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101 cose da fare a Roma almeno una volta nella vita
101 cose da fare a Roma almeno una volta nella vita
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101 cose da fare a Roma almeno una volta nella vita

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Che cosa hanno in comune le rovine del Palatino e le sedie impagliate di una latteria d’epoca? E cosa unisce il sapore unico della pajata al profumo conturbante dei roseti in piena fioritura? L’eternità della capitale è il filo rosso che si srotola passo dopo passo, colle dopo colle, secolo dopo secolo abbracciando i mille volti della città, i suoi monumenti più noti, ma anche i luoghi segreti e gli angoli in cui una storia imponente svela la ricchezza di tutti i suoi anni. I centouno itinerari che in questo libro tentano di raccontare Roma invitano ad attraversare la Città Eterna passando dai capolavori di Caravaggio alle periferie raccontate da Pier Paolo Pasolini; dalla contemplazione delle architetture barocche alla degustazione dei piatti più antichi della tradizione; dalle testimonianze dell’epoca imperiale ai suoi mercati più colorati e rappresentativi. È una Roma, questa, da scovare nel grande e nel piccolo, fra i fasti di una nobiltà antichissima così come nella memoria e fra le vie appartenute al suo popolo sovrano. Una Roma immortale da conoscere in centouno mosse. Centouno passeggiate e altrettante esperienze che bisognerebbe proprio fare almeno una volta nella vita.

«Leggendo questa guida originalissima ci rendiamo conto di quanto poco ci concediamo, di come abitiamo malamente il posto più bello del mondo. Basta sfogliare l’indice del libro perché ritorni quella voglia di quando eravamo ragazzi e le mattine erano piene di sorprese e rivelazioni. Regaliamoci questi centouno momenti di meraviglia.»

Marco Lodoli, la Repubblica

«Si tratta di un libro che riesce a tracciare un percorso originale nell’urbe restando in equilibrio fra spunti storici ed aneddoti originali.»

Doriana Torriero, Corriere della Sera

Ilaria Beltramme è nata a Roma nel 1973 e spera di morirci vecchia e felice il più tardi possibile. Appassionata della sua città e di storia dell’arte, è anche traduttrice di fumetti e romanzi. È ancora convinta che il Tevere sia una divinità. Per Newton Compton ha pubblicato 101 cose da fare a Roma almeno una volta nella vita, 101 perché sulla storia di Roma che non puoi non sapere e Roma in un solo weekend.
LanguageItaliano
Release dateSep 8, 2010
ISBN9788854123182
101 cose da fare a Roma almeno una volta nella vita

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    101 cose da fare a Roma almeno una volta nella vita - Ilaria Beltramme

    21

    Prima edizione ebook: settembre 2010

    © 2007 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-2318-2

    www.newtoncompton.com

    Edizione elettronica realizzata da Gag srl

    A Marcello che mi ha fatto amare Roma

    Ilaria Beltramme

    101 cose da fare a Roma almeno una volta nella vita

    Nuova edizione riveduta e aggiornata

    Illustrazioni di Thomas Bires

    INTRODUZIONE

    Che cosa hanno in comune le rovine del Palatino e le sedie impagliate di una latteria d’epoca? E cosa unisce il sapore unico della pajata al profumo conturbante dei roseti in piena fioritura? L’eternità della capitale è il filo rosso che si srotola passo dopo passo, colle dopo colle, secolo dopo secolo abbracciando i mille volti della città, i suoi monumenti più noti, ma anche i luoghi segreti e gli angoli in cui una storia imponente svela tutti i suoi anni.

    I centouno itinerari che in questo libro tentano di raccontare Roma invitano ad attraversare la Città Eterna passando dai capolavori di Caravaggio alle periferie raccontate da Pier Paolo Pasolini; dalla contemplazione delle architetture barocche alla degustazione dei piatti più antichi della tradizione; dalle testimonianze dell’epoca imperiale ai suoi mercati più colorati e rappresentativi.

    È una Roma, questa, da scovare nel grande e nel piccolo, fra i fasti di una nobiltà antichissima così come nella memoria e fra le vie appartenute al suo popolo sovrano. Una Roma immortale da conoscere in centouno mosse. Centouno passeggiate e altrettante esperienze che bisognerebbe proprio fare... almeno una volta nella vita.

