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Il supplente di matematica
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Il supplente di matematica

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Un brutto giorno, come in un terribile incubo, un informatico scopre che la cosa che riteneva più importante è diventata improvvisamente polvere. Licenziato dalla propria azienda, si ritrova, non più giovane e pieno di rimpianti, a dover fare i conti con l'arte dell'arrangiarsi e con il difficile ritorno, come supplente di matematica, in una scuola. Timoroso, privo di stimoli e con l'incertezza connessa alla situazione imprevista e precaria che la vita gli ha posto di fronte, inizia la sua nuova avventura, quella di fronteggiare dei ragazzi casinisti, intenzionati a fare chiasso e divertirsi alle spalle del povero supplente di turno. Segnato dagli avvenimenti, avvolto in una specie di vortice di sentimenti negativi, rancoroso nei confronti della politica e della società italiana, nonostante gli sforzi, non riesce a concentrarsi sulla matematica e le lezioni diventano motivi di sfogo. Più che lezioni sono riflessioni, quelle di una persona che vive quotidianamente i problemi, e così invece di parlare di teoremi, nomi e formule, finisce per trattare argomenti di attualità aventi per sfondo una visione di società sempre più disuguale e per cornice un'Italia ben diversa da quella che, nel bene o nel male, è prospettata dalla politica, dalla televisione e dai giornali. Non interroga, non da compiti a casa e non spiega, per questo inizia a piacere agli studenti e man mano si fortificherà un rapporto che sarà destinato a durare nel tempo, anche al di fuori della scuola, ma, per lo stesso motivo, sarà risolutamente osteggiato dall'influente professoressa d'italiano, per nulla disposta ad accettare un supplente così fuori dagli schemi e lontano dal sistema scolastico che lei ben rappresenta Le ore passate con i ragazzi, in qualche modo sconosciuto e incomprensibile, gli trasmettono allegria e buonumore e lo aiutano a evadere dalla realtà in cui si era rinchiuso e da quello spirito critico che lo tagliava fuori da qualunque rapporto con il mondo. Cosi quella breve supplenza, che poteva sembrare nulla, infine diventerà determinante e farà volgere il destino verso un esito inatteso e inimmaginabile.
LanguageItaliano
Release dateMay 8, 2020
ISBN9788835823902
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    Il supplente di matematica - Giuseppe D'Angelo

    IL SUPPLENTE DI MATEMATICA

    di Giuseppe D'angelo

    Prima edizione: luglio 2019

    Tutti i diritti riservati 2019 ©BERTONI EDITORE

    Via Giuseppe di Vittorio, 104 - 06132 Chiugiana  (Perugia)  

    Bertoni Editore 

    www.bertonieditore.com

    info@bertonieditore.com    

    È vietata la riproduzione anche parziale e con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la copia fotostatica se non autorizzata

    Giuseppe D'angelo

    IL SUPPLENTE DI 

    MATEMATICA

    A chi persegue il bene comune senza brame di potere o di ricchezza.

    Introduzione

    La vita è strana, è come un viaggio su una zattera malridotta che al primo incresparsi delle onde può naufragare. Così, dopo un’onda altissima, imprevista e violenta, un brutto giorno, un informatico scopre che la cosa che riteneva più importante è diventata improvvisamente polvere. Licenziato dalla propria azienda, si ritrova, non più giovane e pieno di rimpianti, a dover fare i conti con l’arte dell’arrangiarsi e con il difficile ritorno, come supplente di matematica, in una scuola.

    Timoroso, privo di stimoli e con l’incertezza connessa alla situazione imprevista e precaria che la vita gli ha posto di fronte, inizia la sua nuova avventura, quella di fronteggiare dei ragazzi casinisti, intenzionati a fare chiasso e divertirsi alle spalle del povero supplente di turno.

    Segnato dagli avvenimenti, avvolto in una specie di vortice di sentimenti negativi, rancoroso nei confronti della politica e della società italiana, nonostante gli sforzi, non riesce a concentrarsi sulla matematica e le lezioni diventano motivi di sfogo. Più che lezioni sono riflessioni, quelle di una persona che vive quotidianamente i problemi, e così invece di parlare di teoremi, nomi e formule, finisce per trattare argomenti di attualità aventi per sfondo una visione di società sempre più disuguale e per cornice un’Italia ben diversa da quella che, nel bene o nel male, è prospettata dalla politica, dalla televisione e dai giornali.

