Siracusa Antica
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Siracusa Antica - Vittorio Belfiore
Vittorio Belfiore
SIRACUSA ANTICA
dalla preistoria alla conquista araba
Youcanprint
Titolo | Siracusa Antica
Autore | Vittorio Belfiore
ISBN | 978-88-31667-90-6
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A mia moglie Adriana
L’arte trae la sua ispirazione dalla divinità; questa a sua volta non è altro che la personificazione della natura che parla agli uomini ora il linguaggio del terrore, ora quello dell’ammirazione, ora li stupisce e li esalta, ora li abbassa fino ad annullarli.
Da questa commozione dello spirito nascono i capolavori della penna, dello scalpello e del pennello passati alla storia come insuperabili modelli d’imitazione.
L’arte è il sacro privilegio dei cultori di un’antica conoscenza, iniziati che svolgono una funzione essoterica nella nascente civiltà greca, svelando l’ordine delle cose umane che si congiungeva a quello di una natura universale.
Tutto il sistema della civiltà è simbolo di una sapienza esercitata con le arti tramite le quali l’uomo, ispirato a grandi destini, ascendeva alla verità.
Sulla scena si rappresentano eventi umani in cui esseri occulti e invisibili interagivano. L’uomo nella tragedia greca agisce sotto la volontà del fato come uno strumento cieco d’un essere invisibile ma potente, una presenza occulta implacabilmente operante, quasi sempre e capricciosamente vendicativa. Il pubblico della tragedia è mosso verso un percorso spirituale divinamente vibrante che portava al bello.
Il bello, presso gli antichi greci, è associato al buono: una sintesi ideale della perfezione umana nella quale la bellezza della persona e il valore morale si armonizzavano in un’espressione definita kalokagathìa.
Il bello è la ricerca di una sintesi ideale del corpo umano; una giusta proporzione fra le parti del corpo in perfetta simmetria ed equilibrio che nelle opere di Policleto rivelava lo spirito estetico-greco, una bellezza fatta di numeri e rapporti precisi: il canone.
Nel mondo greco le divinità hanno forma umana: il loro corpo, rappresentato nel pieno della giovinezza e del vigore, comunicava l’idea di una bellezza perfetta, incorruttibile nel tempo e immortale.
E ancora, il bello, cioè l’ordine del Kosmos, è la natura armonica dell’universo rappresentato dalla figura sacra del triangolo equilatero cioè la tetraktys, ossia la successione delle tre dimensioni che caratterizzavano l’universo fisico.
Il bello, principio eterno e universale, concepito come una continua rivelazione del sacro, è il grande ideale greco, segno di civiltà, espressione di una natura ideale riaggregante le parti che componevano il tutto. Il bello è il dono degli dei all’uomo.
L’arte parla in tutta la sua meravigliosa bellezza all’anima fino a elevarla a Dio. Da Gerusalemme, all’epoca di Salomone, e in Egitto, la conoscenza per via iniziatica approda in Grecia per poi passare in Asia Minore e da questa in Persia e poi in Siria dalla quale, sulla rotta di Ulisse, da oriente a occidente passando per la Sicilia con le migrazioni, si espande fino alle due colonne che l’eroe semidio Eracle aveva posto come limite del mondo conosciuto.
In virtù della sua posizione geografica, Siracusa, dal V millennio a.C., è ponte tra il continente africano, europeo e asiatico, operando come fecondissimo crocevia di flussi migratori e di civiltà che si affacciavano sul Mediterraneo.
Siracusa vive nella gloria e nella potenza; ruderi e simboli raccontano i segni di una grandezza passata di una città incantevole dove storia e cultura si fondono eternandosi nel mito. Così dalla polvere, tra fregi e triglifi, una metopa a bassorilievo, raffigurazione apotropaica di una mostruosità con i serpenti al posto dei capelli e le zanne come i cinghiali, emerge Medusa, antichissimo archetipo della religiosità mediterranea, figlia di Forco e di Ceto, la più bella delle Gorgoni, ma l’unica a essere mortale.
Una notte, nel tempio di Athena, Poseidone invaghito di Medusa, la seduce. La dea, adirata per la profanazione del suo tempio, tramuta i capelli di Medusa in serpenti e fa sì che chiunque la guardi negli occhi viene tramutato in pietra. Medusa, mentre giace dormiente nella caverna, è uccisa da Perseo che le mozza la testa guardando l’immagine riflessa sul suo scudo lucido come uno specchio per evitare lo sguardo diretto della Gorgone che lo avrebbe pietrificato.
