingerle, così come sono, queste cose che vi esasperano. Sezionare è una vendetta. [Lettera dei 18-19 dicembre 1867.]

    E una «vendetta» è Madame Bovary. Anzitutto rispetto al romanzo tradizionale, o immediatamente precedente, ma non, sicuramente, per un sovvertimento delle «regole», o un ribaltamento di moduli narrativi; e nemmeno direi per la scelta dell'argomento, provinciale e banale, dichiarato così esplicitamente nel sottotitolo di marca balzacchiana («Costumi di provincia»). L'intrigo segue un percorso abbastanza scontato, con tutti o quasi gl'ingredienti di tanti altri romanzi d'amore (ma certo tale non definiremmo in assoluto Madame Bovary): seduzione, adulterio, fughe progettate e fallite, delusioni, rimorsi, le trappole dell'usura, i colpi di scena fino alla catastrofe finale, col suicidio, che è anche una «soppressione» o esecuzione della protagonista. L'innovazione è se mai proprio nella non eccezionalità del caso, nella ricerca non dello straordinario, ma del comune, delle azioni e delle abitudini più ovvie e quotidiane. Il «romanzesco», nel senso di ideale, non è eliminato, ma riproposto come aspirazione, rivolta, «sogno», e ristretto nella sensibilità individuale di Emma quale stato perenne di bramosia insoddisfatta nello scontro continuo con la realtà. Di qui l'esigenza di rappresentare questa realtà nei suoi particolari più trascurabili a prima vista, nei dettagli più inavvertibili perché più usuali, nei gesti che si compiono del tutto automaticamente, ma che lo scrittore ferma, osserva e quindi sdoppia nei due registri del dare e dell'avere, di ciò che siamo costretti a fare e di quello che invece ci dipingono attese e speranze. Una dissezione che non è dunque una stupida e piatta fedeltà cronachistica, ma scarnificazione lenta, senza intenzioni terapeutiche o dimostrative, ma con il preciso disegno di esporre in ogni piega o viscere il fondo grigio di amarezza e di noia. «Figlio e fratello di bravi medici, Gustave Flaubert tiene la penna come altri lo scalpello. Anatomisti e fisiologisti, vi ritrovo dappertutto!», concluse Sainte-Beuve, con questa frase celebre, il suo disuguale, e oggi per molti aspetti deludente articolo su Madame Bovary. Uno scalpello o bisturi guidato però non da una volontà di scienza, come conoscenza e rimedio, ma da un desiderio di mortificazione, di condanna e di rifiuto.

    Nel tono e nel significato di tutto il romanzo, la precisione analitica è mortificante, ha scopi diametralmente opposti a quelli potremmo dire «sanitari», di osservazione e di salvezza. Ma sfugge anche alla monotonia di una requisitoria violenta e unidirezionale. La condanna della realtà viene a volte proposta a livello della realtà stessa, per così dire: le vicende, gli oggetti sono come abbandonati a se stessi, alla loro banalità ricorrente e ripugnante. L'impersonalità è come agevolata da una specie di autocondanna dell'oggetto, visto e collocato però dall'autore in una data luce e situazione. Altre volte l'intervento dell'autore è più scoperto; nell'ironia di alcune scene, quella dei «comizi agricoli», ad esempio (pagine riscritte, tormentate, come si sa), dove alla scena della seduzione di Emma da parte di Rodolphe, che mette a segno i suoi vecchi trucchi di libertino, in un animo già così predisposto e ricettivo all'elogio della passione, si alterna e si contrappone la banalità del discorso «juste-milieu» del consigliere e la distribuzione dei premi ai porci; o anche nella forzatura caricaturale di alcune figure o macchiette (come il parroco Bournisien o il père Rouault), e di alcuni personaggi a tutto tondo, come il farmacista Homais, incarnazione emblematica del borghese, certo, ma anche, e a un livello superiore, della mediocrità e della adattabilità umana di ogni tempo e luogo.

    Ma è nella forma, nella scrittura stessa che la situazione può essere verificata: un'adesione per rigetto, un'ambiguità della parola, fra ritratto e parodia, che percorre tutte le linee, le curve, i piani inclinati, le superfici e le intersezioni della realtà, ma al tempo stesso si pone e si dà come «altra», mira a spazi lontani e diversi, rimpiange e postula un «altrove» metafisico, un punto di fuga fuori del quadro. Situazione della scrittura che si identifica nella situazione di Emma, dilaniata nella sua nausea fra la tentazione del nulla e la speranza di realizzare i suoi sogni («Essa desiderava al tempo stesso di morire e di abitare a Parigi», I, 9), quei sogni che tuttavia si spostano continuamente, su orizzonti irraggiungibili.