    Non interroga, non da compiti a casa e non spiega, per questo inizia a piacere agli studenti e man mano si fortificherà un rapporto che sarà destinato a durare nel tempo, anche al di fuori della scuola, ma, per lo stesso motivo, sarà risolutamente osteggiato dall’influente professoressa d’italiano, per nulla disposta ad accettare un supplente così fuori dagli schemi e lontano dal sistema scolastico che lei ben rappresenta.

    Le ore passate con i ragazzi, in qualche modo sconosciuto e incomprensibile, gli trasmettono allegria e buonumore e lo aiutano a evadere dalla realtà in cui si era rinchiuso e da quello spirito critico che lo tagliava fuori da qualunque rapporto con il mondo. Così quella breve supplenza, che poteva sembrare nulla, infine diventerà determinante e farà volgere il destino verso un esito inatteso e inimmaginabile.

    La vita è strana, è talmente imprevedibile che anche le cose più incredibili possono avverarsi e così i nuvoloni neri, che minacciosi si erano addensati, improvvisamente si scostano, si spalancano e aprono il sipario su nuovi e promettenti scenari, apparentemente più belli, gioiosi e festosi.

    Primo giorno

    La bella Italia

    Ho varcato nuovamente la soglia della sala dei professori sotto lo sguardo curioso e i mormorii di due professoresse, sedute intorno a un tavolo ovale, l’unico mobile ingombrante dell’ambiente disadorno. L’ultima volta era accaduto parecchi anni prima, quando, appena laureato, avevo insegnato matematica in un liceo scientifico e in un istituto magistrale. Allora gli sguardi erano diversi. Le studentesse del magistrale, con gli stratagemmi più strani, passavano, con sorrisi civettuoli, davanti alla porta della sala dei professori per sbirciare rapide e furtive il giovane supplente appena arrivato. Anch’io ero diverso, pieno di buoni propositi e desideroso di mettermi in gioco, con tanto entusiasmo e voglia di fare. Invece questa volta, nella sala semideserta, talmente lunga e stretta da sembrare ricavata da un pezzo di corridoio, mi sentivo un disilluso in attesa dell’inizio di una lezione dove gli studenti avrebbero fatto di tutto tranne che ascoltare. Per loro sarei stato solo l’ennesima occasione per fare chiasso e divertirsi alle spalle del povero supplente di turno.

    Ho accennato un saluto sollevando appena la mano e ho pensato: Sicuramente si staranno chiedendo come mai, alla mia età, sono ancora supplente. E infatti la professoressa più giovane mi ha guardato di sottecchi e, con voce non sufficientemente bassa per nascondere le parole, ha commentato: «È più grande di me e fa ancora il supplente.» L’altra ha alzato gli occhi dal libro che stava leggendo e mi ha guardato più attentamente. Poi con un sorriso d’angelo ha bisbigliato: «Sarà il solito sfigato precario…» e ha aggiunto qualcos’altro che non ho compreso, forse sul mio aspetto.  

    Imbarazzato, d’istinto, mi sono passato la mano sulla barba non fatta e ho pensato: Capisco che con la barba lunga di qualche giorno, a prima vista, potrei non ispirare la migliore considerazione, ma addirittura essere oggetto di dicerie! Eppure non mi sentivo granché cambiato da quel giovane supplente che veniva spiato e ammirato con curiosità dalle studentesse del magistrale. Il tempo era passato così velocemente che il mio animo non aveva fatto in tempo a invecchiare. 

    Mentre nervosamente mi aggiravo per la stanza, su e giù come un’anima in pena, sperduto e incerto, la professoressa con il sorriso d’angelo ha continuato a squadrarmi minuziosamente dalla testa ai piedi, come se, con la coda dell’occhio, fosse in grado di fare una radiografia a raggi x, prendere le misure e penetrare dentro di me alla ricerca di qualche indizio che le suggerisse che tipo fossi. 

    Sotto il suo sguardo di ghiaccio, mi sono sentito nudo e giudicato. Mi sono detto: È vero che negli ultimi mesi sono diventato un po’ disordinato e un po’ trasandato. Ammetto che un brutto giorno delle circostanze negative mi hanno fatto diventare pigro e mi sono accorto di non avere più tanta voglia di curare la mia immagine, però mai mi sarei aspettato di essere oggetto di derisione e di trovarmi in una condizione di disagio come questa.