    RINGRAZIAMENTI

    Grazie a Emiliano per la pazienza e il sostegno, a Laura compagna di merende, a Stefano per la mattinata vaticana, a Giovanna per i pranzetti dopo le passeggiate, a Ornella per la lettura appassionata.

     1.

    BERE AL NASONE

    In principio furono gli acquedotti, alla cui presenza si deve buona parte della grandezza della città. Poi vennero le fontane monumentali, nate per decorare strade e piazze; per abbeverare le bestie che in quelle strade e in quelle piazze sostavano; per riutilizzare i reperti antichi che la terra romana non ha mai smesso di rigurgitare e per dare prestigio a chi le commissionava. Diventavano monumenti preziosi (e lo sono ancora), soprattutto quando a progettarle c’erano artisti come Giacomo della Porta e Gianlorenzo Bernini.

    Non molto, questi capolavori d’acqua, avevano a che fare con la sete dei romani. D’altro canto, per approvvigionare la città, all’epoca, bastavano gli acquaricciari, che prendevano l’acqua decantata del fiume per poi distribuirla equamente, tanto fra i vicoli più popolosi quanto nei palazzi più eleganti.

    Ma dopo il 1870 e la tanto sospirata unità d’Italia, con la crescita della popolazione di Roma, si rese necessario riorganizzare tutto il sistema delle acque cittadine. La soluzione era rappresentata da una ventina di cilindrotti di ghisa, dal peso di un centinaio di chili da cui doveva sgorgare acqua fresca potabile in continuazione, a uso e consumo del popolo romano.

    Sui cadaveri dei vecchi abbeveratoi, quindi, su quelli delle fontane a sarcofago e su tutti gli altri espedienti capitolini per placare la sete fisica e quella di potere, nascevano le fontanelle pubbliche di Roma. L’acqua usciva da tre teste di drago, poste più o meno alla metà del cilindro che era più snello di quelli che si trovano ancora oggi sparsi per tutta la città.

    A queste ultime fontane, peraltro, si deve il nome dialettale, nasone, che fa riferimento proprio al nuovo e più pratico cannello per bere: quello liscio e curvo con il famosissimo forellino da cui far zampillare l’acqua.

    Ma il primo modello non è del tutto scomparso, sono tre gli esemplari superstiti. Uno è nella piazza del Pantheon, a due passi dalla Rotonda e dalla sua fontana monumentale che, giustamente, attira tutta l’attenzione, l’altro è in via delle Tre Cannelle, una traversa di via IV Novembre e l’ultimo si incontra in via di San Teodoro, praticamente a ridosso del Palatino.

    Da quasi due secoli, quindi, ai cittadini romani e ai turisti è permesso bere ottima acqua completamente gratuita, sempre fresca e inoltre vicinissima agli itinerari di visita più conosciuti. Qualche esempio? Se ci si trova in Vaticano, per esempio, bisogna andare a via della Conciliazione, o a piazza Risorgimento, prima di intraprendere una camminata sotto il sole. Mentre al Colosseo se ne incontra una proprio sull’omonima piazza e un’altra, l’ideale per chi parte alla scoperta del Celio, in via dei Santi Quattro Coronati. I visitatori di Trastevere, invece, dovranno fare sosta verso la metà di via Arenula, oppure in via della Lungaretta, vicino alla splendida chiesa di Santa Maria in Trastevere. Mentre chi si dirige verso l’Ara Pacis potrà fare rifornimento a piazza Monte d’oro, dietro via Tomacelli e in vicolo del Lupo, a pochi metri dal Mausoleo di Augusto. Un lusso non da poco, visto il costo delle bottigliette di acqua minerale e le temperature folli che la capitale raggiunge d’estate.

    Per trovarle è sufficiente prestare un minimo di attenzione mentre si cammina. Generalmente, se la strada è quieta, si riconosce prima il rumore dell’acqua, altrimenti occorre aguzzare la vista e concentrarsi sugli angoletti appartati, a ridosso di un palazzo d’epoca, oppure all’incrocio di due vicoli. Basta avvicinarsi, aprire bottigliette e borracce e servirsi. Per la bevuta sul posto, invece, il segreto sta nel tappare il buco del nasone con una mano e bere dallo zampillo che affiorerà dal forellino sul cannello: l’espediente più semplice ed efficace per risolvere qualsiasi problema di igiene.

