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Dall'altro lato dei sogni
Dall'altro lato dei sogni
Dall'altro lato dei sogni
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Dall'altro lato dei sogni

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Sabrina è un’adolescente innamorata del più bello della classe. Mattia, però, sembra prendersi gioco di lei. Renzo, Didier e i sogni riusciranno a farle aprire gli occhi sul vero volto dell’amore?
di Simona Agrillo
Quel bacio l’aveva sconvolta. Sabrina, diciottenne napoletana, vittima spesso di bullismo e con una pessima considerazione di sé, non può credere di essere finalmente riuscita a conquistare Mattia, il più bello della classe per cui ha una cotta dal primo liceo. Questo improvviso cambiamento di Mattia, però, non convince affatto Renzo, il migliore amico di Sabrina, che cercherà in tutti i modi di riportarla con i piedi per terra. In un dedalo di situazioni ambigue, sotto i colpi di incomprensibili atteggiamenti altalenanti, Sabrina si rifugerà su un’isola fantastica grazie alla magia di un bambolotto lasciatole in eredità da sua nonna Teresa. Ed è proprio qui che il suo destino si intreccerà con quello di Didier, un ragazzo francese vittima di una maledizione, il quale l’aiuterà ad amarsi e ad aprire gli occhi sul vero volto dell’amore, quello che tutti sognano e che le persone come lei meritano.
LanguageItaliano
Release dateApr 15, 2020
ISBN9788833284279
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    Dall'altro lato dei sogni - Simona Agrillo

    Capitolo 1

    Ore sei e quindici.

    Il solito bip riecheggiava nella stanza. Un suono così irritante da far uscire dal letargo anche un orso.

    Ancora intorpidita, Sabrina allungò la mano e, con lo stesso impeto di uno tsunami, lo bloccò.

    Ogni sera si augurava che ciò bastasse per farla scattare in piedi come un soldato, invece, a dispetto dei suoi buoni propositi, tutte le mattine era la solita storia: disattivava la soneria della sveglia con un movimento fulmineo, la mandava al diavolo e si girava sull’altro lato.

    Cedendo al richiamo di Morfeo, si nascose sotto alle coperte. Era quasi sul punto di cadere di nuovo nel sonno quando una specie di terremoto scosse la stanza: il pugno energico di sua madre che bussava alla sua stanza per poco non fece crollare la porta.

    «Sabrina sbrigati, altrimenti farai tardi!» esclamò la donna, tirando su la tapparella per far entrare la luce.

    «Altri cinque minuti...» piagnucolò lei, nascondendo la testa sotto al lenzuolo.

    «Su su! Possibile queste scene tutte le sante mattine? Devi andare a scuola», ordinò, categorica.

    Arrotolata su se stessa come un riccio, Sabrina emise dei mugolii incomprensibili. Non aveva alcuna voglia di alzarsi, ma se si fosse azzardata ancora a protestare, sua madre l’avrebbe costretta a svernare altrove con un bazooka.

    Sbadigliò a bocca spalancata mentre scollava la schiena dal materasso, poi sbuffò, producendo rumori che ricordavano più o meno dei grugniti. In quell’istante i suoi modi rispecchiavano più quelli di un facocero che quelli di una diciottenne piena di vita, ma era convinta che alle sei del mattino nemmeno una principessa si sarebbe preoccupata del bon ton, ci avrebbe scommesso la sua collezione di Barbie.

    Quando si decise a mettere i piedi a terra, il pavimento freddo le fece venire i brividi. Contrasse i polpacci e per qualche istante lasciò appoggiate al lucido grès porcellanato solo le punte degli alluci, poi si fece coraggio e rimise i talloni sulle piastrelle.

    Si alzò a fatica e con la velocità di un bradipo trascinò fuori dalla camera le sue pesanti membra, stanche ancor prima di cominciare la giornata.

    «Voglia di studiare saltami addosso», ironizzò la madre.

