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Cinquantatré vedute del Giappone
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Cinquantatré vedute del Giappone
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Cinquantatré vedute del Giappone

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About this ebook

Una raccolta di racconti accomunati dal magico mondo del Sol Levante come ambientazione reale o fantasiosa. Cinquantatré “vedute” strettamente personali frutto del rapporto di ognuno degli autori col Giappone, la sua storia,  le sue bellezze, la sua cultura.
Racconti d’evasione, diari di viaggio, sogni, ritratti storiografici, tutti insieme a comporre un almanacco di nipponismo. La lettura di questa raccolta non può che far amare ancora di più il Giappone per chi già lo conosce e di certo stuzzicherà la curiosità di chi non vi ha messo mai piede. 
LanguageItaliano
Release dateMay 3, 2020
ISBN9788835820215
Cinquantatré vedute del Giappone

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    Cinquantatré vedute del Giappone - AA.VV.

    AA.VV.

    Cinquantatré vedute del Giappone

    A cura di Furio Detti e Linda Lercari

    Cinquantatré vedute del Giappone
    AA.VV.
    © Idrovolante Edizioni
    All rights reserved
    Director: Roberto Alfatti Appetiti
    Editor-in-chief: Daniele Dell’Orco
    1A edizione – maggio 2020
    www.idrovolanteedizioni.it
    idrovolante.edizioni@gmail.com

    prefazione

    giappone e nippofili

    Una coppia generatrice frattali rapidamente fuori controllo, che neanche Godzilla durante uno tsunami, dalla A di Akihabara alla Z di Zen... on (vi ho fregati parlando di Go Nagai e dei suoi mostri). Luoghi comuni che comuni non sono affatto, un karaoke di rimandi e collegamenti che Xanadu se li sogna e Borges è ancora fermo alla lettera F di Fuji-san nel suo catalogo da biblioteca infinita. Non è possibile esaurire le storie che germogliano come spiriti nei vicoletti intricati su cui corre una ragnatela di fili elettrici e trasformatori ogni venti metri. Al posto dei Jizo Bosatsu abbiamo le vending machines e la loro così nipponica esuberanza di scelte, bibite dai diecimila gusti e colori.

    Le inarrestabili macchinette che sono diventate oggetto dei miei sogni e delle mie curiosità quando per tre volte sono stato nell’Arcipelago dei kami, ossessionato dalla speranza di esaurire le degustazioni sosta dopo sosta, come una specie di voto religioso. Tra un tempio shinto e un ji buddista tra i tenugui raffiguranti Kannon e Hello Kitty e le campanelle oscillanti al vento appiccicoso della mattina, davanti ai tabernacoli. La Tokyo che sorprende con il rumore di grilli sopra gli incroci, i treni, le stazioni e le metro che sono intere città a sé stanti.

    Le Izakaya e le bettoline che profumano di shochu e sakè mentre si accendono di luci aranciate le stradine del quartiere, e la chiassosa matsuri, piena di commercianti bercioni, allegri casinari e ragazzini festanti per l’orgia di street food e gadgets. Esempre, a ogni angolo, in ogni vicolo, agli incroci, le vendng machines, unico pivot, axis mundi fermo e certo in mezzo a questa taranta di simboli e ideogrammi che si fanno carne, camice sgualcite, minigonne per divise studentesche, ragazze che inciampano regolarmente sui tacchi, il matcha amaro del Cha-no-Yu, le grida dei kendoka (a casa, però che trovare un negozio che vendesse attrezzatura da Kendo è stata un’impresa...), i Pachinko che sbraitano caos e intermittenze, il colore rettiliano dei tetti di lamiera visti dall’aereo, il verde cupo e militaresco dei cipressi lungo le fiancate delle montagne, la nebbia distante e da filmone di guerra nei cimiteri addormentati per il muschio e i sutra, la tomba di Mishima e quella di Yamamoto, i Byakkotai ma anche le idol che trionfano nel loro mondano e chiassosissimo kabuki pop, l’imbarazzo di non saper che fare nel Maiden Cafe, e la felicità di sedersi accando all’impiegato sfatto nei più stakanovisti kaiten sushi di Nara.

