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Il vento dell'Antola: Romanzo
Il vento dell'Antola: Romanzo
Il vento dell'Antola: Romanzo
Ebook134 pages1 hour

Il vento dell'Antola: Romanzo

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About this ebook

  La storia, ormai divenuta leggenda, di un amore contrastato e tragico nello scabro paesaggio appeninico, tra Piemonte e Liguria.
LanguageItaliano
Release dateApr 30, 2020
ISBN9788866792628
Il vento dell'Antola: Romanzo

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    Il vento dell'Antola - Cristina Raddavero

    http://write.streetlib.com

    AltreScritture

    III

    puntoacapo Editrice di Cristina Daglio

    Via Vecchia Pozzolo 7b

    15060 Pasturana (AL)

    www.puntoacapo-editrice.com

    ISBN 978-88-6679-262-8

    Ai miei nonni

    Serafino, Ines, Battistina

    A mia figlia

    Il libro è liberamente ispirato ad una

    vicenda realmente accaduta. Tutti i nomi dei personaggi sono frutto

    esclusivo della fantasia. Alcuni luoghi e ambienti descritti sono

    piegati alle esigenze narrative del racconto per cui potrebbero non

    corrispondere pienamente alla realtà.

    Si ringrazia il fotografo Ludovico Grasso

    per avere gentilmente concesso l’utilizzo delle foto.

    Forse un mattino andando in un’aria di vetro

    arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo:

    il nulla alle mie spalle, il vuoto dentro

    di me, con un terrore di ubriaco.

    Poi come s’uno schermo, s’accamperanno di gitto

    alberi, case, colli per l’inganno consueto.

    Ma sarà troppo tardi; ed io me n’andrò zitto

    tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto.

    (E. Montale)

    Ho avuto la fortuna di nascere e crescere

    all’interno di una realtà costituita di cose semplici e autentiche,

    circondata dall’affetto impagabile di una famiglia numerosa in cui

    i miei tre nonni hanno indubbiamente giocato un ruolo fondamentale

    nella formazione della mia sensibilità, attenzione e rispetto nei

    confronti della terra in cui ho vissuto e vivo tuttora e di coloro

    che ne fanno parte siano esse creature umane, animali o vegetali.

    Tutti e tre hanno saputo trasmettermi

    l’amore per i luoghi che hanno dato loro i natali, nonché per le

    tradizioni tipiche delle zone pedemontane che rappresentano per la

    loro varietà e ricchezza, il fiore all’occhiello dell’Appennino

    ligure-piemontese. In particolare hanno saputo infondermi, fin

    dalla più tenera età, una propensione speciale a soffermarmi sui

    colori e sui profumi della terra, sui dettagli anche minimi che un

    occhio attento e curioso come quello di un bambino pronto ad

    esplorare il mondo è in grado di captare tra uno sguardo rivolto

    verso il cielo azzurro e una scorsa alla terra bruna e compatta.

    Sogno e realtà, fiaba ed esistenza, leggenda

    e storia, diceria e verità sono le componenti che si mescolano da

    sempre dentro di me, tanto da costituirne l’ossatura specifica che

    ricalca quella dei minuscoli paesi inerpicati lungo la dorsale

    appenninica, autentico scrigno di ricordi e consuetudini da non

    consegnare all’oblio.

    Le pagine che seguono sono la passeggiata di

    Nora e Livia.

    Una nonna e la sua giovane nipote,

    camminando nel bosco, ripercorrono il passato tra faggi e querce

    maestose, teatro naturale e scenario di incomparabile bellezza in

    cui un vento bizzarro irrompe da subito tessendo un sottile

    intreccio tra la realtà e l’alone di sogno e di mistero nella

    rievocazione di ciò che è narrato.

    Mio dovere precisare che il racconto, tante

    volte narratomi dai miei nonni, è liberamente ispirato ad una

    tragica vicenda avvenuta nel settembre del 1961 a Reneuzzi, paesino

    dimenticato nella valle dei Campassi e che all’epoca fece molto

    scalpore, determinando definitivamente l’abbandono di quel pugno di

    case ai piedi del monte Antola già irrimediabilmente votato alla

    desolazione e all’allontanamento progressivo dei suoi abitanti,

    proiettati verso il nuovo stile di vita che le circostanze

    storiche, sociali, economiche imponevano. Moltissime peculiarità

    agro-montanare con la congiuntura dei tempi, proprio allora si

    persero irrimediabilmente lungo i crinali dell’Appennino

    ligure-piemontese... d’altronde la posta in gioco era altissima, il

    richiamo al benessere suadente e persuasivo.

    Difficile restare indifferenti alle nuove

    dinamiche innescate dal processo messo in atto all’indomani del

    dopoguerra, ma...