    Eppure ogni estate scoppia la polemica, perché tanta acqua gratis pare spesso uno spreco. Qualche tempo fa venne lanciata la proposta di installare un rubinetto per limitarne il consumo, ma dopo appena un paio d’anni di prova si decise di rimuoverli perché l’acqua nelle tubature si riscaldava troppo, ristagnando in modo sospetto prima di essere bevuta.

    Di denasonizzare la città, fortunatamente, non se ne parla neppure.

    Quello sì che sarebbe uno spreco inutile. Di memoria, innanzitutto.

     2.

    INNAMORARSI DAVANTI AL SARCOFAGO DEGLI SPOSI NEL MUSEO NAZIONALE ETRUSCO DI VILLA GIULIA

    Amore romantico, platonico, passionale, eterno, quanti aggettivi si possono aggiungere alla parola più preziosa del vocabolario umano. Che l’amore (quello vero) possa sopravvivere alla morte, poi, è un’affermazione talmente ovvia da risultare quasi trita. Ci si scervella, si soffre, si spera, si cerca e tutto per potersi definire finalmente e definitivamente innamorati per sempre, per sempre insieme.

    Ora, però, una visita a un museo può avere qualcosa a che fare con la ricerca dell’amore? Sì, può se la visita conduce davanti a una testimonianza unica di amore eterno, di relazione a lungo termine, rispetto, fratellanza e, perché no, sempiterna alleanza.

    Rinnamorarsi, o innamorarsi per la prima volta, allora, diventa semplice se davanti si ha un esempio di sodalizio indissolubile che risale a duemilacinquecento anni fa: chiamarlo matrimonio o convivenza, tanto per rimanere nell’attualità, non rientra nei termini della discussione, visto che da quella terracotta emerge qualcosa di infinitamente più profondo e assoluto. Lei, sdraiata sul triclinio (anzi, il kline, il letto conviviale etrusco), si appoggia dolcemente (ma con sicurezza) sul petto del suo compagno e sorride. Lui, sdraiato dietro di lei, la cinge con un braccio e sorride anche lui. Nelle mani, protese verso il visitatore, non c’è più nulla del ricco corredo che completava il sarcofago.

    Un tempo erano vini pregiati che la coppia innalzava in un brindisi prima dell’ultimo viaggio, oggi non rimane altro che le mani vuote e dei sorrisi indecifrabili sui volti di questi due innamorati etruschi. Lui sembra quasi che ce la stia presentando: «Guardate come siamo felici, la morte non ci fa paura».

    Il Sarcofago degli Sposi ci ha messo pochissimo a diventare uno dei simboli del Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia e il suo cimelio più cercato durante tutte le visite. Del resto, oltre a essere un frammento eclatante della raffinatezza di questa antica civiltà, emerso fra i tumuli della necropoli della Banditaccia a Cerveteri (gita fuori porta consigliatissima), il sarcofago in questione è anche un’opera d’arte dal valore assoluto, nonché il simbolo, appunto, dell’amore eterno, il più complesso e arduo aggettivo da aggiungere fra quelli indicati qualche paragrafo fa.

    Tanto vale sgombrare il campo a commenti troppo facili o mielosi, però: ci si trova davanti a un’opera arcaica e quegli sposi non hanno pretesa di alcun tipo di verismo. Il sorriso, inoltre - quello stesso sorriso che immediatamente si deve restituire, come in un silenzioso discorso diretto fra visitatore e capolavoro d’arte funeraria etrusca - ha ben poco a che vedere con una qualche, seppur vaga, introspezione psicologica; anche gli stessi tratti della coppia, in realtà, non ne descrivono la vera, reale conformazione fisica, ma sono piuttosto uno stilema, il segno di avvenuti e curati contatti con la civiltà orientale.