    Perché il Giappone, e magari un’antologia che voglia raccontarlo almeno per il breve tempo di una fuggevole sera, è un onsen in ebollizione, un Jigoku per bonzi le cui pelate fanno capolino e sembrano bolle pronte a esplodere. Non è solo il dolore atomico di una società che ogni volta ha dovuto imparare in fretta a cambiare pelle, a fare della corazza una tuta cibernetica in latex senziente per poi tornare a avvolgersi nella seta e nell’indaco della tradizione immortale, un Buddha da uccidere e che ogni volta rinasce più spavaldo di prima. Se non sei giapponese non puoi nuotare in questo mare profondo e mobile, vieni spinto fuori. Schiuma dell’esistenza e solo esploratore maldestro di una nipposfera troppo vasta per te. Raccontare il proprio Giappone obbliga alla reincarnazione del genere letterario, è la contaminazione forzata che costringe a essere al passo e subire le proprie ambizioni. Smisurate, come è smisurata la necessità di accordarsi con il prossimo e con il lettore in una elaborata sinfonia linguistica e di registri che tutto è tranne che agevole o lineare. Così come i kanji, spugne semantiche, bioentità che si aggregano e disciolgono come bakemono nei gorghi dei significati, anche i nostri autori hanno dovuto trasformarsi durante la narrazione e, ne sono certo, ne sono usciti irreversibilmente mutati come i megaborg della mia infanzia. Rimandi nostalgici, sotto o subculture otaku, nerd sembrano un’ovvia scappatoia, ma come nei film di Takeshi Kitano, c’è l’energumeno del colpo di scena che ci conduce ai racconti per bambini e alla storia romance, passando per le scanzonate cronistorie degli incontri di ciascuno di questi narratori e autori con l’alterità delle loro visioni.

    Racconti fugaci, evanescenti come i sogni dell’ultimo Kurosawa. Anche quando pesano come acciaio. Tutti a loro modo poetici, sorprendenti, intimi e onesti. Perciò è col cuore del ruvido samurai interpretato dal maestro Toshiro Mifune che, come curatore, a fianco della sempre aggraziata Linda Lercari, ho agito molto maldestramente e molto rozzamente, privo del tutto di etichetta e eleganza. Ma ho un cuore da rozzo personaggio di Kamishibai, quindi assumo su di me ogni colpa per errori, difetti e imperfezioni in questo kimono dalle mille cuciture che Idrovolante vi porge. La colpa e la macchia se ci sono, sono solamente mie.

    Con un augurio di vivere il Giappone dei nostri racconti e un umile ringraziamento alla benevolenza di chi si è seduto con noi sotto la lanterna per raccontare del suo viaggio.

    Furio Detti

    Adlerhaus, Rio di Verzuno

    Venerdì 24 aprile 2020

    kurage

    di Noemi Bagarotto

    Natsubate¹. Frinire delle cicale. Cicale. Cicale...

    Come si fa ad amare questa stagione? Qui a Tokyo estate vuol dire una cosa sola: CAAALDOOO!

    Certo che darmi il nome Umi² e poi non avere abbastanza soldi per andarci...

    Va beh, vediamo un po’. Suika³: fatto. Kakigori⁴: fatto. Shochu mimai⁵: fatto. Mugicha⁶: fatto. Matsuri e Hanabi⁷: da fare con gli altri amici single e sfigati come me. Furin⁸: ecco, questo mi manca!

    Attendo la sera, quando la temperatura sembra diminuire almeno un po’. Monto sulla bici e mi dirigo, con pedalate lente, verso il negozio che le vende. Entro: "Irasshaimase!⁹".

    Una moltitudine di colori si scaglia innanzi ai miei occhi. Sembrano tantissime bolle di sapone e io mi ritrovo catapultato in un mondo fantastico. La proprietaria, un’anziana e piccola signora, si avvicina ed entrambi ci salutiamo con un inchino. Mi dice che sarebbe stato la furin a scegliere me e non il contrario e fa cenno di guardare con calma.

    Ed ecco che in un angolo ve né una che attrae particolarmente la mia attenzione poiché diversa da tutte le altre. È in vetro soffiato e nella parte bassa il piccolo batacchio è circondato da un prolungamento arricciato che la fa assomigliare a un animale marino di cui ora non ricordo il nome. Il cartoncino appeso è bianco e, stranamente, non riporta nessuna scritta. Ok è lei, penso, e senza esitazioni l’acqisto. La vecchina me la incarta creando una confezione bella quanto il suo contenuto. Le porgo i soldi, ma lei mi dice che, soltanto per quel giorno, c’era un’offerta speciale proprio per quel modello... per cui l’ottengo gratis.