    C'è in Madame Bovary il senso d'una insufficienza, d'una condizione di slittamento, di instabilità, di degenerazione irrimediabile. Tutta la sua avventura si svolge in una successione di entusiasmi illusori, di impennate donchisciottesche (e Flaubert prediligeva Cervantes), cioè di sforzi per dare corpo ai suoi ideali, e di immancabili cadute rovinose, di stadi catatonici, come ad esempio dopo la partenza di Léon per Parigi. Insufficienza della vita. E Madame Bovary - ha detto con molta esattezza Thibaudet - è «una biografia della vita umana piuttosto che la biografia di un essere qualsiasi». Insufficienza anche, più nel profondo, della scrittura, così piegata e costretta su una materia ripugnante, e che però non riesce a sovrapponisi interamente, mentre d'altra parte porta con sé l'inadeguatezza, la crisi di ogni espressione verbale. In uno dei passi più «personali» del romanzo, in un intervento diretto a rettificare le idee di Rodolphe, già stufo di Emma, Flaubert scrive: «...come se la pienezza dell'anima non straboccasse talvolta nelle metafore più vuote, poiché nessuno mai può dare l'esatta misura dei suoi bisogni, né dei suoi pensieri, né dei suoi dolori: la parola umana è come un paiolo incrinato sul quale battiamo melodie da far ballare gli orsi, mentre vorremmo commuovere le stelle», (II, 12.)

    Il riscatto della scrittura

    C'è una specie di gara o rincorsa fra le opere di Flaubert, che si realizzano in modo relativamente molto più rapido, e i progetti più antichi, che stentano a raggiungere il traguardo. Così L'Éducation sentimentale (1869), il cui motivo generatore è presente fin dai primi abbozzi e tentativi giovanili, come si è detto, è fra le ultime a tradursi in un libro compiuto; così la Tentation de saint Antoine, che rimane quasi trent'anni in cantiere - salvo alcuni frammenti pubblicati contemporaneamente a Madame Bovary - ed è superata da Salammbô, opera diversa, certo, ma immersa nello stesso mito o colore orientale. Così infine Bouvard et Pécuchet, che resta addirittura incompiuta alla morte di Flaubert, rimane in progetto per decenni se si considera che la prima idea del Dizionario dei luoghi comuni, che a essa si ricollega, è del 1852-53 (e Flaubert vi pensava anche negli anni precedenti), mentre la progettazione e l'esecuzione dei Trois contes avviene in tempi molto più brevi. È che da una parte Flaubert, in quella che è certamente una sua forma di masochismo, ama tormentarsi sempre in nuove difficoltà anziché riprendersi subito in vecchie strade già in parte battute; dall'altra, dopo ogni libro compiuto, egli sente il bisogno come di disintossicarsi, cambiando - ma per molti aspetti fondamentali solo apparentemente - direzione e materia.

    L'Éducation sentimentale si distanzia perciò molto, nel tempo, da Madame Bovary, a cui peraltro tanti agganci la uniscono. Anche qui un ambiente borghese, soggetto prediletto e ingrato, contro cui lo scrittore sbraita e si snerva nella sua frenetica corrispondenza; anche qui il senso d'una insufficienza, d'una mancanza, che si acuisce soprattutto nei momenti in cui ogni felicità sembra raggiunta; e anche qui lo stesso «realismo», perfino più puntiglioso e documentato. Ma le differenze non sono meno sostanziali. E sono differenze di tono, di orchestrazione, di taglio della scrittura specialmente. L'Éducation sentimentale è indubbiamente opera più matura, ricca e moderna di Madame Bovary. Il sottotitolo, Storia di un giovane, potrebbe intendersi come la storia di un giovane a cui l'uomo è sopravvissuto. Gli episodi, gli spunti autobiografici, dall'incontro con Mme Schlésinger (Marie Arnoux nel romanzo), sulla spiaggia di Trouville, agli anni parigini, sono ora riproposti senza immediatezza o effervescenza romantica, e armonizzati con tante altre esperienze successive, con l'esperienza tout court, dell'uomo e dello scrittore, che si giova di questa distanza, di questa esistenza già scontata e di cui si raggruppano come in un fascio le conclusioni. In Madame Bovary la parola veniva definita «un laminatoio che allunga sempre i sentimenti»; qui anche il tempo sembra dilatarsi e perdersi nello sminuzzarsi quotidiano degli avvenimenti, o addirittura prolungarsi in uno spazio senza limiti, contorni, fatti precisi, se non quelli appunto di una vita come tante altre, nella banalità della norma. E lo iato, il lungo intervallo di sedici anni, fra il colpo di stato del 2 dicembre, il cui resoconto si chiude bruscamente con l'assassinio di Dussardier da parte di Sénécal (III, 6), e l'ultimo incontro di Frédéric e di Marie, nel marzo 1867 (III, 7) assume quasi una durata metafisica, con tutto quello che implicitamente si dà come un'ordinaria amministrazione della vita di cui non vai la pena di parlare in dettaglio.

