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Morgane: Regnum
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Morgane: Regnum

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Roberto è uno stimato nobile della Palermo normanna, ricco e con la nomina di essere l’uomo più fedele del re. Di notte però Roberto governa le anime nere del Regno, essendo il capo di un gruppo di vendicatori senza identità i cui giudizi sono inappellabili perfino per lo stesso sovrano. 
Siamo alla fine del XIII secolo, all’epoca di Guglielmo II, detto il Buono. 
Il forte senso di giustizia di Roberto e la sua lealtà al re hanno sempre camminato di pari passo, ma un giorno Guglielmo gli affida la missione più controversa della sua vita. Dovrà accompagnare la principessa Costanza fino a Milano, dove questa dovrà sposare Enrico, il figlio di Barbarossa. Essendo Costanza l’erede di Guglielmo, questo significa consegnare il futuro del Regno nelle mani di Barbarossa... non certo il più amato dei sovrani. Roberto tentenna, ma poi decide di obbedire. Questo tuttavia lo porterà a scontrarsi con coloro che sono avversi all’ultima decisione del re, soprattutto con un certo Ermanno, un uomo ambiguo di cui Adelicia, figlia di Roberto, arriverà ad innamorarsi. 
Il viaggio per Milano è lungo e irto d’ostacoli. Roberto sa che può farcela, ma le sue certezze vengono meno quando si imbatte in Diamante, una donna talmente ammaliante e diabolica che sembra essere la personificazione del Male. La missione di Roberto si trasforma così in una lotta interiore, contro gli allettamenti del peccato e contro ciò che finora ha ritenuto essere giusto. 
Una mattina, guardando il mare dello Stretto di Messina, assiste poi ad un’evento sovrannaturale: sulla superficie delle onde appare un palazzo dai contorni sfocati. Non è il primo a osservare quel miraggio; si tratta infatti di un sortilegio della fata Morgana, un essere leggendario che ha lo scopo di sviare i propositi dei nobili cavalieri. Roberto adesso è sicuro: Diamante è Morgana sono la stessa persona.
La lotta di Roberto contro i criminali del Regno si trasforma così in una caccia alle streghe piena di colpi bassi e di colpi di scena. Ma quando Roberto subisce il giudizio dei vendicatori che lui stesso ha comandato, allora comprende che nulla è più scontato e che forse bene e male hanno bisogno di essere rivalutati. 
 
Un romanzo che ripercorre la vicenda dei Beati Paoli e la nascita del sentimento mafioso. Un romanzo all’apparenza intriso di elementi fantastici, ma in realtà intrinsecamente storico, a dimostrazione che la percezione della storia non può prescindere dalla suggestione di chi l’ha vissuta.
LanguageItaliano
Release dateApr 27, 2020
ISBN9788835816843
Morgane: Regnum

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    Morgane - Giovanni Mongiovì

    Parte I

    La congrega del Sancta Sanctorum

    Capitolo 1

    Estate 1185, notte di plenilunio, Balermus

    [1] Il gocciolare perpetuo di una conduttura sotterranea si sincronizzava al battito del cuore dei passanti. Il fluente scorrere di un qanāt [2] parallelo indicava quale via percorrere in quel dedalo di scale, cunicoli e grotte. E poi ecco aprirsi la grande sala, l’ipogeo segreto, l’ombelico di Palermo, lì dove la calura estiva non sarebbe mai penetrata, luogo di rifugio per scampare allo scirocco che dall’Africa giunge e arde ogni cosa.

    Il calpestio di molti passi ruppe il monotono squittio dei topi. La luce di numerose candele penetrò nella grande sala e questa si presentò in tutto il suo mistero: rotonda, molto ampia e aperta al cielo tramite un oculo sul soffitto a volta. Adesso trenta uomini incappucciati di nero e vestiti con un saio del medesimo colore si disposero sui seggi ricavati nella roccia della parete circolare. I raggi della luna illuminavano una porzione della sala, la zona centrale, lì dov’era collocato lo stipo delle ostie. Il piccolo tabernacolo, proprio perché santificato dalla presenza del corpo di Cristo, era detto Sancta Sanctorum [3], e con tale nome gli uomini incappucciati avevano finito per chiamare l’intera sala.

    Si alzò ora colui che si era sistemato dirimpetto alla scala d’accesso e si diresse verso il centro.

    «Fratelli, dichiaro aperta l’adunata di questo plenilunio.» disse a gran voce.

    Giunse quindi nella grande sala un uomo vestito con i paramenti sacerdotali, calvo ma con una lunga barba grigia. Costui non nascondeva la sua identità.

    «Padre Silvano, la congrega vorrebbe cominciare subito!»