    Fico! Non so come ringraziarla così, soddisfatto più che mai, le do un bacio sulla guancia ed esco. Lei arrossisce grazie al mio gesto così spontaneo e carico d’ingenuità che la porta a sentirsi giovane ancora per un istante. Mentre pedalo un lieve filo di vento viene a salutarmi e ripenso al tintinnio prodotto da tutte quelle furin appese nel negozio... il loro nome è onomatopeico e deriva dal suono che emettono.

    A proposito di assonanze ro fujin¹⁰ risuona un po’ come gli oggetti che vende, mi dico sorridendo tra me e me. Tadaima!¹¹. Scaldo nel microonde la cena lasciata da mia madre (lei e mio padre lavorano fino a tardi), mi lavo, appendo la furin alla finestra della mia camera, vado a letto e mi addormento felice.

    Il mattino seguente Natsu¹², che nonostante il nome è il mio migliore amico, telefona per invitarmi a casa sua. Dice che si ritrovano tutti lì per vedere assieme al pc l’ultimo concerto della loro idol ¹³ preferita. Che otaku¹⁴, penso. Declino gentilmente dicendo che andrò a fare un giro alla Tokyo Sky Tree: con i soldi messi da parte almeno l’acquario lo potrò visitare e avere l’illusione di essere al mare.

    Arrivato mi mangio una hiyashi chuka¹⁵, bevo una meron ramune¹⁶ e poi preso un ikasumi aisukurimo¹⁷. Con la pancia piena faccio il biglietto. Mi dirigo subito alla piscina coperta delle foche e dei pinguini. Un componente dello staff li sta rifocillando con delle sardine.

    Che buffi, penso, e mi accorgo di non esere l’unico a crederlo. Poco distante vengo distratto dal vociare di una ragazza.

    Sta vedendo lo stesso scenario, ride e batte le mani come una bambina eccitata. Indossa uno yukata¹⁸ color turchese, con l’obi¹⁹ di un bianco perlaceo e che termina, sui bordi, stranamente in maniera ondulata. I tabi sono bianchi mentre gli zori turchesi come l’abito.

    L’obiage²⁰ ha le sfumature dei colori precedentemente citati, così come l’obijime²¹ il quale è veramente particolare: ha come delle cordine pendenti che si arricciano verso il basso.

    I capelli, neri e lucenti tanto da sembrare bagnati, sono raccolti con un semplice nastro di seta a cui vi è appeso qualcosa (forse un sonaglio) che tintinna adogni movimento del suo viso. La pelle chiara come la ceramica dona ai suoi lineamenti già intriganti una bellezza ancora più mozzafiato.

    È eterea come una dea. Appena si accorge che la sto ammirando, però, corre via. La inseguo. Il suo passo è così lieve e delicato quasi stesse volteggiando come una foglia accarezzata dal vento. Passiamo di fronte alla vasca denominata il Grande Acquario che è una riproduzione del mare di Ogasawara²² e arriviamo alla Culla.

    Qui, nel fantastico paesaggio della barriera corallina, ci sono piccole creature di mare e delle meduse d’allevamento. Aspetta le dico, e riesco a prenderle una mano. Si ferma e si gira verso di me. Mi spiace molto, ma ora devo andare risponde. Sconfortato e con un groppo in gola riesco a pronunciare un: Dimmi almeno come ti chiami.... Lei si avvicina e, posando le sue morbide labbra su una mia guancia, mi sussurra: "Kurage²³". Infine corre via. Non faccio neanche in tempo a chiederle dove abita, il suo numero di telefono o dove avrei potuto reincontrarla che è sparita. Solo il calore del suo dolce bacio rimane sulla mia faccia.

    Apro gli occhi, risvegliato da un tintinnio. Sono in camera mia... Quindi sono o non sono stato all’acquario? Possibile che fosse tutto un sogno? Il sole splende e illumina il mio viso, riscaldandolo.

    Guardo verso la finestra e la mia furin brilla di un turchese acceso, suonando mossa dalla brezza estiva. Noto qualcosa di strano.

    Mi alzo e vado a vedere da vicino il cartoncino appeso. Sopra di esso ora vi è scritto Kurage.