    Madame Bovary è uno spaccato, con le facciate e gli interni bene in vista di un edificio unitario, e con la protagonista che agisce, si rivolta contro strutture immobili, che agita intorno a sé le morte gore di una stagnazione che la soffoca, e che se ha pure le sue incertezze, non esita a prendere le sue decisioni, anche quelle supreme e definitive. Nell'Éducation il quadro è molto più mosso, e non soltanto per la diversa situazione e dimensione sociale e politica che viene presentata, fra i sussulti della rivoluzione quarantottesca e la repressione del 2 dicembre. Non c'è qui una persecuzione o parodia della realtà nelle sue brutture, ma una sua frantumazione o disseminazione vanificante. Gli avvenimenti si succedono senza apparente nesso di causalità o di necessità: svolte improvvise, incontri fortuiti, soluzioni inattese, una fatalità che sembra trascinare tutto e tutti. E Frédéric, nella cui ottica ogni episodio viene filtrato e recepito, ne è sempre coinvolto, sballottato, disgustato, in una passività o remissività senza vie d'uscita. Nel ritmo della vita che pure pulsa e preme tutt'intorno - e la folla, la massa, nel grande, enorme respiro d'una città come Parigi, fa il suo ingresso irrompente in questo romanzo - Frédéric si adagia e si rannicchia fra le rovine dei suoi sogni, con i suoi velleitari «desideri contraddittori», la sua «immensa tristezza», la sua abulia anche di fronte alle tentazioni del suicidio. «Uomo di tutte le debolezze», debole è anche verso la sua stessa passione, cui non riesce a dare uno sbocco. L'amore impossibile che lo tormenta e lo esalta è una situazione del resto che in gran parte egli stesso crea, e che non può, non vuole, non si sente di modificare. Penso alla scena dei baci sulle palpebre, alle visite ad Auteuil, ma soprattutto al timore di profanazione che coglie Frédéric nell'ultimo incontro con Mme Arnoux, con tutti i capelli bianchi (III, 6). In pochi altri luoghi del romanzo la condizione di Frédéric è fissata così nitidamente: la sua esitazione di fronte all'avventura possibile, fra l'impaccio delle conseguenze e la paura di intaccare un ideale sublime.

    La malinconia che s'insinua fra il sogno di ciò che si potrebbe essere, o di quel che si sarebbe voluto essere, e le conferme angosciose che la realtà ci rimanda, dà il tono a tutto il romanzo. Quel senso di caduta, di sconfitta, di frutti secchi o imbozzacchiti sugli alberi (e «I frutti secchi» avrebbe dovuto essere, ad un certo momento, il sottotitolo del romanzo, con allusione al fallimento di tante giovani speranze); quell'impressione di disgregazione che dovunque si avverte, negli affetti, negli ideali, nelle cose, è anche la scrittura a suggerirla, nei suoi passaggi bruschi, nelle sue intermittenze fra narrazioni o descrizioni essenziali, e frequenti, rapidi dialoghi, nella sua stessa semplicità o ovvietà.

    Ma proprio in quel che presenta e in ciò di cui segna la mancanza o la sconfitta, la scrittura ha anche, qui come altrove, la sua forza creativa: la sua armonica composizione si pone come compenso e riscatto dell'ineluttabile sgretolio delle vicende umane, l'unità e l'alterità dell'opera d'Arte vince l'amarezza dei desideri insoddisfatti, il silenzio delle delusioni, così come, alla fine del romanzo, il racconto dell'episodio della Turca - un insuccesso, una fuga anche questo -, trasfigurato nel ricordo della giovinezza, appare a Frédéric e a Deslauriers ciò ch'essi hanno avuto di meglio. L'evocazione di un ricordo, quindi di un altrove dello spazio e del tempo, di qualcosa ormai di diverso e lontano dalla realtà, riempie un'intera esistenza.