    Sabrina fu sul punto di mandarla a quel paese e fiondarsi di nuovo sotto alle coperte, ma aveva i minuti contati e desiderava continuare a vivere.

    Non si poteva dire che avesse un rapporto idilliaco con l’ambiente scolastico; non a causa dei voti – tutto sommato se la cavava – ma dei rapporti con i suoi compagni, che lasciavano alquanto a desiderare. Gli amici che aveva si contavano sulle dita di una mano. Pochi ma buoni, si consolava.

    L’unica ragione capace di convincerla a lasciare le calde lenzuola era la speranza di vedere Mattia, il suo compagno di classe per il quale aveva una cotta dalla prima liceo. Quest’ultimo, però, la evitava in maniera sistematica da quando lei aveva fatto il madornale errore di dichiararsi, ottenendo come risultato un bel due di picche e una terribile figuraccia da aggiungere all’album dei momenti da dimenticare.

    Se avesse potuto, sarebbe volentieri tornata indietro a quel giorno per mordersi la lingua, ma sapeva bene che i salti temporali erano permessi solo nei film e nei romanzi di fantasia.

    In attesa che il cervello terminasse il preriscaldamento e che le sue facoltà mentali riprendessero a funzionare a pieno regime, si diresse in maniera meccanica in bagno e accese la luce.

    Sobbalzò quando si vide riflessa nello specchio. Nelle condizioni in cui si trovava avrebbe fatto rabbrividire anche un dinosauro: nottetempo il cuscino le aveva disegnato la griglia del tris su una guancia e i suoi ricci indisciplinati sembravano appena usciti da una seduta di cotonatura. Una lacrima le era scesa lungo il volto, aprendosi la strada attraverso la sbavatura di mascara che la sera prima non aveva avuto voglia di togliere, incurante dell’inevitabile effetto panda che si sarebbe creato dopo otto ore di sonno.

    Aveva pressappoco una trentina di minuti per cancellare l’impressione che il suo viso fosse stato dipinto da Van Gogh, vestirsi in maniera decente, preparare lo zaino e volare a prendere il treno. Se avesse perseverato con quella flemma avrebbe saltato di nuovo la prima ora di lezione, e non poteva proprio permetterselo: in classe l’attendeva quell’isterica della professoressa di matematica, con i suoi immancabili sette strati di fondotinta, l’osceno rossetto bordeaux che dalle labbra scivolava impavido sulla dentatura ingiallita dalla nicotina, e il suo amato tailleur scozzese anni Settanta, più simile a una tovaglia da picnic che a un capo d‘abbigliamento.

    L’esame di maturità non serve solo a verificare le vostre conoscenze, ma anche se siete finalmente diventati adulti e responsabili, cantilenava ogni volta la prof con fare austero, puntando l’indice bitorzoluto verso ciascuno di loro. La sua perla di saggezza preferita, che dispensava quando le si presentava l’occasione.

    Sabrina non aveva alcuna intenzione di sorbirsi la solita paternale, perciò era proprio il caso di mettere il turbo.

    Alle sette in punto era pronta e operativa.

    «Io scendo!» urlò dalla soglia di casa, rischiando di svegliare l’intero condominio.

    «Ciao piccola! Hai preso tutto quello che ti serve?» domandò sua madre dalla cucina.

    Odiava quando la chiamava piccola.

    «Sì mamma», rispose, seccata.

    Prima di chiudere la porta, diede comunque un’ultima sbirciata nello zaino, per sicurezza. Libri, quaderni, astuccio, diario: non mancava nulla. Il cellulare era incollato a una gamba, infilato nella tasca dei jeans a zampa di elefante che adorava.

    Tastò tutte le tasche che le restavano. «Le sigarette», bisbigliò.

    Sabrina non usciva mai senza un pacchetto di Merit e il suo fidato accendino con la bandiera dell’Inghilterra, regalo di sua cugina Mina.