    All’epoca, insomma, si sorrideva alla morte e si affrontava con serenità il viaggio verso il mondo ultraterreno. L’addio era siglato da un’ultima festa in cui uomo e donna, in totale parità e secondo tradizione, si trovavano insieme, sdraiati sullo stesso triclinio, pronti a diventare parte della città dei morti alla quale i vivi sarebbero rimasti comunque molto vicini.

    Ai vivi, inoltre, quei due sembrano dire altro ancora: è come se ci comunicassero la loro profonda libertà e la loro grande cultura il che, in virtù di una tecnica artistica consolidata e codificata, assume carattere modernissimo, oltre che, appunto, ideale. Stanno là, due perfetti padroni di casa, morbidi e rigidi allo stesso tempo, ci guardano essendo guardati e si amano ri-amati con lo sguardo rivolto nella stessa direzione, con lo stesso obiettivo, consapevoli che la nuova vita che li attende sarà una copia infinitamente più serena di quella appena lasciata. È la perfezione.

    Il trucco per far durare un amore tramandato attraverso i secoli è custodito in uno scrigno architettonico che già da solo rappresenterebbe la summa di ogni passeggiata amorosa. Dopo la sosta, infatti, si può e si deve procedere all’ispezione ispirata di tutta la raccolta del museo, oltre che dei suoi giardini, progettati da un papa, Giulio III, e poi affidati alla mano sapiente di grandi architetti, con la paziente supervisione di Michelangelo (insolita, se lo stesso Vasari afferma che «né [...] fece cosa alcuna senza il suo (del papa) consenso »). Tutto il disegno della villa, in effetti, è stato studiato nei minimi dettagli dall’uomo che poi l’avrebbe abitata con costanza, almeno un giorno a settimana (e per tutta la durata del suo pontificato), raggiungendola via fiume, dal Vaticano alla via Flaminia.

    Dopo aver pagato il biglietto, si entra in uno splendido cortile a emiciclo che finisce con un magnifico belvedere su un ninfeo appartato (acqua, rocce, felci e pesci rossi).

    Ai lati, due giardini contengono, da sinistra a destra, la sezione dedicata al Sarcofago degli Sposi e la riproduzione ottocentesca (ma filologica) del Tempio di Alatri, realizzata da Adolfo Cozza (il busto del progettista è lì, nello stesso giardino) nel 1891. Lungo le due braccia dell’emiciclo all’ingresso, invece, si accede al resto della raccolta, immensa e curatissima.

    Una volta catturati dal fascino dei vasi, dei corredi funebri, dei gioielli, delle statue, dei bronzi e delle terrecotte le ore volano senza accorgersene, mentre le scarpe consumano centinaia di metri. Ma si esce sognanti e appagati. Sulle labbra lo stesso sorriso dei due amanti di Cerveteri, nel cuore - chissà - una scintilla d’amore.

     3.

    PASSARE UN POMERIGGIO ALLA GALLERIA NAZIONALE D’ARTE MODERNA

    Ti aspetti quasi di sentire il rumore degli zoccoli dei cavalli attaccati a una botticella che si avvicina, tanto il colpo d’occhio si lascia trascinare da una visuale che fa talmente inizio secolo da sembrare un set cinematografico, una quinta sistemata ad arte per sollecitare memorie di abiti retrò, bastoni da passeggio e ghette. Del resto, questa è una fantasia per nulla malsana se si decide di cedervi in una giornata di sole, quando una visita al candido edificio della Galleria Nazionale d’Arte Moderna, il Palazzo delle Arti, è decisamente consigliata. Unica accortezza, il tempo necessario per abbandonarsi a piaceri d’altri tempi: una passeggiata nei pressi della verde Villa Borghese, una sosta un po’ snob sulla terrazza del caffé del museo (dove si arriva da viale Gramsci) e, infine, la visita alla collezione, come un ultimo, delizioso momento di profondo e totale benessere prima del ritorno alla realtà.