    MASSIMO COLESANTI

    A proposito dello stile di Flaubert

    *

    Saggio di Marcel Proust

    Soltanto adesso (il che non mi dà la possibilità di affrontare un esame approfondito) leggo l'articolo dell'illustre critico della Nouvelle Revue Française su Lo stile di Flaubert¹. Devo dire che son rimasto meravigliato nel veder giudicato come uno scrittore poco dotato per natura un uomo che, per quell'uso completamente nuovo e personale che ha fatto del passato remoto, del passato prossimo, del participio presente, di pronomi e preposizioni, ha rinnovato la nostra visione delle cose quasi come Kant, con quella dottrina delle categorie e della realtà del mondo esterno ². E questo non perché io ami particolarmente i libri di Flaubert o il suo stile. Per motivi che qui sarebbe troppo lungo sviluppare, sono certo che soltanto la metafora sia capace di dare allo stile un carattere d'eternità; e in tutto Flaubert forse non esiste proprio una bella metafora. Anzi, le sue immagini generalmente sono così scarse che non superano quelle che potrebbero inventare i suoi più banali personaggi. Certamente, quando in un sublime romanzo ³ la signora Arnoux e Frédéric si scambiano certe frasi: «A volte le vostre parole mi arrivano come un'eco lontana, come il suono d'una campana portato dal vento. - Avevo sempre nel fondo del mio cuore la musica della vostra voce, lo splendore dei vostri occhi!», essi parlano un po' «troppo bene». Ma se, invece dei suoi personaggi, fosse stato Flaubert a parlare, non avremmo avuto molto di meglio. Nella sua opera migliore ⁴, per esprimere in una maniera, che evidentemente lui riteneva affascinante, il silenzio che regnava nel castello di Julien, Flaubert scrive che «si poteva sentire il fruscio di una sciarpa o l'eco di un sospiro». E alla fine, quando colui che Saint-Julien porta sulle spalle si rivela per il Cristo, quel momento ineffabile è descritto più o meno così: «I suoi occhi presero il chiarore delle stelle; i suoi capelli si allungarono come i raggi del sole; il respiro delle sue narici ebbe la fragranza delle rose», ecc. Qui non c'è niente di brutto, di stonato, d'irritanta o di ridicolo, come in certe descrizioni di Balzac o di Renan; soltanto che, anche senza l'aiuto di Flaubert, un qualunque Frédéric Moreau sarebbe stato in grado di trovare qualcosa di simile. Ma in ogni caso la metafora non è poi tutta nello stile. E chiunque arrivi, prima o poi, a quel gran «piano mobile» che è l'opera di Flaubert, col suo moto perpetuo, monotono, opaco, indefinito, non può non riconoscere che è letterariamente senza precedenti. Lasciamo stare, non dico le banali disattenzioni, ma la correttezza grammaticale; è una qualità utile, ma negativa, dal momento che un bravo scolaro, incaricato di rivedere le bozze di Flaubert, vi avrebbe tolti molti errori. Piuttosto, esiste una bellezza grammaticale (come esiste una bellezza morale, tragica, ecc.) che non ha niente a che fare con la semplice correttezza. Era proprio una simile bellezza che Flaubert doveva creare tanto faticosamente. A volte poteva anche capitare che essa consistesse, in un certo modo, nell'applicazione delle regole di sintassi. E Flaubert godeva particolarmente quando riscontrava in scrittori del passato un'anticipazione di se stesso: per esempio, in Montesquieu: «I vizi di Alessandro erano eccessivi come le sue virtù, egli era terribile nella sua collera: essa lo rendeva crudele»⁵. Ma evidentemente a Flaubert piacevano certe frasi non tanto per la loro correttezza, quanto perché, facendo sì che dal cuore di una proposizione scattasse l'arco destinato a ricadere nel vivo di una successiva, esse assicuravano una stretta, ermetica continuità di stile. Per arrivare allo stesso scopo, Flaubert spesso usa il pronome personale secondo le regole; regole che, altrimenti, gli sono del tutto indifferenti. Così Flaubert, nella seconda o terza pagina dell'Éducation sentimentale, usa «egli» per indicare Frédéric Moreau in un periodo in cui quel pronome dovrebbe esser riferito a suo zio e per indicare Arnoux in un altro in cui dovrebbe essere riferito a Frédéric. Più avanti, l'«essi» riferito a dei cappelli vuole invece designare delle persone, e così via. Questi continui errori sono frequenti così come in Saint-Simon⁶. Però, nella stessa pagina dell'Éducation sentimentale, per non spezzare un'immagine, egli collega due paragrafi usando questa volta il pronome personale con rigore grammaticale; in tal modo Flaubert riesce a mantenere quell'unione delle varie parti del quadro, quel ritmo regolare che gli è proprio: «La collina che seguiva a destra il corso della Senna si abbassò e ne sorse un'altra, più vicina, sulla riva opposta».