    1 Esaurimento estivo.

    2 Mare.

    3 Anguria.

    4 Granita giapponese.

    5 Biglietti augurali estivi.

    6 Tè freddo a base di orzo tostato.

    7 Tradizionali feste giapponesi e fuochi d’artificio.

    8 Tipica campanella giapponese, in diversi elementi, che suona al vibrare del vento.

    9 Ben arrivato!

    10 Signora anziana.

    11 Sono tornato!

    12 Estate.

    13 Giovane cantante giapponese.

    14 Appassionato di qualcosa in maniera ossessiva.

    15 Insalata di ramen freddo, tagliatelle di frumento, che ha diversi varianti di condimento.

    16 Gazzosa giapponese al melone.

    17 Gelato al nero di seppia.

    18 Kimono estivo, abito tradizionale.

    19 Grossa cintura in stoffa.

    20 Tessuto che si mette sotto l’obi.

    21 Cordino che circonda l’obi e che si può annodare in diversi modi.

    22 Isole di Tokyo.

    23 Medusa.

    gli spiriti delle fiamme

    di Fosco Baiardi

    Era appena iniziata la primavera quando Gombei giunse nel villaggio di Hiraizumi. Subito venne scambiato per uno yūrei: il viso scarno e grigio sotto un sugegasa, le spalle curve e il passo malfermo.

    Non aveva niente con sé, se non i consunti indumenti da viaggio, un bastone e una sacca con dentro una coperta e uno scalpello.

    Quando capirono che era un uomo in carne e ossa, gli abitanti del paese gli corsero incontro e lo sorressero; gli diedero da bere acqua fresca e lo portarono nella casa della guaritrice del villaggio. Qui mangiò una ciotola di riso e un po’ di frutta, quindi, lo straniero si lasciò andare a un sonno delirante. Continuava ad agitarsi e a mugolare nel sonno.

    Hotaru, la guaritrice, si prese cura di lui: gli applicava pezzuole umide sulla fronte e le cambiava con altre, fresche, nei rari momenti di pace gli somministrava misture di un’antica medicina per calmarlo.

    Il villaggio era piccolo e il nuovo arrivato destava curiosità e interesse in tutti gli abitanti che, ogni giorno, tra un mestiere e l’altro, passavano a vedere come stava e se si era ripreso.

    Non è ferito spiegava Hotaru a chi chiedeva se avesse problemi di natura fisica. "Fatta eccezione per una vecchia scottatura sul braccio sinistro. Il suo è un problema dello spirito. Gli oni stanno cercando di rapire la sua mente…"

    I villani rabbrividivano a quelle parole.

    Ma non ci riusciranno finché ci sarò io qui per impedirlo!

    Hotaru combatté per quattro giorni contro gli oni e, alla fine, mantenne la sua promessa e strappò lo straniero alle loro grinfie malvagie.

    Quando Gombei aprì gli occhi ancora febbricitanti si trovò davanti il bel viso della guaritrice. Complice l’esperienza vissuta di cui l’uomo era solo in parte consapevole, i due si innamorarono a prima vista. Gombei era sì conscio della presenza della fanciulla che lo aveva assistito durante gli ultimi giorni, ma il delirio aveva cancellato il passato. Non ricordava più nulla.

    Non sembrava pesargli perché, con a fianco Hotaru e in quel piccolo paese, aveva trovato pace e serenità. I due passarono insieme il resto di una primavera meravigliosa, tra frinire di cicale, canti di uguisu e frulli d’ali di fagiani verdi, profumi di acetoselle e colori vivaci. Gombei aveva scoperto di possedere un talento nell’intagliare il legno e nella creazione di graziosi netsuke, forse – si diceva – era il suo lavoro nella vita precedente.

    Anche la calda estate era trascorsa in modo piacevole: i compaesani, così pronti a soccorrerlo nel momento del bisogno, superata l’iniziale diffidenza, avevano preso a considerarlo uno di loro dopo poche settimane.

    Le foglie verde smeraldo dei boschi circostanti lasciarono posto a tutte le sfumature di giallo, arancione e rosso. Gli scoiattoli si davano da fare per stivare le provviste in previsione dell’inverno e stormi di uccelli volavano verso sud. La corona di montagne attorno al villaggio si tinse di bianco.

    I fuochi negli irori si fecero più consistenti e, una sera di ottobre, Hotaru notò che il suo uomo era immobile, lo sguardo perso sulle lingue arancioni che danzavano sinuose.

    Cos’hai? chiese lei posandogli una mano sulle spalle.

    Lui sobbalzò, sorpreso. C-come? balbettò.

    Cosa ti succede?

    N-no, niente… La voce era distante, poco convinta, ma la donna non volle approfondire.

    Si coricarono poco dopo, senza più parlare.

    Assassino sussurrò una voce nel buio.

    Ci hai ucciso! fece eco un’altra.

    Gombei si destò di soprassalto e saltò su a sedere bruscamente. L’ustione sul braccio pulsava dolorosa ed era rovente.