    A dispetto delle sue dimensioni notevoli, del pronao, dello scalone monumentale che si specchia nel suo dirimpettaio di Villa Borghese, qui è facile vivere un’esperienza quasi intima, abbandonarsi al piacere di una camminata lenta fra le opere della raccolta (dall’Ottocento al Novecento, tutta l’arte e la scultura italiana moderna e contemporanea); indugiare sotto un raggio di sole nel dehors del Caffé delle Arti in cui anche i passerotti che vengono a beccare sotto le sedie sembrano parte di questo balletto di raffinatezze, impeccabile portamento e cortesia estrema con cui si viene circondati non appena seduti. Il tutto potrebbe risultare stucchevole in un altro contesto, ma anche l’inevitabile cafonaggine di un certo tipo di clientela attirata da tutte queste prerogative del servizio (con prezzi ovviamente rapportati) sembra quasi annullarsi nella bellezza dell’edificio della galleria che oppone il bianco candido dei suoi muri al sole e al verde tutto intorno. Inoltre, proprio qui, con un metaforico aperitivo consumato in un bar elegante di viale delle Belle Arti, Roma firma un armistizio con il Novecento. Ne accetta le condizioni e la discrezione e gli porge i suoi migliori pini marittimi a suggellare il patto appena siglato.

    Il palazzo viene costruito nel 1911, lo stesso anno dell’Esposizione Universale, quando ancora la città non sa che in fondo dal Novecento verrà tradita; ancora non ha conosciuto il razionalismo dell’Università e dell’EUR, il radicale mutamento del volto del centro storico; ancora non è stata ferita dai palazzinari e dalla cementificazione selvaggia del dopoguerra. Qui ci si ritrova in un luogo in cui l’idillio è appena cominciato, il Nuovo abbassa le armi davanti a una signora anziana ma di rango e si accomoda fra le sue braccia, paziente. La stessa sensazione di pacificazione è percepibile anche passeggiando fra le due sezioni della mostra permanente del museo (il biglietto d’ingresso consente l’accesso anche a quelle temporanee, e ce ne sono sempre di bellissime).

    Certo, non è semplice gustare pitture e sculture ottocentesche dopo aver ammirato i tanti capolavori di Caravaggio e Bernini sparsi nelle chiese e nelle collezioni romane. Spesso l'Ottocento sembra moralistico, a tratti retorico. Ma qui non si fa fatica, ci si rilassa e si procede in un viaggio illustrato che dura un secolo. Fattori, Segantini e poi De Nittis con Le corse al Bois de Boulogne (il sogno parigino entra nei quadri dei pittori italiani, anno 1881) che si incontrano con la cultura europea del tempo, Monet, Le ninfee rosa, Cezanne, Le cabannon de Jourdan, Degas, Dopo il bagno, Courbet, Bracconieri nella neve, Van Gogh, il Giardiniere. Le scene di vita borghese di De Nittis e il primo piano a dominante verde del quadro di Van Gogh, in particolare, si fronteggiano e non è un fronteggiarsi casuale.

    L’arte dell’Ottocento che si avvia verso la modernità più radicale, il passaggio fra due sensibilità diversissime nell’usare tecniche e colori è lì nella stessa stanza. Tutto sembra ruotare attorno alla linea nera di contorno che delimita nettamente il giardiniere ed è invece quasi completamente annullata nell’evanescenza della scena ritratta nel dipinto dell’italiano.

    Come un gomitolo di lana corvina, poi, quella stessa linea nera di contorno sembra snodarsi lungo i corridoi della Galleria, insinuarsi fra i primi futuristi, trasformarsi in gesto eclatante nel Dadaismo di Duchamp, sollecitare le creatività di Guttuso, De Chirico, Savinio e tuffarsi, infine, nelle forme di Capogrossi, Superficie 290, anno 1958.

    Da lì il nuovo corso dell’arte italiana (finalmente) contemporanea prende il via e occupa i suoi spazi: Mimmo Rotella, Vedova, Novelli, Burri, Fontana. Anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso. La contestazione è alle porte. Esplodere, stracciare, bruciare i codici espressivi del passato, tutte le convenzioni, diventa un’urgenza.