    Solo qualche mese prima avrei affrontato la situazione. Mi sarei avvicinato per presentarmi e, usando l’abilità di comunicazione che avevo acquisito dopo anni di esperienza nel mondo lavorativo e nei rapporti umani, avrei sorriso, scherzato e fatto il simpatico. Ma negli ultimi tempi le mie capacità si erano dissolte in una specie di vortice di sentimenti negativi che mi girava dentro e mi tagliava fuori da qualunque rapporto con il mondo e così ho desistito e per liberarmi dagli sguardi invadenti, sono andato via, uscendo nel corridoio.

    Là, al riparo dalle critiche, mi sono tranquillizzato e mi sono dato coraggio: Sciocchezze, è inutile dare troppo peso al pensiero della gente, l’opinione altrui non mi tocca e non mi preoccupa. Non è il caso di farmi rovinare la giornata da inutili pettegolezzi. 

    Poco distanti, due studentesse stavano parlando. 

    «Mi trovi ingrassata?» ha chiesto quella più alta.

    «No» ha risposto l’altra.

    «Sei sicura? Dài, dimmelo se sono ingrassata» ha insistito «siamo amiche, di te mi fido.»

    «E va bene, se proprio te lo devo dire… allora un po’ sei ingrassata.»

    «Ma stai zitta, nana!» Offesa mi è passata davanti infuriata. 

    Ho pensato: Accidenti! Come sono diversi i ragazzi di oggi, ma li saprò gestire e capire? Mi sa che mi aspettano giorni difficili. Di colpo, sono stato assalito dai dubbi: Ma chi me lo ha fatto fare a mettermi in questo impiccio? Avrò fatto bene ad accettare questa supplenza dopo tanti anni che avevo deciso di abbandonare l’insegnamento? 

    Mi sentivo come un naufrago che, dopo aver annaspato in tutte le direzioni, giunge su un atollo privo di vegetazione. Ho pensato: Questa supplenza non sarà il massimo, comunque è sempre meglio che stare in casa inchiodato a guardare la tv, tutto il giorno, con il tempo che non passa mai. Meglio qui all’asciutto su quest’isola deserta che in mare a dibattersi fra le onde. E poi, ormai, è troppo tardi per ripensarci.  

    Il suono della campanella, di colpo, ha interrotto i miei pensieri e mi ha gettato in uno stato di profonda agitazione nervosa. Cercando conforto, mi sono incitato: Dài che oggi inizia una nuova avventura e quando finirà potrò dire che è stata dura ma, almeno, è servita a fare qualcosa di buono. 

    Il corridoio, in un attimo, è stato invaso da una frotta minacciosa di ragazzi urlanti. Mi sono avviato verso l’aula con il boato di voci giovanili che diventava sempre più assordante man mano che mi avvicinavo.

    Entrato in classe, nella confusione, nessuno mi ha notato. Mi sono seduto in cattedra e ho aspettato ma, come se fossi invisibile, nulla è cambiato. D’improvviso mi sono sentito inadeguato, inadatto e inopportuno, la persona sbagliata nel posto sbagliato. 

    A quel punto ho chiesto silenzio ma neanche sono riuscito a sentire il suono delle mie parole. Il cuore ha iniziato a martellare e mi ha invaso la paura di non farcela, di non essere all’altezza, di non riuscire a gestire i ragazzi, di trovarmi di fronte a compiti troppo grandi. Si è fatto forte il timore di non avere le capacità necessarie e lo stato d’animo giusto per affrontarli, di non essere sufficientemente bravo e preparato. 

    Poiché il panico stava salendo sempre di più, mi sono detto: Bada che i ragazzi fiutano la paura e per cercare di uscire da quello stato ansioso in cui ero caduto, ho guidato i pensieri altrove. Ho provato a riportarli indietro nel tempo, a ricordare la mia precedente esperienza nella scuola, quella di parecchi anni prima, come giovane supplente appena laureato. Mi sono sforzato di rimanere in silenzio: Se inizio a urlare peggioro la situazione. Ho ricacciato indietro gli urli, li ho trattenuti fino a quando mi sono arrivati sulle tempie, infine ho battuto con violenza il pugno sulla cattedra e solo così si è generata una tregua in quel frastuono di parole pronunciate ad alta voce, risate e grida di ragazzi in fuga ululanti come indiani, inseguiti da altri al galoppo come cowboy.

    Ho approfittato dell’attimo di pausa per fare l’appello senza, peraltro, riuscire a memorizzare alcun nome dei presenti.

