Arancione
By Marco Perino
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Book preview
Arancione - Marco Perino
Davide
- Fra il Lilla e il Viola -
Prima che il seno faccia male, prima di mal di testa e nausea e ciclo che non arriva e...
Una donna lo sa.
Sa quello che un uomo non potrà mai capire!
Maledetti uomini!
Compra il test al supermercato.
Allineati sullo scaffale ce ne sono di diverse marche e prezzi.
Quello con in copertina un bel pancione, indossato da una mamma di almeno trent’anni con un sorriso smagliante?
Scartato!
Non c’è proprio niente da ridere.
Prende in mano una confezione che è lì nel mezzo a farsi i cavoli suoi, una foto del coso bianco e blu che avrebbe avuto in mano e fra le gambe dopo l’acquisto.
Davanti un semplice ‘test di gravidanza rapido’, e dietro poche righe:
‘rileva la presenza di gonadotropina corionica umana (hCG), che compare nell’urina già all’inizio della gravidanza’.
Cose che aveva già letto quando frequentava Fabio, e un ritardo aveva fatto presagire il peggio.
Rimanere gravida di un trombamico non era il massimo, ma fortunatamente il ritardo risultò essere semplicemente tale.
Fabio non l’avrebbe più vista... e non gliel’avrebbe più vista!
Entra in casa, toglie la giacca velocemente, sfila la confezione del coso bianco e blu dalla borsetta.
Apre il terzo cassetto e prende un barattolino di vetro vuoto, quello che una volta conteneva zafferano.
Dopo pochi secondi è seduta in bagno.
Legge brevemente le istruzioni.
Svita il tappo al barattolino e lo riempie di sostanza giallognola.
Non ricorda nemmeno vagamente la polvere che conteneva in origine.
Immerge l’oracolo bianco e blu nel liquido caldo.
Un pensiero vago e lontano: la seconda media.
Lezione di artistica. Mescolare blu e giallo per ottenere il verde.
Nessun verde da osservare qui, ora, nel cesso.
Una linea verticale, fra il lilla e il viola, compare subito.
Se fosse solo una vorrebbe dire che... No.
Eccola l’altra, sottile, più chiara, che quasi ha vergogna a farsi vedere, parallela e inesorabile.
L’oracolo ha parlato.
Maledetti uomini!
- Vibrazioni -
L’aria è calda e frizzante allo stesso tempo.
Impercettibili peli lo raggiungono sul viso, e il loro leggero accarezzare risveglia ricordi sbiaditi di tarassaco, il fiore più diffuso della primavera.
Il fiore giallo che per magia della natura diventa un pappo, un ciuffo di peli bianchi, da soffiare addosso ai bambini nelle prime giornate dove si gioca all’aperto.
Il fiore giallo che lo avrebbe fatto starnutire senza interruzione.
Appena sceso dalla macchina i suoi sensi registrano il profumo di erba tagliata.
Il profumo fresco e verde cerca però di dirigersi al palato, e poi alla gola; se inizia a starnutire non la smette più e allora addio concentrazione, ma soprattutto, addio controllo totale.
In spalla la sacca con il suo preziosissimo carico: l’arco da trentacinque libbre con i suoi sei proiettili dalle penne arancioni, il parabraccio e l’immancabile paradita in cuoio; non sarebbe tornato a casa per una banalissima allergia.
Aveva già indossato un buon antistaminico prima di travasare il caffè dalla moka da due alla sua tazza preferita, vizio a cui per nulla al mondo avrebbe rinunciato.
L'effetto si sarebbe fatto sentire in trenta minuti, il tempo del caffè e del succo monodose alla pera preso con la cannuccia, e il tempo che rimaneva nell’attesa del taxi, che sarebbe passato a prenderlo a breve in piazza Duomo, a un quarto d’ora di cammino.
Il suo appartamento, al secondo piano, in un cortile interno di via Belletti Bona, era in pieno centro di quello che era sempre stato il suo mondo, Biella, ma allo stesso tempo era sufficientemente lontano dalle strade trafficate degli orari di punta.
La posizione della via gli permetteva passeggiate solitarie vicino a via Italia, la via pedonale, senza mai percorrerla veramente.
Non amava passeggiare in mezzo alla gente.
Non amava incontrare conoscenti, essere salutato e dover salutare.
Preferiva arrivare al Duomo passando da piazza I Maggio, vicino al teatro Sociale.
Percorreva poi la breve via de la Salle sbucando in via San Filippo, dove svoltava a destra nella parte stretta di via dei Seminari.