    Cosa c’è? bisbigliò Hotaru, svegliata dal trambusto.

    Gombei esitò, quindi la tranquillizzò: Niente, è stato solo un incubo.

    Hotaru tornò a dormire, l’uomo – invece – non riuscì più a chiudere occhio.

    La situazione non era destinata a migliorare: di notte non trovava più requie, continuava a svegliarsi strepitando, coperto di sudore. Di giorno era diventato intrattabile e persino violento.

    Dapprima preoccupata per l’uomo di cui si era innamorata, Hotaru cominciava a esserne spaventata. Gli occhi di Gombei erano arrossati dalla mancanza di sonno; sovente spalancati si fissavano nel vuoto e lui cominciava a mormorare parole confuse. Le uniche comprensibili erano fuoco e bruciare. L’uomo aveva anche smesso di intagliare il legno e non usciva più dalla loro umile dimora.

    Hotaru cercò di affrontare il discorso: sperava di capire se l’amante fosse rimasto vittima di un incendio e avesse rimosso inconsciamente l’evento. Voleva stargli vicino, voleva che affrontassero insieme il ricordo traumatizzante. Ottenne solo una reazione veemente e sgarbata.

    L’urlo fu agghiacciante. Hotaru si svegliò di colpo; ancora stordita ci mise un po’ a capire che chi agitava una fiaccola come un forsennato e correva da un angolo all’altro della stanza era Gombei.

    Andatevene! sbraitava con una voce che non sembrava nemmeno la sua.

    Calmati lo blandì Hotaru, dopo essersi alzata da terra.

    L’uomo si bloccò e la fissò come se vedesse uno yūrei.

    Vai via! ringhiò.

    Cosa ti succede? Parlami… lo invitò lei. Cercava di dissimulare la paura che le faceva correre brividi gelidi lungo la schiena.

    Perché mi perseguitate? ruggì lui avanzando con la torcia tesa.

    Hotaru indietreggiò.

    Vi ho bruciate tutte! continuò l’uomo.

    Cosa? Chi?

    Non ti prenderai gioco di me! Ti brucerò di nuovo! mugghiò Gombei con un affondo della fiaccola.

    Hotaru riuscì a scostarsi all’ultimo e la fiamma affondò nel tetto di paglia, che prese subito fuoco. In preda al panico, Gombei lasciò il bastone e ruzzolò all’indietro.

    Usciamo di qui! anche Hotaru era terrorizzata. Afferrò il braccio sinistro dell’amante e lo tirò, ma quello si strappò alla sua presa.

    Maledetta, sei venuta per vendicarti! biascicò con la bava alla bocca. Non mi prenderai, non avrai la mia anima!

    Hotaru comprese che non sarebbe riuscita a scrollare Gombei. Disperata, si catapultò fuori dall’abitazione e, impotente, vide la struttura consumarsi nel fuoco e crollare su se stessa. Prima di venire soccorsa dai compaesani, le parve di vedere le fiamme trasformarsi in tre forme femminili: ridevano, mentre – avvinghiate a una quarta che sembrava Gombei – la trascinavano in alto. Con un ultimo sfavillio si dissolsero nel buio della notte.

    il piccolo komadori

    di Orazio Francesco Barbi

    Nel folklore nipponico, strettamente connesso ai culti shintoisti, vi sono numerosissimi racconti popolari legati ai passeri, in giapponese suzume, e altri uccelli, considerati spesso messaggeri divini, spiriti dei luoghi sacri, fantasmi o ancora protettori e guida dei viandanti, chiamati suzumeokuri.

    Sin dall’antichità, inoltre, sia in Cina che in Giappone è diffusa la credenza che passeri e altri piccoli uccelli, superato il mese di Settembre, si dirigano in massa verso il gran mare, in altre parole l’Oceano Pacifico, e una volta in acqua, seguendo il ciclo delle rinascite, diventino pesci o molluschi, solitamente cozze e altri bivalvi. Si narra che durante il periodo Edo (1603-1868) vi fosse stata un’annata particolarmente rigida nella Terra del Sol Levante, che aveva anticipato di molto l’arrivo dell’inverno, impedendo a molti uccellini di compiere tale mitica peregrinazione.