    Tornò in camera, afferrò al volo quello che le serviva e scappò, lanciando un ultimo e rapido saluto ai suoi.

    In quel momento non poté fare a meno di invidiare suo fratello Federico: quel giorno per la sua classe era prevista la rotazione, un metodo utilizzato dalla sua scuola per ospitare le classi della sede succursale, inagibile a causa dei lavori di ristrutturazione dell’edificio. Per lui, quindi, non erano previste lezioni. Nel futuro del caro fratellino troglodita si prevedeva una intera giornata di ozio totale. Avrebbe parassitato in panciolle davanti alla PlayStation o poltrito sul divano trangugiando merendine. Il massimo dello sforzo che avrebbe fatto sarebbe stato spostare il sedere per andare a prendere il telecomando della TV. Forse non si sarebbe nemmeno lavato. Che schifo.

    Sabrina aveva a disposizione meno di dieci minuti per raggiungere la stazione, perciò, come tutte le mattine, doveva camminare a passo svelto per non rischiare di perdere la Circumflegrea che, però, per sua fortuna, non era mai puntuale. Abitava infatti in un paesino della provincia di Napoli, con più di quarantamila abitanti e cinquant’anni di arretrati tecnologici.

    «Dannazione!» imprecò, picchiettando nervosa il dito sul pulsante di chiamata dell’ascensore all’ingresso della stazione.

    Era guasto. Le sarebbe toccato salire a piedi con una mini-cartolibreria caricata sulle spalle.

    In cima all’ultima rampa, appoggiata alla ringhiera, c’era la sua amica Stefania. Vestita di tutto punto anche per andare a scuola, sprigionava bellezza dall’alto dei suoi centottanta centimetri più dodici di tacco. Quando camminavano fianco a fianco sembravano l’articolo il, e spesso Sabrina si sentiva a disagio, sicura com’era di non poter reggere il confronto.

    Tuttavia, nonostante non superasse il metro e sessanta, era proporzionata, magra il giusto e piuttosto carina. L’unico neo era il suo naso maledettamente dantesco, come lo definiva lei, che era il suo tormento fin dalle elementari. Purtroppo, a causa di quel gibbo aquilino, non riusciva a passare inosservata e un numero indefinito di ragazzini dal cervello non più grande di un acino d’uva trovava divertente affibbiarle i nomignoli più disparati, etichette che l’avevano accompagnata nel corso dell’infanzia e dell’adolescenza e che ormai si sentiva tatuate sulla pelle.

    A causa del suo naso Sabrina non si piaceva, di conseguenza non si preoccupava di curare molto il suo aspetto. A differenza dell’amica, non era affatto un tipo alla moda. Non indossava magliette attillate o scollate, né minigonne, ed evitava gli abiti appariscenti: pailette e lustrini psichedelici non sarebbero mai entrati a far parte del suo guardaroba nemmeno se le avessero offerto un milione di euro. Jeans, felpe e scarpe da ginnastica, questa la sua divisa d’ordinanza. Considerava i tacchi alti scomodi strumenti di tortura, mentre trovava eleganti un bel paio di anfibi neri con le stringhe sciolte.

    Il trucco, poi, era suo nemico. Si concedeva giusto un velo di mascara e un leggero strato di lucidalabbra, sempre e solo alla vaniglia, la sua essenza preferita. Stop.

    In realtà avrebbe desiderato vestire in maniera più femminile, ma preferiva nascondersi piuttosto che farsi notare. A questo, ci pensava già il suo naso.

    «Ciao Sabry», la salutò Stefania, masticando un chewing gum.

    «Ciao Stefy», rispose con il fiatone, poi le due amiche si scambiarono un paio di baci sulle guance.

    «Allora, hai fatto l’analisi di Alla sera?» domandò Stefania, tanto per fare conversazione.

    «Mmm… In verità non ci ho capito granché. Foscolo uno, Sabrina zero. Mi ha messo al tappeto.»