La strada si risolveva nella piazza dove si sarebbe seduto ad aspettare la macchina.
La aspettava seduto sempre alla solita panchina, quella alla sinistra rispetto all’ingresso del seminario.
Se era occupata stava in piedi lì di fianco, fino ai soliti due colpi di clacson di Maurizio, che mai si sarebbe permesso di chiamare taxista... era Maurizio.
Giorno insolito per arrivare alla struttura del Cedas, dietro al grande stabilimento Lancia di Verrone. Lo si capiva dal posteggio pieno di macchine.
Di solito il sabato era praticamente vuoto, ma oggi, martedì ventiquattro Aprile, era uno di quei giorni che faceva da spartiacque nei centri commerciali fra chi si godeva un ponte e chi no, ed evidentemente qui c’erano molti chi no.
La macchina posteggia fra il circolo sulla destra e i campi da tennis sulla sinistra.
Davide scende e si posiziona a fissare il bagagliaio in un modo educato e impaziente che all’inizio metteva a disagio Maurizio;
il suo imparare in fretta senza fare domande, il convivere discreto con i gesti inconsueti di questo fidato cliente, gli aveva garantito l’appalto.
Una volta scaricata la macchina non occorreva altro.
Sapeva a che ora doveva tornare a prenderlo.
Sapeva che il più delle volte non l’avrebbe né salutato né ringraziato, ma pagato regolarmente... sempre.
Dopo aver attraversato il prato che costeggia tennis e calcetto, Davide raggiunge il tendone bianco, sotto cui impera il lungo tavolo per la preparazione dell’attrezzatura.
Ci sono anche gli altri.
Il maestro, signori, signore, ragazzi, ragazze, e qualcuno di nuovo, come sempre.
Il maestro è buono. Ama questa disciplina e ama farla provare per la prima volta a chi vi si vuole avvicinare con curiosità.
Il maestro è buono. Sa che si sarebbe messo nel lato corto del tavolo, a destra, da solo. Sa che niente e nessuno lo avrebbe distratto, e sa che niente e nessuno doveva provare a distrarlo.
Il maestro è buono. Non lo ha mai mandato a correre e a tirare calci alla palla nel campetto vicino per scaricarsi.
Aveva già capito che, come il tiro con l’arco, anche lui, Davide era implosivo e non esplosivo.
Lo aveva imparato nel corso degli ultimi cinque anni.
Il maestro è buono. Vuole bene a questo arciere che arriva da solo, sta da solo, e ha sempre il cappello da pescatore verde scuro, regalato dal padre, calato in testa.
In cinque anni lo aveva visto passare dall’arco scuola al suo modello da sessantotto pollici col mirino rosso.
In cinque anni lo aveva visto passare, ma in fondo, mai rimanere.
Lui era lì, da solo, con il suo arco.
Grandi rumori di piccoli aerei, risolvevano decolli e atterraggi nel piccolo aeroporto di Cerrione, alla sinistra rispetto alla striscia rigida bianca, sul prato:
la linea di tiro.
Si posizionano tutti per qualche tiro di prova.
Tutti verso il bersaglio di venticinque metri alla destra.
A una decina di metri, da solo, Davide tira a quello di sinistra.
Tira solo a quello di sinistra. Lo sanno. Non si lamenta nessuno.
Tre frecce per volta.
Posiziona i piedi a novanta gradi rispetto alla direzione del bersaglio, che non cerca né con lo sguardo né col corpo. E’ concentrato sulla posizione, sul controllo, sull’eseguire correttamente tutto quanto ha imparato dal maestro, parola per parola, lezione dopo lezione, ripetendo senza mai annoiarsi i movimenti.
Incocca la prima freccia, e finalmente solleva l’estensione del suo braccio sinistro, l’arco, e gira lentamente a sinistra per mirare...
‘Soltanto il capo.
La strada per arrivare al bersaglio è solo rettilinea, e questa strada sarà condizionata dalla spinta, dalla trazione e dal rilascio...’
Davide non sente tutte le frecce già arrivate a bersaglio alla sua destra. Non sente il vociare degli altri arcieri.
Davide non sente che la sua testa, e il ricordo della voce del maestro, con la stessa inflessione del primo giorno, con la stessa punteggiatura
‘...se fai un lavoro ben fatto di ancoraggio...’
ruota leggermente l’avambraccio sinistro spingendo con fermezza il suo arco...