Dal collo della Gorgone escono i figli che aveva generato dopo la notte con Poseidone, Pegaso e Crisaore, e dal suo sangue che usciva a fiotti dal mutilo tronco, nascono anche il corallo rosso e Anfesibena. Perseo mostra la testa mozzata ad Atlante pietrificandolo, poi dona la stessa ad Athena in cambio dello scudo riflettente. La dea, ricevuto in dono la testa mozzata e anguicrinita di Medusa, la pone al centro della propria egida, collocata nel frontone dell’Athenaion di Siracusa. Nel marzo 1917, assistito dal fidatissimo collaboratore Rosario Carta, Paolo Orsi riprende gli scavi archeologici intorno l’Athenaion, esattamente nell’unica area non fabbricata e inesplorata, cioè il cortile esterno dell’arcivescovato. Rilevante è la scoperta delle fondamenta di tre muri che destano uno sconcertante enigma, risolto nell’identificare con il terzo muro il peribolo definitivo del tempio dinomenidico, superstite dopo la soppressione degli altri due. Si trovano, intorno, cocci, ceramiche di origine sicula o ellenica, manufatti in bronzo e pasta di vetro, oggetti ornamentali e votivi in avorio e osso. Si rinvengono molte fibule in avorio e in bronzo che, tra il VII secolo e il VI secolo a.C., adornavano i pepli delle dame della aristocrazia e delle umili figlie del popolo siracusano, e piamente venivano donate alla dea.
Il contributo dell’Orsi è grandissimo per aver portato alla luce una così ricca civiltà sepolta nella notte più buia con un lavoro paziente di classificazione, di analisi comparata, di minuzioso controllo durato circa un ventennio che lo porta alla ricostruzione espressiva di quel mondo antichissimo del popolo da lui nominato dei sikeloi, un popolo primitivo che, nel III millennio a.C., raggiunge un buon grado di civiltà con lo sviluppo di un certo ordinamento sociale. L’Orsi riscontra nel periodo siculo una contemporanea esistenza di pezzi finissimi di provenienza esotica con tentativi d’imitazione più scadenti prodotti dalla popolazione locale. I manufatti erano di origine egea, provenienti dalle più importanti città del mondo miceneo, Cefallenia e Rodi. La ricostruzione dell’Orsi getta un fascio di luce inaspettata su uno dei più complessi problemi della civiltà preellenica, consentendoci di conoscere il popolo siculo nelle sue abitudini, nella necessità difensiva, nei bisogni quotidiani, nei riti funebri. L’attività di Paolo Orsi inizia con l’esplorazione di necropoli preelleniche, scoprendo tombe dalle quali emergono, dopo un silenzio durato millenni, rozze espressioni di lavorazioni indigene.
Lo scavo stratigrafico svela le varie fasi dell’antica vita siracusana e il suo lento e faticoso ascendere dalla barbarie della civiltà sicula alle prime fasi di quella arcaica, impregnata di influenze e di merci orientali, al fasto e al rinnovamento edilizio dei templi dinomenidici, alla decadenza dei secoli successivi, allo spegnersi della civiltà e della vita greca, che, attraverso i lunghi secoli romani, trapassa in quella bizantina. L’attività dell’Orsi non rimane solo circoscritta allo studio paleo-siculo, ma si allarga allo studio della civiltà ellenica nel centro di Ortigia, dove sorgeva il più importante complesso sacrale dopo la vittoriosa battaglia di Imera, favorita dalla dea Athena che si manifesta con il calare sull’esercito siracusano di alcune civette, animale a lei sacro.
Gelone aveva fatto demolire il primitivo tempio, che, attraverso la meraviglia delle terrecotte decorative e di alcuni elementi architettonici ritrovati, lascia intuire lo splendore originario dell’edificio.
Il tempio arcaico senza peristasi, forse prostilo, di stile dorico, molto lungo e molto stretto, è edificato nel VII secolo a.C. con una gradinata prospiciente a settentrione, costruita con l’intento di formare una zona di rispetto intorno all’area, la quale, sopraelevata, rappresentava la continuazione di un culto antichissimo e santissimo che a testimonianza di un documento epigrafico si dedicava ad Athena. Esplorando minutamente tutta l’area circostante dell’altare arcaico, si rinviene del piccolo materiale paleo-greco e siculo, e in una intercapedine una grande armilla in bronzo, cocci siculi e protocorinzi.