    Per acquisire le opere di questi artisti, Giulio Carlo Argan (futuro sindaco di Roma, storico dell’arte di fama indiscussa) e Palma Bucarelli (direttrice esemplare del museo in anni caldissimi) si trovarono spesso davanti a veri e propri tentativi di linciaggio, trasformati in improbabili pietre di uno scandalo vergognoso: il terribile oltraggio all’arte figurativa. I due studiosi non ascoltarono i loro detrattori e continuarono ad acquisire, a comprare, a conservare ciò che oggi è una raccolta meravigliosa e vastissima di cui si consiglia di seguire il percorso con criterio cronologico. Solo così, infatti, si avrà massima e piena soddisfazione nel vedersi scorrere i decenni davanti, in un candido palazzo d’inizio Novecento, fra comodissimi divani di velluto e raffinate boiseries, persi in un sogno inizio secolo.

     4.

    CONOSCERE LE STORIE DEL FIUME E DELLA SUA ISOLA

    Fiume bojaccia, fiume morto, infido e zozzo. Fiume occultatore di tesori archeologici (anche se agli occhi della Roma popolana il gioiello più prezioso che il Tevere s’è ingoiato sono le spoglie incendiate del galleggiante de Er Ciriola a Ponte Sant’Angelo, simbolo della capitale allegra che affrontava il dopoguerra, memoria di quando la città era «povera ma bella»).

    Quante gliene dicono al fiume di Roma. Che sta lì ad agonizzare; che puzza d’estate quando la canicola si abbatte sulle sue acque; che non serve a nulla, se non a far divertire i quattro gatti dei circoli di canottaggio; che è soltanto un ricettacolo di topi e malattie. Solamente a respirarne i miasmi c’è da ammalarsi, non sia mai che poi ci si finisca dentro, sarebbe morte certa, senza possibilità di scampo. È finita l’epoca dell’idillio perfetto fra la città e il suo amato (ancorché bizzoso) fiume, finita l’era dei mulini, dei porti di Ripa Grande e di Ripetta, delle lavandaie e dei barcaroli. È finita pure l’epoca degli straripamenti, quando il fiume esciva fori con una piena assassina che sommergeva argini e strade, case e chiese, ponti e palazzi, lasciando mota e morti da piangere dappertutto. Finiti i tuffi dai barconi e le giornate alla Renella, la spiaggetta trasteverina; finita la marana, immortalata per sempre dall’Alberto Sordi di Un giorno in Pretura.

    Oggi il Tevere, che una volta si infilava nei meandri di Roma facendola inequivocabilmente sua, sembra destinato a essere soltanto un elemento in più della capitale, un placido accessorio che scorre melmoso e giallognolo sotto le auto che intasano i lungoteveri prossimi al collasso. Si dice che la colpa di questo progressivo ritirarsi del fiume dalla città sia tutta dei muraglioni, per quanto eretti a sua difesa da quasi due secoli.

    Eppure ci fu un’epoca in cui quelle acque facevano da confine fra l’Urbe che si era sviluppata sulla riva sinistra e Trastevere, luogo di malaffare, da cui tenersi lontani. Nasce proprio da questa separazione l’orgoglio degli abitanti del tredicesimo rione di Roma, quel sentirsi noantri (noialtri) rispetto ai voantri (voialtri) nati sulla sponda fortunata. E non è un caso che proprio la Festa, appunto, de Noantri sia nient’altro che un omaggio (un po’ imbastardito ultimamente) a quel fiume che li separava dal mondo, ma che una volta era stato adorato come un dio, e ai fiumaroli, i suoi sacerdoti. Già, perché non è possibile parlare di Tevere senza menzionare questa speciale casta di romani per cui il fiume rappresenta tutto: la vita, lo sport, il divertimento, l’amore. Erano canoisti e canottieri, pescatori o semplicemente amanti del nuoto e a fiume ci passavano la vita. Erano le memorie viventi di un’esistenza d’acqua dolce, quasi impossibile da ritrovare nella Roma di oggi.

    Fortunatamente, dal 23 aprile 2003, il Comune ha istituito una mini flotta di traghetti che accompagnano in crociera i visitatori lungo due tratte, da Ponte Duca d’Aosta all’Isola Tiberina e da Ponte Marconi a Ostia Antica. È l’ultimo morso di vita fiumarola che si può ancora addentare, per il resto è tutto affidato alla buona volontà di chi si dedica alla riscoperta di questo corso d’acqua; di chi se ne va a passeggiare sugli argini (sfruttando il lungo percorso ciclabile che da Castel Giubileo accompagna fino a Porta Portese) in una giornata di sole; di chi si sente attratto dalla storia dei ponti che lo scavalcano.