‘...nel momento della trazione ai fini della mira...’
indice medio e anulare della mano destra si agganciano alla corda
‘...la mano deve stare morbida, è la punta delle dita che deve essere rigida...se tiri con l’indice la freccia va alta, con l’anulare va bassa’
tira la corda
‘...se vuoi far centro devi fare un gesto tecnico perfetto, nelle spalle, nei muscoli, nel respiro...’
le spalle sono allineate, la corda è allineata al naso, al mento, all’occhio che mira
‘...al rilascio devi avere un controllo totale, altrimenti la freccia va dove vuole...’
controllo totale
‘...quando scatta il clicker bisogna mollare...scatta quando si è arrivati all’allungo, in sette o otto secondi al massimo e…’
contemporaneamente le tre dita rilasciano la tensione della corda
‘...quando la freccia parte il braccio sinistro deve rimanere immobile, mentre il destro se ne va indietro perché non ha più nulla da trattenere... a quel punto...
...accarezzati la guancia quando rilasci!’
Proprio come allora, con suo padre.
Andavano in strade deserte, in orari da siesta.
Finestrino giù, e vai... seconda, terza, sorrisi e quarta.
«Vai piano. Stai andando bene».
Non ce la faceva a non metterla, la quinta... e subito quel rumore, aggressivo, avvisaglie di un motore con destino rottamazione…
«Davide, la frizione, va lasciata dopo aver cambiato, non prima!»
… e quella carezza, sulla guancia, proprio come allora.
‘...e dalle vibrazioni sul braccio, a quel punto uno sente se ha fatto l’azione pulita oppure no; se accentuata c’è stato un errore nel rilascio...’
La freccia nei primi otto, dieci metri si assesta, va via come un serpente.
Poi un rumore sordo...
...e non c'è più. Non c'è più nulla.
Non c’è più un polline che possa farlo starnutire.
Non c’è più un fiore giallo che diventa pelo bianco che sia trasportato da alcun vento.
Controllo.
Nessuna vibrazione accentuata.
Davide non osserva il bersaglio dopo aver tirato la prima freccia.
Non guarda dove ha tirato.
Osserva la posizione del suo corpo, le sue sensazioni, ascolta i suoi muscoli, il suo respiro.
Incocca la seconda e poi la terza freccia.
Spinta, trazione, rilascio.
‘...accarezzati la guancia quando rilasci...’
Appoggia l’arco nel cavalletto, e si dirige verso il bersaglio per riprendersi le frecce, le sue tre frecce, ignaro che in mezzo al vociare alla sua destra il maestro lo osservava, e aveva osservato le tre frecce conficcarsi nella zona gialla del bersaglio.
Non aveva più insistito, nessuna gara per Davide, non ne voleva sapere e non aveva mai capito perché, ma quei gialli in parte, in piccolissima parte, erano anche merito suo.
Davide rimane sempre e solo per tre ore, e non importa quante volte tirerà.
Non tira mai tutte e sei le frecce della sua faretra. Sempre e solo tre.
Prima di tornare a Biella si concede sempre la merenda con gli altri arcieri; l’unico piccolo rituale di gruppo a cui non si è negato.
Con un torcetto in mano, seduto davanti al tendone, sente due vibrazioni in rapida successione; questa volta non c’entrano nulla con l’arco.
Estrae dalla tasca dei pantaloni il suo smartphone.
Lo sblocca.
Sono le diciassette e dodici.
Scorre velocemente la seconda pagina di quattro.
Vede un piccolo 2 in rosso sopra un’icona verde e bianca.
Apre WhatsApp.
Due anteprime messaggi:
LAURA 11.42
Ho bisogno di parlarti
LUCA 11.44
Mi ha scritto Laura. Come fai a...
Addio controllo totale.
- Una Volta Forse -
Luca fa una leggera pressione verso il basso, sfila il gancio di sicurezza e osserva il portellone numero tre arrotolarsi verso l’alto aprendo la vista all’esterno.
Un cielo grigio a perdita d’occhio si staglia appena fuori dal portellone, lontano dai contorni ben delimitati da strisce gialle del magazzino.
Un leggero senso di libertà arriva ai polmoni che iniziano a inspirare... niente.
Gli occhi hanno illuso il cervello.
E’ soltanto un altro muro, una trentina di metri oltre, che delimita il confine fra il perimetro dello stabile e la zona di transito dei camion.
Avvicina il transpallet.
Non ha fretta.
Davanti a lui, fra il finto cielo grigio e il bancale di legno colmo di cartone, il compattatore.
Uno di quei macchinari che