Nel sottosuolo, immediatamente circostante, si trovano ceramiche greche e protocorinzie geometriche, perline vitree e di ambra, anelli di bronzo, una placca di avorio per fibula, una placchetta di bronzo, grandi ossa di animali e un pezzo di ascia basaltica: tutto questo era lo strano e mirabile complesso di reliquie della primitiva vita religiosa siracusana. In quell’altare si compivano i riti dei primi coloni di Ortigia: il foro scavato nell’altare, scendendo nella terra vergine, riversava il sangue sacrificale.
Gelone della famiglia dei Dinomenidi, tiranno e condottiero di Siracusa, per ingraziarsi e consolidare il legame con la classe imprenditoriale siracusana su cui la sua tirannia consolidava il potere, riutilizzando il materiale del preesistente tempio arcaico, erige, nel 480 a.C., nella parte più alta di Ortigia, l’Athenaion: un tempio con una struttura di un periptero esastilo con sei colonne sui lati corti e quattordici su quelli lunghi; le colonne di stile dorico arcaico avevano un rigonfiamento nella parte centrale – entasis – e venti scanalature con gli echini dei capitelli leggermente schiacciati. Il tempio misurava la lunghezza di cinquantasei metri e la larghezza di ventidue basandosi su d’uno stilobate a tre ordini di gradini. La cella aveva il pronao rivolto a oriente, mentre l’opistodomo era rivolto a occidente. Il tempio era esattamente allineato tra est e ovest in modo che il sole sorgendo lo attraversava da un’estremità all’altra e in maniera perfetta nei giorni degli equinozi.
I muri della cella dell’Athenaion erano ricoperti da una serie di tavole dipinte che raffiguravano il combattimento tra Agatocle contro i cartaginesi e ventisette ritratti dei tiranni e re di Sicilia, e i battenti della porta del tempio erano decorati in avorio e oro. A sentire Plinio, vi era una tavola rappresentante Mentore siracusano, il quale muovendosi in Siria, s’imbatte in un leone giacente per una spina conficcata nel piede: spina che Mentore sa estrarre. Il quadro mostrava l’atto pietoso quanto pericoloso di Mentore. Secondo la tradizione, un grande scudo di rame dorato si trovava al centro del frontone del tempio, in posizione elevata per riflettere i raggi del sole e rendersi visibile al più lontano dei naviganti alfine di propiziarsi la dea nei viaggi.
I naviganti, prima di sciogliere le vele e uscire dal porto, compravano tre vasi di creta riempiti di miele, incenso e vino, che imbarcavano nella loro nave, e dopo aver lasciato il porto, tenendo gli occhi fissi al brillante scudo aureo della dea, quando questo scompariva allo sguardo, sull’estremo limite dell’orizzonte, li lanciavano in mare come buon auspicio invocando la protezione di Athena e Poseidone. Nella parte orientale dove finivano le fondazioni del presunto tempio arcaico eretto da Archia, Paolo Orsi ritrova una struttura composta da una filata di pezzi con un certo vuoto nelle giunture, destando subito il sospetto che si doveva trattare di una copertura di una cavità sottostante. Rimossi due dei massi più piccoli della struttura si apre una galleria sotterranea formata da grandi massi in coltello, piazzati sulla roccia protetta da poderosi lastroni sottratti da edifici più antichi. Il percorso sottostante il tempio di Athena, nel suo primo tratto, era invaso da un sottile terriccio di sedimentazione.
Dagli indizi scoperti si afferma, senza alcun dubbio, che la galleria era una cloaca per lo smaltimento delle acque del tempio dinomenidico.
Nei tempi bizantini e successivi, la cloaca non è utilizzata come deflusso delle acque templari, ma come sotterraneo rifugio specialmente nei conflitti così da permettere ai siracusani di passare sotto i piedi del nemico, quindi in maniera inversa fuggire per mare da dove l’invasore era venuto.
Collocato parallelamente all’Athenaion, l’Orsi porta alla luce i resti di un tempio di stile ionico dedicato ad Artemide, figlia di Zeus e di Leto. Nata prima di Apollo, la dea bambina aiuta la madre a partorire il fratello gemello. Per tale evento, Artemide diviene protettrice delle partorienti e delle nascite, incarnando il simbolismo della luna che è il principio femminile matriarcale, dove la coscienza femminile esposta ai processi inconsci, era portatrice della rinascita spirituale, archetipo femminile per eccellenza della figura materna, ovvero come immagine primitiva e originale che, pur non avendo una struttura reale, aveva il suo ambito simbolico e mitico capace di agire nella psiche e di imprimersi nella coscienza. Nel fior della giovinezza, la dea aveva chiesto al padre Zeus un peplo corto, l’arco, le frecce e di lasciarla vergine, una bellissima vergine che nessun uomo avrebbe mai potuto possedere. La dea cacciava accompagnata da sessanta ninfe, figlie di Oceano, e da altre venti fanciulle figlie dei fiumi, tutte obbligate al giuramento di verginità.