    Fra questi vi era un Komadori, piccolo passero cinereo diffuso nell’estremo Oriente, il quale, diretto verso il Pacifico, a seguito di una violenta tempesta, si era ferito un’ala, ed era precipitato in una foresta, presso l’attuale prefettura di Wakayama. Impossibilitato a volare, aveva cercato aiuto nei paraggi; tuttavia, non trovando nessuno, si era rassegnato e aveva cercato di mettersi, come meglio poteva, al riparo ai piedi di un albero, dove passò la notte nell’attesa di un miglioramento del tempo.

    La mattina seguente fu svegliato da uno strano rumore. Pareva quasi il pianto di un bambino e sembrava molto vicino. Il passero, incuriosito e speranzoso di ricevere aiuto, cercò di capire da dove provenisse il lamento, salterellando di qua e di là. Dopo pochi minuti si trovò di fronte ad un lago non molto grande; perplesso si guardò intorno, per capire chi avesse fatto quegli strani versi, finché non trovò sull’altra riva un bizzarro animale impigliato ad una rete da pesca.

    Si trattava di un kappa, detto anche kawatarō²⁴, una creatura acquatica dalle dimensioni di un bambino, simile ad una tartaruga o una rana col becco, con una concavità piena d’acqua sulla sommità del capo, la quale gli conferisce quasi tutta l’energia vitale. Era rimasto ingarbugliato nella rete e, cercando di liberarsi, aveva rovesciato l’acqua contenuta in tale rientranza, perdendo così ogni forza per liberarsi. Aiutami, per favore aveva detto piangendo al passero, che si era avvicinato a lui non riesco a liberarmi, senza la mia acqua morirò.

    Allora il Komadori, dopo aver cercato invano di tagliare la rete, pazientemente iniziò a raccogliere col becco e travasare l’acqua del lago nella cavità del Kappa; questi, riacquistato rapidamente la forza, riuscì a liberarsi. Mi hai salvato, piccolo passero, come potrò mai sdebitarmi? aveva esclamato. L’uccellino rispose: ho bisogno del tuo aiuto, mi sono ferito in volo, e ora non posso più dirigermi verso il mare a compiere il mio destino, devi chiedere aiuto a qualcuno.

    Il Kappa prontamente si diresse verso il villaggio più vicino, per sovvenire alla richiesta dell’uccellino, ma, al suo arrivo, la gente, che aveva sentito parlare di creature simili solo nelle leggende, iniziò a fuggire terrorizzata. Disperata, la creatura, arrivata ai piedi di un tempio, si sedette per terra, profondamente afflitta. Nel mentre un anziano shinshoku, sacerdote shintoista, si stava dirigendo proprio presso quel santuario; questi, notato il Kappa, e conoscendo molto bene gli spiriti del bosco, accorse verso di lui. Cosa succede, piccola creatura? Di cosa ti tormenti tanto? e lui un passero mi ha salvato la vita, ma è ferito gravemente. Ho promesso di aiutarlo, ma non trovo nessuno che voglia soccorrerlo.

    Ascoltate queste parole, il sacerdote chiese di condurlo al luogo dove lo aveva incontrato, e, arrivati subitamente allo stagno, trovarono accovacciato il piccolo komadori. Lo shinshoku si avvicinò all’uccellino e, preso dolcemente nelle sue mani Mi spiace, piccolo Kappa, il tuo amico non ce l’ha fatta. A questa notizia, la creatura scoppiò a piangere, addolorato per la morte del suo piccolo salvatore e per non aver potuto mantenere la parola, ma prontamente il sacerdote gli disse Devi onorare l’anima di questo passero. Vai al santuario, offri del riso agli spiriti del bosco e prega Sarutahiko, dio dei sentieri, degli ostacoli e del loro superamento. Dopo di che seppellisci il corpo del tuo amico ai piedi del ciliegio che si trova dietro al Tempio, e, alla prossima luna piena versa una goccia d’acqua salmastra.

    Il Kappa, pur credendo che si trattasse di una semplice ritualità formale per i defunti, con non poca fatica, eseguì ciò che gli era stato chiesto. Passò l’inverno, e, verso la seconda metà di Febbraio, l’albero iniziò a fiorire rigogliosamente. Il Kappa, che si dirigeva presso il santuario periodicamente per salutare l’amico, un giorno notò che era germogliato un fiore particolarmente grosso, di un rosso acceso. Da lì a poco questi sbocciò e ve ne uscì proprio il Komadori che era stato seppellito, di fronte al Kappa, completamente basito. Il passero sarebbe stato completamente uguale, se non fosse per un petalo rosso in testa, segno della rinascita. Grazie, amico mio. Gli Dei hanno ascoltato le tue preghiere mentre mi dirigevo verso l’Orco, ora potrò seguire il mio Karma ed estinguerlo. Detto questo, dopo aver salutato il Kappa, si diresse finalmente verso il mare, dove compì il suo destino. Da quel giorno i Komadori, ovvero i pettirossi, si presentano con un mantello cinerino adornato da una macchia rossa a forma di petalo.