    Proprio pensando alle piante

    mi sono convinto che l’orrore di quegli

    anni in qualche modo era già in agguato.

    (Susanna Tamaro)

    21 settembre 2005

    Livia e Nora erano arrivate di buon’ora;

    erano partite molto presto dalla città, lasciandosi alle spalle

    cemento, lunghe file di vetture strombazzanti, smog e la più

    svariata tipologia di esseri umani dislocati ovunque, lungo i

    marciapiedi, sotto le pensiline in attesa del primo autobus pronto

    a passare, fermi ad un’edicola nell’imminente gesto di aprire il

    quotidiano abituale e gettarsi a leggere il mondo...

    Il primo pensiero di Livia, quella mattina,

    non appena salita sulla sua auto, un’utilitaria di seconda mano che

    nonna Nora le aveva regalato per i suoi spostamenti, fu rivolto a

    zia Marta. Spesso si ritrovava a pensare a questa zia che non aveva

    mai conosciuto e di cui aveva sentito parlare da sempre,

    praticamente dal giorno stesso della sua nascita. E, non a caso,

    nonna Nora aveva insisto e molto, nel giorno del suo battesimo,

    affinché fosse aggiunto al nome della adorata nipotina quello di

    sua figlia; così, Livia Marta crebbe con sua zia dentro, come

    soleva ripetere la nonna, che, in questo modo era riuscita a

    metabolizzare, per quanto ciò fosse stato possibile, il profondo

    dolore causato dalla prematura scomparsa di una bellissima giovane

    strappata alla vita nell’esatto momento in cui avrebbe dovuto,

    invece, cominciare a viverla.

    L’auto si fermò nel piccolo piazzale del

    paese. Livia parcheggiò all’ombra di un vecchio noce smilzo e

    giallastro, scese dalla macchina e si precipitò dall’altra parte

    della vettura, dove nonna Nora, aiutata dal suo bastone di ebano

    nero dal grande pomolo d’argento, aveva già provveduto da sola ad

    aprirsi la portiera e poggiare i piedi malfermi e vacillanti sul

    selciato.

    Con il cuore pronto a compiere un viaggio

    tra i ricordi, rivolta a Livia, con la voce incrinata dall’emozione

    e da lacrime nuove appartenenti ad un vecchio dolore, disse:

    «Allora, mia piccola Livia, sei pronta?»

    Livia fece cenno di sì con la testa; le due

    donne si incamminarono lungo quella che doveva essere stata la

    mulattiera che collegava Vegni a Reneuzzi e che dalla piazza del

    paese, assottigliandosi progressivamente, le avrebbe condotte

    all’altro pugno di case, il piccolo villaggio natale di nonna Nora,

    Reneuzzi appunto, quello in cui aveva vissuto per soli diciotto

    anni zia Marta.

    «Era il 21 settembre, nonna, vero? Non

    avresti potuto farmi regalo migliore di questo, oggi, se non di

    venire qui e sentire scorrere sotto i miei piedi e nelle mie vene

    la storia di Marta e Daniele, quella di cui ho sempre sentito

    parlare; ma una cosa, nonna è sentirne parlare, altro calpestare

    questo sentiero, sentire questo profumo d’autunno che ci avvolge,

    riempirci gli occhi di tutti questi colori e di tutte le sfumature

    di queste foglie che inesorabilmente cominciano cadere. Ogni cosa

    qui evoca un altro autunno, quello in cui zia Marta ti lasciò per

    sempre».

    Reneuzzi era collegato a Vegni

    esclusivamente da questo sentiero che stavano percorrendo Livia e

    sua nonna. Certamente fino al 1960 non doveva avere avuto queste

    sembianze: sempre un sentiero rimaneva, ma pulito, sistemato e ben

    assettato, delimitato a tratti sul lato destro da un muro a secco e

    sul sinistro da una staccionata costruita con massicci pali di

    legno di castagno che conferivano all’ambiente circostante un

    aspetto di ordine e armonia di cui non restava neppure il più vago

    segno.

    Quell’estate di tanti anni fa, la famiglia

    Parocchi aveva preso la grande decisione: lasciare definitivamente

    il paese per trasferirsi a Genova. Nonno Arturo aveva trovato un

    ottimo lavoro come muratore; si stavano costruendo palazzi a non

    finire che proliferavano in tutti i quartieri della città.

    Nei paesi dell’Appennino la voce si era

    sparsa in fretta, il lavoro chiamava e bisognava andare; la città

    si stava trasformando e offriva, con tutte le sue comodità, una

    vita migliore. Luca e Marta non vedevano l’ora di partire.

    Luca, almeno inizialmente avrebbe dato una

    mano a suo padre come manovale, e finì per amare a tal punto il

    proprio lavoro che nel giro di pochi anni si trasformò in uno degli

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