    Con le materie umanistiche, latino a parte, Sabrina non se la intendeva granché: Manzoni, Pascoli, Verga e tutto il circolo letterario le erano proprio indigesti. Per non parlare di storia: solo se qualcuno le avesse aperto la testa e ci avesse infilato dentro date ed eventi forse – ma non ci avrebbe giurato – sarebbe riuscita a memorizzarli. Lo stesso valeva per le lingue straniere, che proprio non riusciva a imprimere nel suo cervello: con l’inglese raggiungeva a stento la sufficienza e con il francese faceva fatica a stare al passo. In compenso, però, era un asso con le materie scientifiche: matematica, chimica, biologia, fisica e geografia astronomica erano quelle che masticava meglio.

    «Quando arriviamo ai muretti ti do qualche dritta», la consolò Stefania.

    «E magari mi fai anche scopiazzare. Per pietà, ti supplico!»

    «Non vuoi fare un tentativo per provare a capirci qualcosa? Magari riesci a fare un paio di versi da sola…»

    «Allora comincia a pregare.»

    «Perché?»

    «Perché mi ci vorrebbe un miracolo.»

    Stefania scosse la testa e le sorrise.

    Oltre a essere attraente e brillante, Stefania era anche la migliore della classe, ed era sempre pronta a tendere una mano a chi ne aveva bisogno.

    «Sai Sabry», riprese, «non hai un gran bell’aspetto stamattina. Sembra che tu abbia messo le dita in una presa elettrica!»

    Con la stessa velocità con cui aveva cambiato discorso, Stefania passò una mano – a suo rischio e pericolo – tra i capelli di Sabrina nel tentativo di darle una sistemata. Pessima decisione: rimase incastrata a metà percorso.

    Sabrina cercò di aiutarla districando con delicatezza i nodi ostinati, una pratica che non apprezzava in modo particolare.

    «Di solito sono ribelli, stamattina però sono proprio indomabili», ammise. «Sarà l’umidità.»

    «Va bene, lasciamoli stare, può darsi che si sistemino da soli. Piuttosto, come sta tua nonna?»

    Sabrina abbassò lo sguardo cercando di trattenere le lacrime, che sembravano sgomitare per uscire. Stefania aveva toccato un tasto dolente.

    «Non migliora e i medici non si pronunciano.»

    Non aveva voglia di parlarne: non riusciva a capacitarsi che la sua nonnina, l’arzilla ultraottantenne che fino a un paio di mesi prima si divertiva a gironzolare per negozi, si fosse ammalata, così, all’improvviso e fosse finita d’urgenza in ospedale.

    La morte è qualcosa di naturale, una tappa inevitabile nel cerchio della vita, si diceva, tuttavia non riusciva proprio ad accettare che forse non avrebbe più rivisto la sua amatissima nonna. I medici non si erano sbilanciati, ma avevano lasciato intendere che quella, purtroppo, era una possibilità tutt’altro che remota.

    L’apparire del treno in lontananza le lanciò un più che gradito salvagente e in meno di un secondo l’argomento rimase parcheggiato sulla banchina della stazione.

    Le attendeva un travagliato viaggio di quaranta minuti.

    Come da prassi, Sabrina e Stefania avrebbero raggiunto altri compagni di classe nello scompartimento di coda. Erano ormai cinque anni che si incontravano lì.

    Salvo, Alessio e Susanna prendevano il treno un paio di fermate prima di loro, quando le carrozze non erano ancora super affollate, e riuscivano ad accaparrarsi qualche posto vicino ai finestrini.

    «Ehi! Siamo qui!»

    Susanna si sbracciava per farsi notare e le due amiche si sbrigarono a raggiungere gli altri, cercando di evitare di cadere alla prima curva.

    «Buongiorno a tutti!» recitarono in coro.

    Terminati i convenevoli, si passò a parlare del compito di filosofia, previsto per le ultime due ore.