    A cominciare da Ponte Cavour, anche conosciuto come ponte dei suicidi da quella notte maledetta del 9 luglio 1890, quando Augusto Formilli gettò dalla Passerella del porto di Ripetta sua moglie Rosa Angeloni. Fu un piccolo episodio di cronaca nera capitolina, ma ebbe un enorme impatto sui romani, tanto che proprio quell’affaccio fu eletto da molti a luogo deputato per morire, una fama che, secondo la proprietà transitiva, passò al neonato ponte (edificato nel 1901 in sostituzione della passerella). E chissà che non abbia a che fare proprio con questa triste usanza l’insolito spettacolo del belga Mister Okay, che ogni capodanno si tuffava a volo d’angelo proprio da lì, ignorando, probabilmente, la carica apotropaica di un gesto così atletico.

    Il ponte per eccellenza, però, a Roma è solo uno. Si chiama Ponte Sant’Angelo (è talmente tanto Il Ponte di Roma da aver prestato questo nome anche al rione di cui è avanguardia) e da qui passava tutto il traffico da e per il Vaticano. Insomma era uno di quei luoghi simbolo della Roma sparita. Qui veniva alzato il patibolo per le esecuzioni officiate da Mastro Titta; qui si veniva a comprare il pesce la mattina; qui si andavano a chiedere favori e preghiere ai preti che, una volta, di Roma erano i padroni; qui durante l’antichità c’era l’ingresso alla tomba dell’imperatore Elio Adriano. E qui, infine, si concentrò gran parte del traffico del primo Anno Santo, nel 1300, un evento di portata immensa, istituito da Bonifacio VIII e citato anche da Dante nel diciottesimo canto del suo Inferno. La prova storica di tanta centralità sta tutta nelle dieci statue che il Bernini e la sua scuola furono chiamati a scolpire per decorarlo. Dieci angeli maestosi che nel 1667 Clemente IX commissionò per rappresentare la Passione di Cristo. Erano stati realizzati da collaboratori diversi e sul basamento di ognuno erano stati incisi i versetti che descrivevano le fasi della salita al Calvario.

    Ma se Ponte Sant’Angelo spicca per monumentalità è a Ponte Sisto che bisogna andare per godere dello scorcio migliore. Lo si incontra all’altezza di Palazzo Spada, sul finire di Lungotevere dei Tebaldi, zona piazza Farnese. Fino all’ultimo giubileo era ancora ricoperto da una sovrastruttura metallica che gli avevano applicato nel 1877, ma oggi incanta con le sue forme quattrocentesche volute da Sisto IV finalmente libere. All’epoca fu un capolavoro, con la sua insolita pendenza a schiena d’asino e l’occhialone, il foro praticato nel pilone centrale, che da secoli misura la pericolosità delle piene del fiume. Sull’altra sponda si stende Trastevere, poco più avanti, invece, il Tevere regala uno dei suoi luoghi più incantati: l’Isola Tiberina.

    Come un’enorme nave di pietra, l’isola fende la corrente e i secoli, dando vita a un microcosmo unito alla capitale da ponte Cestio, alla cui costruzione intervennero ben tre imperatori, e Ponte Fabricio, ancora integro dal 62 d.C.. Un microcosmo in cui spiccano l’ospedale; il Castello Caetani, una delle poche costruzioni medievali superstiti a Roma; una farmacia d’epoca di indubbio valore storico e architettonico; una chiesa antichissima e il ristorante dell’indimenticabile Sora Lella Fabrizi.