    Esprimere le proprie immagini, senza intromissioni da parte dell'intelligenza o della sensibilità: ecco quanto sta a cuore a Flaubert, man mano che matura la sua personalità e diventa sempre più se stesso. In Madame Bovary non è stato ancora eliminato tutto quel che non è lui; le ultime parole: «Da poco [Homais] è stato insignito della Legion d'onore» fanno pensare al finale di Le Gendre de Monsieur Poirier: «Pari di Francia nel '48». E nella stessa Éducation sentimentale (un titolo così bello per la sua solidità, ma grammaticalmente scorretto) si notano qua e là tracce, sia pur trascurabili, di qualcosa che non è Flaubert («sa pauvre petite gorge»). Tuttavia, nell'Éducation, la rivoluzione è ormai attuata; quanto in precedenza era azione, ora diventa impressione. Nelle cose c'è altrettanta vita che negli uomini, soltanto in seguito il ragionamento attribuisce a ogni fenomeno visivo quella causa esteriore, peraltro inesistente nell'impressione originaria. Riprendo nell'Éducation sentimentale la frase citata in precedenza: «La collina che seguiva a destra il corso della Senna si abbassò e ne sorse un'altra, più vicina, sulla riva opposta». Jacques-Emile Blanche ha detto che, nella storia della pittura, basta a volte un semplice rapporto di toni, una giustapposizione di due colori, a determinare la novità, il colpo di genio. La personalità di Flaubert si rivela grazie all'uso nuovo dei tempi verbali, delle preposizioni, degli avverbi, anche se gli ultimi due hanno nel suo periodo soltanto un valore ritmico. L'imperfetto indica uno stato che si prolunga. Tutta la seconda pagina dell'Education sentimentale (che ho scelto proprio a caso) è piena d'imperfetti; tranne quando si registri il cambiamento di un'azione, che ha generalmente per protagonista una cosa («la collina si abbassò», ecc.). Ma subito dopo riprende l'imperfetto: «Più d'un passeggero desiderava in cuor suo esserne il proprietario...». Ma spesso il passaggio dall'imperfetto al passato remoto è indicato da un participio presente, che precisa in che modo o in quale momento si svolge un'azione⁷. Sempre nella stessa pagina: «Vedeva passare immobile campanili... infine, scomparendo [disparaissant] Parigi, mandò un gran sospiro». In verità c'è da precisare che questa varietà di cose ed animali, usati come soggetti di proposizioni, impone parallelamente una gran varietà di verbi. Cito sempre a caso e abbreviando: «Dinanzi a lui procedevano le iene, e dietro il lupo; il toro teneva la testa ciondoloni, mentre la pantera, gonfiando il dorso, avanzava a passi felpati... Per aggredire il cinghiale, c'erano quaranta grifoni... Mastini di Tartaria erano destinati a inseguire gli uri. Il manto nero degli spagnoli risplendeva come raso; i guaiti dei cani del Poitou valevano quelli delle buccine canore...»⁸. È una varietà di verbi che si estende anche agli uomini, che appaiono, in questa immagine continua e omogenea, non superiori ma inferiori alle cose: «un'illusione da descrivere»⁹. E così anche: «Avrebbe desiderato correre nel deserto dietro agli struzzi, nascondersi tra i bambù in agguato di leopardi, attraversare foreste piene di rinoceronti, arrivare in cima alle montagne per vedere le aquile, combattere con gli orsi bianchi sui ghiacci del mare...». Quest'eterno imperfetto (e mi consenta il lettore d'indicare come «eterno» un passato indefinito, dal momento che per molti giornalisti «eterno» si accomuna non a un amore, giustamente, ma quasi sempre a un fazzoletto o a un ombrello; è un modo di dire ormai consacrato quell'espressione «col suo eterno foulard», - quando non si dica addirittura «leggendario foulard»), quest'eterno imperfetto - dicevo, - che in parte si basa su discorsi di personaggi riportati in genere da Flaubert in forma indiretta perché si confondano col resto («Lo Stato doveva impadronirsi della Borsa. Molte altre iniziative dovevano essere prese in futuro. Prima di tutto bisognava eliminare i ricchi... Adesso tutto era tranquillo... Balie e levatrici dovevano essere tutte al servizio dello Stato! Diecimila cittadine, armate di buoni fucili, potevano far tremare l'Hôtel de Ville...»; questo non significa che Flaubert pensi o affermi certe cose, ma che esse erano dette da Sénécal, da Frédéric o dalla Vatnaz, e che Flaubert ha inteso usare il meno possibile le virgolette); dunque, quest'imperfetto, letterariamente così nuovo, dà un aspetto completamente diverso a uomini e cose: come lo spostamento di una lampada, l'arrivo in una nuova casa o anche nella vecchia, quando è quasi vuota o si sta in pieno trasloco. È questo tipo di tristezza che suscita in noi lo stile di Flaubert, con il suo taglio netto nei confronti del tradizionale e con l'irrealtà dello scenario; uno stile completamente nuovo, se non altro per quest'aspetto. E l'imperfetto serve non soltanto a riportare i discorsi dei suoi personaggi, ma anche a descriverne l'intera vita. L'Éducation sentimentale¹⁰ è la lunga cronaca di tutta una vita, in cui i personaggi, se vogliamo, non partecipano attivamente all'azione. A volte il passato remoto interrompe l'imperfetto, divenendo, come questo, qualcosa che si prolunga in maniera indefinita: «Viaggiò. Conobbe la malinconia dei piroscafi... ebbe altri amori»; e in questi casi, in virtù di una specie di scambio delle parti, l'imperfetto subentra con il compito di precisare: «ma il costante ricordo del primo glieli rendeva sempre insipidi». In altri casi, sul piano inclinato e tutto mezze tinte degli imperfetti, il presente indicativo ottiene un appianamento e fa splendere una luce furtiva in pieno giorno che serve a mettere in rilievo una realtà più duratura tra le cose transeunti. «Stavano in Bretagna... Era una casa bassa... con un giardino... che sale [montant]¹¹ fino alla sommità della collina da dove si vede il mare»¹².