    24 Figlio del fiume.

    madame hisako ritorna in giappone

    di Federico Barsanti

    Gli orologi segnano tutti la stessa ora. Li osservo, fingendomi incredula e raccapricciata, mentre corro storta come un giunco. Correre a quel modo ti dà l’aria di essere un po’ vecchia, specie se assumi un’andatura claudicante e ti guardi intorno come se il mondo non ti appartenesse. Sono una signora che porta con sé parecchi oggetti quando viaggia. È di un gusto squisito e oltremodo chic inoltrarmi dentro me stessa con un sacco di roba inutile, simile a quella che trasportano gli esseri umani nello sfiancato e ripetitivo quotidiano delle loro insignificanti azioni.

    Il mio sospirato ritorno in Giappone dopo il brevissimo e intenso soggiorno nella Vecchia Europa è finalmente arrivato! Allora, le cose vanno precisamente così: mentre mi dirigo con la mia andatura un po’ claudicante il bestione in divisa mi ferma spiattellandomi il suo cartellino riconoscitivo sotto il viso. Sul cartellino c’è una sigla incomprensibile, ma capisco all’istante che si tratta di polizia o roba simile che gli esseri umani utilizzano per acciuffare, dicono loro, qualche criminale o sospettato o per ricucire in loro stessi traumi subiti nell’infanzia, o per rimpinzare la propria mancanza di affetto, o per riabilitare un qualche archetipo sonnecchiante in un anfratto della loro anima ferita. Il cartellino rende noto che il mio viaggio dovrebbe subire notevoli variazioni.

    Che diamine, sono pronta a tutto! Il bestione mentre mi mostra il cartellino dice Signora la prego di seguirmi grazie. La cosa che subito mi salta all’orecchio è il fatto di non mettere neanche una virgola nella seppur brevissima, saettante e sparuta frase. Un attimo dopo sono già al mio fianco, lui e il cartellino che intravedo sparire nella sua giacca e, mentre ci infiliamo in un mondo parallelo il mio pensiero è su un’altra variante facendomi provare qualcosa di molto vicino al senso di privilegio: un bestione con il cartellino poliziesco mi prega di seguirlo! Per un attimo vedo la scena per intero: No gentile signore, la ringrazio di cuore, ma non posso seguirla per niente, la ringrazio davvero di pregarmi, ma tra poco più di un’ora avrò l’aereo che mi riporterà nella mia terra, il Giappone.

    Taglio la corda e lo lascio lì di stucco senza che si capaciti dell’accaduto. Non comprendo il motivo per cui nelle lingue del pianeta terrestre in cui si usa il maschile e il femminile si tenda a privilegiare il maschile. Per esempio, in quei primi istanti io mi sento un’irresistibile criminala un po’ sospettata; invece in italiano si dice, mi hanno precisato, criminale un po’ sospettato. In italiano, però, polizia suona bene, mentre polizio sarebbe proprio altisonante e dal significato ambiguo, anche se, forse, renderebbe meglio l’idea: "il corpo di polizio" invece de il corpo di polizia.

    A ogni modo, da quel momento sono proprietà del poliziotto e la scena da poco immaginata non prende forma, e non certo perché io provi un qualche timore reverenziale nascosto, ma proprio per la tenerezza che mi pervade: quell’uomo in uniforme con il suo cartellino plastificato appena sparito nella giacca e la grossa rivoltella ben visibile nella fondina, suscitano in me qualcosa di così vicino alla commozione da trattenermi dal fare qualsiasi cosa possa mettere a repentaglio lo svolgersi congruo di tutta la messinscena. Il mio nome significa bambina dalla lunga vita e anche se la mia età non appare chiara agli occhi di questi umani, sono entrata a far parte della mia lunghissima vita da un lasso di tempo inimmaginabile per chiunque.