    La classe non era numerosa, forse a causa della selezione avvenuta nei primi anni, e ciò era sicuramente un bene, però le ragazze, di norma le più tranquille, erano in numero abbondantemente inferiore. 

    Rivolgendomi ai ragazzi dei primi banchi, che sembravano più calmi, ho detto: «Sono qui a sostituire il vostro professore di matematica per un paio di settimane.» Ho fatto una pausa per osservare l’effetto delle mie parole e poi ho ripreso: «Forse è il caso di decidere insieme come impiegare al meglio questo tempo. Abbiamo varie possibilità: potremmo ripetere alcuni punti del programma che non avete compreso oppure andare avanti, così vi troverete avvantaggiati quando rientrerà il vostro professore.» Fingendo di essere calmo e tranquillo, ho chiesto: «Allora cosa dite?»

    Nessuna risposta. 

    Ho pensato: Mi stanno studiando, cercano di capire che tipo sono. Cercano di capire se possono fare casino oppure se devono stare tranquilli, in silenzio. 

    Nervosamente, ho iniziato a sfogliare il libro di testo e, casualmente, mi è capitata davanti la pagina degli integrali. Intimorito, l’ho subito richiuso. Dopo tanti anni passati senza aprire un libro di matematica tutto quello che sapevo era finito nel dimenticatoio. Allora, atteggiandomi a docente distaccato e comprensivo, magnanimo e generoso, ho buttato là un’altra proposta: «Poiché non vi vedo molto interessati e dato che staremo insieme solo pochi giorni, potrei anche darvi la libertà di fare quello che volete, purché rimaniate in silenzio e senza disturbare.»

    Non l’avessi mai detto, sono letteralmente esplosi in un fragore di applausi e in un boato di grida pazzesche di approvazione. Nel trambusto di cori e schiamazzi isterici di contentezza, in prima battuta, mi sono sentito sollevato di non dover fare la lezione di matematica ma, subito dopo, osservando i comportamenti sempre più scomposti dei ragazzi, mi è sorto un timore, ben più serio, quello di non avere le capacità per affrontare, mantenere e gestire una classe così scatenata. Ho pensato: Purtroppo un supplente non può contare sull’autorità del professore di ruolo e il rispetto se lo deve guadagnare.

    Nella confusione più totale, un ragazzo dai capelli rossi, talmente folti, scomposti e accesi da non passare inosservato anche a centinaia di metri di distanza, ha preso il libro del compagno di banco e l’ha lanciato, senza motivo, dall’altra parte della classe, dove stavano sedute le ragazze. 

    Mi sono detto: Ecco, ci mancava solo il bullo. E ora cosa dovrei fare? Scrivere una nota sul registro non serve a nulla, sarebbe controproducente, un’ammissione di debolezza, farebbe capire ai ragazzi che non sono capace di mantenere l’ordine. Non guadagnerei alcun rispetto, anzi, ammesso che ne avessi un poco, lo perderei definitivamente. 

    Allora, armato di pazienza, mi sono alzato dalla cattedra e mi sono avvicinato al banco dell’aspirante bullo. Aveva lo sguardo troppo intelligente perché si potesse definire un semplice bullo, piuttosto sembrava uno pieno di sé, uno che cerca di imporsi sugli altri, uno spaccone cui piace sottomettere il più debole, in quel caso, lo sfortunato supplente di turno, cioè io. Ho pensato: Se fosse così non sarebbe grave, basterebbe dimostrargli che il supplente, questa volta, è duro e fermo. 

    Per sussurrargli all’orecchio mi sono avvicinato poggiando entrambi i palmi delle mani sul banco e, a bassa voce, gli ho detto: «La prossima volta che vuoi gettare un libro...» i ragazzi dei banchi adiacenti si sono zittiti per cercare di sentire cosa stavo dicendo «... mettiti un turbante in testa sennò con i capelli che ti ritrovi, puntualmente, ti farai beccare.»

    Il ragazzo, per nulla turbato dalle mie parole, ha sorriso beffardo, con un risolino quasi di sfida. Allora l’ho preso sottobraccio e l’ho fatto alzare: «Sei bravino, ma ti mancano le basi. Non ti preoccupare, ci sono io ad aiutarti. Vieni che t’insegno come fare casino senza essere scoperti.» 