    L’ospedale, tra i punti paesaggistici più emozionanti di Roma, tanto che varrebbe quasi la pena di simulare un malore per farsi ricoverare nei reparti altrimenti inaccessibili a chi non ha malati cui far visita, non sta qui per un caso. Si incontra, infatti, sul luogo in cui, circa tre secoli prima di Cristo, si trovava il tempio dedicato a Esculapio, dio protettore della salute e della medicina. La stessa forma dell’isola ricorda la fondazione di quel tempio nato, come sempre per volontà divina, mentre una commissione di sapienti - che cercava soluzioni per risolvere una grave pestilenza abbattutasi sulla città - faceva ritorno a Roma in nave, portando alcuni dei serpenti sacri di Esculapio. Successe che uno dei rettili fuggì, andandosi a rifugiare fra la vegetazione dell’isola e la barca si incagliò sulle sue rive. Tanto bastò. Da quel momento il terreno fu consacrato al dio e, giusto per essere sicuri, anche i resti della nave vennero inglobati sotto i lastroni di travertino che dovevano simulare le linee dell’antico bastimento.

    Un particolare paesaggistico completa il quadro. È l’ultimo troncone rimasto di Ponte Senatorio, più tardi chiamato Ponte Santa Maria e adesso, molto più umilmente, Ponte Rotto. Esisteva già dall’epoca di Augusto, visto che l’imperatore ne curò un primo restauro. Poi fu un susseguirsi di crolli e riparazioni, finché un’ultima, rovinosa piena se ne portò via la metà e il ponte fu lasciato al suo destino, inconsapevole monumento allo spirito del fiume: amico, amante, dio, ma sempre inaffidabile e sbruffone. Tanto che proprio uno dei fiumaroli più famosi di Roma, Eugenio Cornacchia, poeta, sportivo e grande romano, descrivendo in rima l’amato fiume, nel 1978 ammoniva:

    Ricordete che er fiume vede e sente

    e l’urtima parola è sempre sua

    Se dici li mortacci sotto ar ponte

    subito l’eco t’arisponne: «li tua... aaa...»

    Pure se l’aribatti dentro ar sonno

    Lui t’aripete sempre «e de tu’ nonno... ooo!!!».

     5.

    AMARE LA MUSICA ALL’AUDITORIUM

    Pareri di esperti, statistiche e sensazioni per una volta sono d’accordo. Roma sta conoscendo un periodo di rinnovamento e rinascimento culturale senza precedenti. È una trasformazione graditissima che finalmente avvicina alle altre capitali europee una città che, a forza di sentirsi eterna, rischiava l’immobilismo e il lento declino sopra il suo immenso patrimonio archeologico e artistico.

    Complice e simbolo di una mutazione tanto importante per la capitale è stata la musica, per cui mancava uno spazio appositamente pensato e adeguatamente attrezzato che portasse le note anche fuori dalle sale dell’Accademia di Santa Cecilia, il Conservatorio. Serviva, insomma, un auditorium in piena regola. Cinque anni prima del Giubileo del Duemila, quindi, si cominciò a costruire ciò che è oggi il Parco della Musica. Autore del progetto l’architetto Renzo Piano, cui appartiene l’idea di utilizzare grandi spazi per un luogo dedicato alla buona musica ben amplificata, ma che fosse godibile anche a prescindere, come perno della vita quotidiana dei quartieri a nord del centro storico. Una specie di nuovo polo culturale, fruibile anche al di là dei concerti, innestato nella zona fra i Parioli, il Flaminio, il Villaggio Olimpico e Villa Glori, con sale per le esibizioni, un teatro, zone dedicate alle prove e alle registrazioni, una cavea all’aperto, un museo, una libreria, bar, uffici e un giardino pensile di quasi quarantamila metri quadri, aperto al pubblico tutti i giorni, per tutto il giorno.

    È stata un’opera gigantesca, che però ha regalato alla città quasi un nuovo quartiere e un intervallo più dolce nel passaggio dalla zona residenziale di Tor di Quinto alla monumentalità del centro storico. Il tutto senza stravolgere il colpo d’occhio sul verde di Villa Glori, senza inutili invasioni di campo in un’area ancora piuttosto libera dalla cementificazione. La soluzione è rappresentata dai gusci pensati da Piano i quali, grazie a una forma che restituisce echi di antichi liuti, dialogano con la natura vicina e si crogiolano al sole romano. Intorno, e su una superficie di oltre cinquantamila metri quadri, si snodano tutti gli spazi previsti dal progetto iniziale e i viali di questo borgo musicale dal volto contemporaneo, ma per nulla alieno alla città.

    L’Auditorium

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