    «Stefania, ho bisogno di te, please», implorò Salvo, sfoderando due occhioni da cerbiatto. «Ho qualche problemino con il dualismo kantiano.»

    Sabrina sentì l’ansia invaderle il petto e provò un impeto d’odio per il compagno.

    Salvo non smetteva di sfogliare le pagine del libro, ormai ridotto a un campo di battaglia. Aveva la fissa per gli evidenziatori e con questi imbrattava il testo; ogni colore indicava il grado di importanza dei vari periodi, e questo creava una specie di arcobaleno dagli strani effetti ipnotici. Asseriva che con quel sistema assimilava meglio. Sabrina, invece, vedeva solo caos.

    «Salvo, per favore, lascia stare. Ci penseremo poi», obiettò Alessio, chiudendogli il libro tra le mani.

    «Parli bene, tu, che con la filosofia ci vai a braccetto! Io non ci capisco un tubo! A che cosa serve sapere quello che pensava uno sconosciuto secoli fa? Spiegatemelo, spiegatemelo!»

    «Salvo, stai perdendo il lume della ragione. Ha detto bene Alessio: metti via il libro. Facciamoci prendere dal panico quando arriveremo nell’androne della scuola, non prima, ti va?»

    Sabrina sorrise e cercò di impossessarsi del volume, che stava diventando vittima della sua follia.

    Lo squillo del cellulare di Susanna interruppe la conversazione. Di sicuro si trattava di Giorgio, il suo fidanzato storico, studente dell’ITIS adiacente al loro liceo. Stavano insieme dal primo anno, sempre avvinghiati come polpi, e quando non si vedevano erano perennemente attaccati al telefono. I primi tempi Giorgio non era piaciuto a nessuno: era burbero, prepotente e voleva sempre avere l’ultima parola. Con l’andare del tempo, però, avevano imparato a conviverci, anche se in realtà, sebbene fossero passati cinque anni, nessuno si definiva suo amico. Era sempre e solo il ragazzo di Susanna.

    Quando lei rispose alla chiamata, le sue guance divennero rosse come la mela di Biancaneve. Dopo tutti quegli anni, ancora si emozionava.

    I ragazzi tacquero, lasciando spazio al brusio nella carrozza, che invece aumentava di fermata in fermata. Come tutte le mattine, era arrivato il momento in cui ognuno si lasciava cullare dal dondolio del treno, immergendosi nei propri pensieri.

    Susanna continuava a pomiciare al cellulare; Stefania canticchiava tra sé, armata di specchietto e gloss rosa corallo, per il primo ritocco della giornata; Salvo sembrava una pila elettrica, tanta era la preoccupazione per il compito, mentre Alessio era in pratica entrato in coma. Su di lui il treno aveva un effetto soporifero. Si sarebbe potuta scatenare la terza guerra mondiale, ma non avrebbe battuto ciglio fino a fine corsa.

    Sabrina sfilò l’iPod dalla tasca dello zaino e fece partire la sua canzone preferita. Cercò con tutte le sue forze di non pensare a Mattia ma, puntuale, la sua immagine si materializzò davanti ai suoi occhi.

    Desiderava tanto vivere una favola, come una bambina, anche se era consapevole di non avere nemmeno una chance: l’ultima volta che aveva tentato di sciogliere il ghiaccio che si era creato tra loro, Mattia era stato irremovibile e aveva ribadito a chiare lettere che non era interessato e che non voleva avere niente a che fare con lei.

    Sabrina si sentiva logorare, ma continuava a vederlo nella sua mente e a inventarsi scene d’amore e passione peggio che in un romanzo di Rosamunde Pilcher. Nella realtà, invece, Mattia si circondava di belle ragazze, con cui faceva il cretino. Bionde o more, intelligenti o galline, non faceva differenza, bastava che avessero un fisico da modella e vestissero all’ultimo grido.

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