    Mi sono seduto al suo posto e ho continuato: «Bene, proviamo. Visto che non ci riesci da solo, ti faccio vedere come si fa!» Altri ragazzi, vedendomi seduto nel banco del compagno, incuriositi dall’insolita scena, hanno smesso di schiamazzare. «Allora, tu sei il professore e tra dieci secondi ti volterai verso la lavagna per scrivere. Ecco così, bravo, lentamente.» 

    Ho aspettato che il ragazzo fosse completamente girato poi ho preso il suo libro e l’ho scaraventato contro la cattedra.

    Sul tonfo del libro contro il pannello della cattedra anche il vociare degli altri esagitati si è placato e l’intera classe si è magicamente ammutolita.

    Il ragazzo, che non si aspettava nulla del genere, vedendo il suo libro, mezzo distrutto a terra, d’istinto, si è lamentato ad alta voce: «Che palle prof, il libro nuovo.»

    «Ti ho sentito, non va bene, ancora non ci siamo, non si dice che palle a un professore. Sennò ti prendi una nota e fai la figura dello sciocco. Aspetta, vengo, così ti mostro.»

    Mi sono alzato dal banco e avvicinato al ragazzo. Seduto, sembrava più basso e invece, ora che l’avevo davanti, ho potuto costatare che era alto quanto me. Con la sua faccia a pochi centimetri dalla mia, tanto da sentire il suo alitare, ho ripetuto la sua esclamazione dosando opportunamente il tono della voce. Poi ho spiegato: «Che palle prof va detto più basso. Detto basso, il professore non potrà mai sentirti. Ripeti con me, sottovoce... Che palle prof

    Il ragazzo anziché ripetere si è abbassato per raccogliere il libro. Allora gli ho detto: «Okay, non vuoi ripetere, non me la prendo, ma devi allenarti, lo farai stasera a casa, perché per diventare un buon casinista ci vuole impegno e molta dedizione.»

    Con calma ho ripreso il mio posto in cattedra e, fingendo profonda delusione, ho detto: «Eh no, non ci siamo. Qui c’è ancora parecchio da imparare. Ai miei tempi, i professori li portavamo al punto in cui non sapevano più che pesci prendere, sotto il naso gli facevamo di tutto, fino a renderli confusi, esasperati e tormentati. C’era un momento preciso per la beffa e il non essere scoperti la rendeva ancor più divertente. Che fine ha fatto tutto quel nostro sapere? Possibile che negli anni è andato perduto? Io non ero per niente bravo, a malapena raggiungevo la sufficienza, ero senza infamia e senza lode, eppure, rispetto a voi, potrei essere considerato il gran maestro dei casinisti.»

    Con quel discorsetto avevo voluto far passare, implicitamente, un semplice messaggio: Guardate che in mascalzonate il più esperto sono io, state quindi molto cauti qualora intendiate disturbare e fare casino.

    Sotto a un banco, poggiato sui libri, ho notato un giornale. Non ricordavo il cognome del ragazzo ma il nome sì: «Tonino, ti chiami così, vero? Per favore, mi porti il tuo giornale?»

    Prima di aprirlo e iniziare la lettura, mi sono guardato intorno.

    L’abbigliamento degli studenti, molto ricercato, non mi ha sorpreso, essendo la scuola posta in uno dei migliori quartieri della città. L’aula, invece, lasciava molto a desiderare per il suo pessimo stato. Un cartone era incollato sul vetro di una finestra per sopperire al vuoto creato dalle sudicie tende, strappate in più punti. Ho pensato: Sicuramente negli ultimi anni nulla delle tasse pagate dagli italiani è finito in questa stanza. Sulla parete alla mia sinistra, macchiata da scarabocchi e da vaste zone nere d’umidità, era appesa una vecchia lavagna priva di cancellino, sostituito da un pezzo di lenzuolo. La cattedra e i banchi mostravano i segni degli anni di utilizzo e, ancor peggio, le vecchie sedie di ferro che, per ridurre i rumori, avevano ai piedi delle palline gialle da tennis. Mi sono detto: E questa sarebbe la buona scuola sponsorizzata dai politici?  

    L’attenzione mi è caduta su un banco anomalo, in fondo all’aula, isolato e vuoto, con una sedia diversa, di plastica bianca, simile a quelle del bar di fronte la scuola. Inspiegabilmente, non si accodava a nessuna fila e stonava con tutto il resto.  

    Ho abbassato gli occhi e mi sono concentrato sul

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