    Non potrei svelare il segreto della mia longevità, non soltanto nessuno mi crederebbe, ma soprattutto non ho interesse a parlarne con alcuno degli esseri umani incontrati fino a oggi. Il bestione ha gli occhi di un ragazzino, anzi no, precisamente di un bambino, ma non è ciò che mi colpisce poiché sono abituata ad avere a che fare con moltissimi uomini che hanno occhi di quel genere; sta scortando e assecondando con simulata gentilezza la mia camminata (per forza di cose sono stata obbligata a smettere di correre), e neppure questo fa parte di qualcosa che potrebbe colpire la mia curiosità; sono, questi, semplici rivelamenti sensoriali per certi versi un po’ ovvi, di fronte ad un quadro in movimento che va delineandosi in modo abbastanza rapido, mentre il corpo del bestione mi è subito vicino, più di quanto in realtà io creda, pur mantenendo una distanza sufficiente per non sfiorarmi neppure in caso di errore; io, superfluo precisarlo, percepisco ogni sfumatura: l’odore della pelle dell’uomo, tutti gli intrecci della grana del tessuto della divisa, il movimento dei pensieri all’interno della sua testa rasata, i rumori dei movimenti rapidi dell’aria nella sua pancia e l’impercettibile, piacevole, e sorprendente scricchiolio di un’anca.

    Si dice che per ogni cosa ci sia ad attenderla il momento giusto.

    Ogni essere umano crede saldamente, profondamente che la vita sia ingiusta, una sorta di fregatura alla fine. Altrimenti come si spiegherebbe tutto quel dimenarsi buffo quotidiano simile a questo scricchiolio dell’anca? Ecco che, mentre camminiamo nella miriade di umani, incrocio un altro orologio che segna l’ora di pocanzi, con le lancette dei secondi poco più avanti rispetto a prima. Tutte le lancette degli orologi segnano la stessa ora, ognuna precisa al millimetro, e ciò potrebbe anche rendermi sempre più incredula e raccapricciata, ma, come detto, non è così.

    La mia è soltanto questione di apparenza. La varietà di visi che circola intorno mi rapisce in un tripudio di sensazioni che, lo so, appartengono anche a questi stessi umani che incrocio. Vorrei tanto raccontarlo al poliziotto e, anzi, per un istante sono sul punto di iniziare, ma mi fermo sorridendo poiché teneramente so che non potrebbe permettersi di ascoltarmi: lui viaggia accanto a me, quasi sfiorandomi, in un mondo perdutamente distante dal mio, un luogo in cui vigono leggi, regole e visioni tramandate da generazioni e generazioni, nei secoli, attraverso duri addestramenti e inimmaginabili ostacoli da superare ogni volta, prove indicibili con superiori, inferiori, graduati di ogni tipo.

    Gli sono nel cuore, d’altronde chi meglio di me potrebbe capirlo? Per essere precisa: sono entrata nelle intrinseche paure e gioie di quest’uomo che, adesso lo vedo chiaramente, ha le sembianze di una foglia sospesa ad un gigantesco albero, mutevole ed effimera, caduca come altre miliardi di foglie che l’hanno preceduta e che verranno. Intanto io proseguo a vedere il mio amato, il meraviglioso Giappone, con tutte le sue radici affondate in millenni di umanità sconclusionata e indaffarata, mite e spigolosa, eterea e cattiva fin nel centro del proprio midollo.

    Potrebbero apparire divagazioni, queste, di fronte a quello che sta accadendo, lo so, ma in realtà la mappatura della mia mente mi agevola rendendomi calibrata e terrena ogni volta attraverso una splendida e rarefatta visione di ciò che gli umani descrivono come realtà confondendola invece con tormentata speranza.

    La famiglia, composta da papà, mamma e un bambino, che mi è appena passata sul lato sinistro senza che ci notasse, e il cui bambino guarda davanti a sé con fare un po’ imbronciato, non può ancora sapere che l’aereo su cui sta imbarcandosi subirà un’avaria durante il decollo e sarà costretto a rientrare procurando un ritardo tale che la deliziosa, piccola comitiva perderà la coincidenza a New York per il volo diretto a Los Angeles e sarà quindi costretta a rimanere per molte ore nei due differenti aeroporti; ciò gli procurerà un incontro inaspettato che, forse, gli cambierà la vita per sempre.

    Il bestione (tengo a evidenziare tutto il mio sincero e infinito affetto nel definirlo così) il bestione, dicevo, senza procurare alcuna pressione sta dirigendomi tra la folla con una maestria encomiabile della quale farebbe compiacere, ne sono certa, tutto lo staff del suo dipartimento. So bene che è alle prime armi, ma, davvero, è un piacere ipnotizzante osservarlo. I suoi occhi azzurri sembrano quelli di un animaletto che guarda da dietro le sbarre della gabbia di uno zoo,

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