    La congiunzione «e» in Flaubert non ha assolutamente la funzione assegnatale dalla grammatica. Indica una pausa in una misura ritmica e divide un quadro. Dovunque noi useremmo una «e», Flaubert al contrario la sopprime. Questo il modello e il «giro» di tante frasi: «E i Celti rimpiangevano tre macigni grezzi sotto un cielo piovoso, in un golfo pieno di isolotti» (nel testo, forse, invece di «pieno» c'è «cosparso»: cito a memoria); Accadeva a Megara, sobborgo di Cartagine, nei giardini di Amilcare»; «Il padre e la madre di Julien abitavano un castello in mezzo ai boschi, sul pendio di una collina»¹³. Certamente la varietà delle preposizioni attribuisce a queste frasi ternarie maggiore bellezza. Ma in altre, di un diverso «giro», non riscontriamo mai nessuna «e». Già ho citato per altri motivi: «Viaggiò. Conobbe la malinconia dei piroscafi, i freddi risvegli sotto la tenda, la vertigine di paesaggi e rovine, l'amarezza di amicizie troncate». Qui il grande ritmo flaubertiano non potrebbe tollerare la «e». Al contrario, là dove nessuno penserebbe di usarla, Flaubert l'adopera. Vale come indicazione dell'imminente inizio di un'altra parte del quadro, dell'imminente ripresa dell'onda rifluente. Ancora una volta cito a caso: «Place du Carrousel aveva un aspetto tranquillo. L'Hôtel de Nantes vi si elevava solitario; e le case dietro, la cupola del Louvre di fronte la lunga galleria di legno a destra... erano avvolti in quel grigiore dell'aria... mentre sull'altro lato della piazza...». Insomma, in Flaubert, la congiunzione «e» comincia sempre una frase secondaria e non conclude mai un'enumerazione. (E si noti per inciso: nella frase ora citata, il «mentre» non indica un tempo, ma è soltanto uno di quegli ingenui artifici che usano tutti i grandi descrittori, la cui frase sarebbe troppo lunga, ma che non vogliono separare le parti del quadro¹⁴. In Leconte de Lisle si può notare un'identica funzione dei «non lontano», dei «più lontano», degli «in fondo» dei «più in là», dei «soltanto», ecc.). La conquista molto lenta (lo riconosco) di tante particolarità grammaticali (e non ho spazio per mettere in rilievo le più importanti, che ognuno potrà osservare da sé) dimostra, secondo me, non già - stando alle pretese del critico della Nouvelle Revue Française - che Flaubert non era «scrittore di razza», ma che lo era effettivamente. Con certe particolarità grammaticali esprimenti una visione nuova della realtà, dovette proprio lavorare a fondo per metter su una simile visione, farla passare dall'inconscio alla coscienza e incorporarla nelle singole parti del discorso!