Artemide è implacabile con chi trasgrediva il giuramento, come prova Callisto amata da Zeus. Nelle Metamorfosi, Ovidio ci racconta che un giorno Zeus vede una meravigliosa fanciulla, la ninfa Callisto (in greco la bellissima
) e se ne innamora. Nonostante il divieto si sedurla, essendo la ninfa seguace di Artemide, o meglio, avendo una relazione con la dea, espressione di un antichissimo rito arcaico di iniziazione omosessuale fra una donna adulta e una ragazza, Zeus prende le sembianze di Artemide stessa. Quando, durante un bagno, la dea Artemide si accorge che Callisto era incinta, la trafigge con una freccia. Zeus, impietosito, o forse persuaso dal suo senso di colpa, trasforma Callisto nella costellazione dell’Orsa maggiore, e il nascituro, nella costellazione dell’Orsa minore. Artemide, un tempo dea orgiastica accompagnata da un paredro, aveva come suoi emblemi principali la palma da dattero, la cerva e l’ape; dea a cui era sacra la lasciva quaglia che a stormi si ferma in Ortigia per interrompere il suo lungo viaggio verso nord, durante la migrazione primaverile.
La dea, nel mito greco, era personificazione divina della luce lunare, signora della selvaggina, dea bianca. Un giorno, il dio fluviale Alfeo invaghitosi di lei, la insegue per tutta la Grecia fino a Ortigia dove la dea si rifugia impiastricciando il suo volto e quello delle sue ninfe di gesso, tanto da non essere più distinguibili l’una dalle altre, costringendo, alla fine, Alfeo a ritirarsi, inseguito dall’eco delle loro risate di scherno. Certamente, era arrivato in Sicilia dalla Grecia il rito delle orse
. Così si chiamavano le fanciulle consacrate al culto di Artemide. La dea veniva chiamata, in occasione della festa delle bauronie, signora degli orsi. Secondo il mito, un’orsa addomesticata, sacra alla dea, graffia il viso di una fanciulla giocando nei pressi del suo santuario. I fratelli della giovane si vendicano uccidendo l’orsa, provocando, però, le ire della dea; all’uccisione sacrilega segue una grave pestilenza in Atene. L’oracolo, interrogato a tal proposito dagli ateniesi, sentenzia che, per placare la dea, le fanciulle si dovevano sostituire all’orsa, facendo esse stesse le orse. In termini simbolici si trattava di consacrare alla dea tutte le fanciulle prima del matrimonio: nessuna fanciulla si poteva sposare senza prima aver fatto l’orsa per la dea. Artemide si reputava come guaritrice dei morbi, sciogliete, o care Muse, un canto agreste. Ah troppo in amor folle, e senza freno …
e i pastori la veneravano come protettrice degli armenti e del gregge.
Per l’uso di consacrare ad Artemide le danze al suon di flauti, ella era detta Eleosina e Clitonea; mentre le vergini la invocavano appellandola Caneforia, con l’augurio d’aver un marito. Le feste canefore, rivelazione della beatitudine campestre antica, canta Teocrito in più idilli. La costruzione del tempio, certamente databile intorno al VI secolo a.C., per la identificazione dei resti di materiale rinvenuto in un pozzo sigillato sotto i cavi di fondazione, è edificato da operai provenienti dall’isola di Samo, fuggiti dalla loro città probabilmente negli anni successivi alla tirannia di Policrate, trovando ospitalità presso i gamoroi, aristocratici proprietari terrieri siracusani.
L’Artemision, costruito con pietra calcarea locale, era un tempio periptero, con un ampio pronaos coperto, a più navate e celle a cielo aperto, con sei colonne sui lati brevi e sedici sui lati lunghi, alte quindici metri, con la base tipo samio, costruita dalla sovrapposizione del toro scanalato al di sopra della scotia – sia il toro che la scotia sarebbero stati posti su di un elemento rotante e lavorati generando intagli sottili in corrispondenza degli spigoli delle scanalature per il tramite di un sistema a tornio, tecnica importata dall’Egitto – il fusto con ventotto scanalature e il capitello a volute, mentre la seconda fila di colonne e quelle in antis si realizzano con un solo echino decorato da kymation, quindi senza volute.
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