    La cosa che invece meraviglia in uno scrittore di tale grandezza è la mediocrità del suo epistolario. Generalmente i grandi scrittori «incapaci di scrivere», come i grandi pittori «incapaci di disegnare», non fanno altro che venir meno alla loro spontanea virtuosità e facilità creando, per una nuova visione, espressioni capaci di adeguarvisi gradatamente. Ma nelle lettere, non più soggetti al dominio assoluto dell'ideale interiore, essi ridiventano come, meno grandi, non avrebbero cessato di essere. E quante donne, deplorando le opere di uno scrittore loro amico, aggiungono: «Se sapeste che meravigliosi biglietti scrive quando si lascia andare! Le sue lettere valgono molto più dei suoi libri». Infatti, chi in genere è privo di tali doti soltanto perché si deve adattare ad una realtà tirannica, alla quale non è possibile apportare alcun cambiamento, riesce con gran facilità a dar prova di eloquenza, di spirito, di brio, di forte incisività. Questo apparente e improvviso «rialzo» delle capacità di uno scrittore mentre improvvisa (o di un pittore quando disegna «come Ingres» sull'album di una signora che non comprenda un dipinto) si dovrebbe osservare in modo molto evidente nell'epistolario di Flaubert. Invece, vi si nota un «ribasso». Del resto, ogni grande artista che permette alla realtà di campeggiare nei suoi libri, rinuncia parallelamente a mettervi in mostra un'intelligenza, un giudizio critico che egli ritiene inferiori al suo genio. Ma tutto ciò che non si riscontra nella sua opera, risalta in pieno nella sua conversazione, nelle sue lettere. E quelle di Flaubert non lasciano intravedere nulla. Non possiamo riconoscervi, col Thibaudet, «le idee di un cervello di prim'ordine»; e questa volta a stupirci non è più l'articolo del Thibaudet, ma l'epistolario di Flaubert.

    Ma dal momento che il genio di Flaubert ci viene rivelato soltanto dalla bellezza del suo stile e dalle immutabili particolarità di una deformante sintassi, riscontriamo un'altra particolarità; un avverbio a conclusione non solo di una frase o di un periodo, ma di un'opera. (Ultima frase di Hérodias: «Poiché era molto pesante, la portavano alternativamente».) In lui, come in Leconte de Lisle, si riscontra quel bisogno di solidità, magari un po' pesante, come reazione a una letteratura se non vacua, perlomeno piuttosto frivola, in cui erano presenti degli spazi vuoti. Del resto, in Flaubert, avverbi e preposizioni sono sempre usati nella maniera più brutta, più inattesa, più pesante, come per ottenere un insieme più compatto nelle frasi, otturando il più piccolo buco. Homais dice: «I vostri cavalli, forse, sono focosi»; Hussonnet: «Sarebbe ora, forse, di istruire un po' questa gente!». «Parigi, ben presto, smetterà di esistere.» Gli «in fin dei conti», i «tuttavia», i «perlomeno» sono sempre posti diversamente da come li userebbe ogni altro scrittore. «Una lampada dalla forma di colomba vi bruciava sopra continuamente.» Per lo stesso motivo Flaubert non si fa scrupoli di pesantezza nell'uso di certi verbi e di celle locuzioni un po' volgari (in contrasto con quella varietà di verbi sopra ricordata, egli usa costantemente il verbo «avere», che è piuttosto

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