    Dunque il tizio che aveva parlato tornò a sedersi e lasciò la scena al prete. Questi portava appesa al collo la chiave del Sancta Sanctorum, e pure la custodiva gelosamente. Aprì perciò lo stipo e tirò fuori un pezzetto di carta, oggetto posizionato lì dentro da lui stesso. Padre Silvano era infatti il custode di quel luogo misterioso, oltre ad essere il sacerdote officiante della chiesa sotto la quale si apriva il cunicolo principale che portava alla grande sala.

    «Goffredo Mamuto, dei saraceni convertiti... uomo autorevole dei territori dell’Abate di Monreale.» annunciò padre Silvano.

    «Di cosa è accusato?» chiese sempre il solito incappucciato che parlava.

    Si alzò dunque un altro dei confratelli.

    «Ho fatto io la confessione a padre Silvano!»

    «Ebbene, spiegatelo voi!»

    Quest’altro venne allora verso il Sancta Sanctorum, proprio accanto al sacerdote, ed esordì:

    «Goffredo Mamuto è un vizioso rapace! Estorce ai villani pure quello che non hanno. Inoltre sottrae loro le figliole più belle per farne prostitute e i fanciulli per darli alla mercé di uomini deviati. Ha messo su un’industria vergognosa, tramite la quale si è arricchito.»

    Prese quindi la parola nuovamente l’incappucciato che dirigeva il processo.

    «La legge del Regno tutela la prostituzione delle povere donne, ma condanna a morte chi si arricchisce sui miseri corpi di queste peccatrici, così come commissiona il taglio del naso alla madre che vende l’onore della propria figlia. La pena capitale si prospetta anche per il funzionario che estorce denaro facendo leva sulla sua posizione. Bene fratelli, se i mali di quest’uomo sono cosa a voi risaputa, e se i suoi peccati sono noti, vi prego di rivelare la vostra sentenza.»

    Partì il primo alla sinistra delle scale d’accesso e, alzandosi, disse a gran voce:

    «A morte!»

    La maggioranza imitò il primo; altri ancora rimasero seduti, non convinti o confusi sulla scelta.

    Se la sentenza a morte non avesse raggiunto almeno i due terzi della congrega, la decisione sarebbe stata rimandata, poiché si sarebbe resa necessaria un’approfondita indagine sulla questione. Questa volta, però, le idee sembravano essere piuttosto chiare; il crimine di Goffedo Mamuto era infatti risaputo in gran parte del Val di Mazara [4].

    «Ventitré membri di questa nobile congrega hanno proclamato che tale Goffredo Mamuto deve morire!» fece il solito.

    E quindi, guardandoli tutti, riprese:

    «Chi andrà?»

    Come c’era da immaginarsi, si fece avanti proprio colui dal quale l’accusa era partita. Questi allora si inginocchiò innanzi alla croce che padre Silvano gli mostrava e prese l’eucarestia, santificandosi in vista del sangue da versare.

    Così andavano le cose nella Palermo di Re Guglielmo II, detto il Buono. Così l’ordine pubblico veniva tutelato senza che il sovrano incorresse nel malcontento popolare o nell’involontario parteggiare per questa o quell’altra fazione. Così, nella segretezza e nel mistero, la società veniva epurata degli elementi pericolosi e sovversivi.

    Il ricordo delle spade lombarde levate sul collo dei saraceni era ancora vivido. E la memoria della strage dei lombardi come rappresaglia dei saraceni dell’esercito reale era una ferita che faticava a rimarginarsi. I tempi del primo Guglielmo, del Malo, erano lontani, ma sarebbe stato stolto ripetere gli stessi sbagli. Esistevano quindi gli incappucciati, freddi sicari pronti a soffocare nel sangue qualsiasi forza che avrebbe potuto destabilizzare l’ordine e la sicurezza. Essi erano i garanti del potere regale, gli estirpatori di ogni erbaccia velenosa che potesse contaminarlo. Tutto infatti doveva conservarsi come imponeva l’esistenza stessa del Regnum, tutto doveva rimanere uguale, poiché il cambiamento richiede spesso il sacrificio di chi sta più in cima.

    Si è detto che nulla è permanente eccetto il cambiamento. Per quanto però essa sia una verità innegabile e assoluta, si deve ammettere che è anche la più difficile da riconoscere come veritiera. Infatti, non si può accettare il cambiamento se non si è pronti ad accogliere anche ciò che non si ci aspettava di trovare. E così, di fronte al mondo che si trasforma si riconoscono due tipi di persone: i fautori del mutamento e i conservatori dell’ordine esistente. E dunque, a causa della cecità di chi non accetta e della tracotanza di chi vuol cambiare, tutto questo genera scontro, odio e violenza.

    Cosa resta allora di questa continua trasformazione? Da un lato la storia, cronaca concreta dei cambiamenti umani; dall’altro il mito, vicenda senza tempo, immortale e immutabile... generato dall’ostinazione di chi teme il cambiamento e sogna un mondo senza età.

    Roberto di Rossavilla era proprio un conservatore dell’ordine costituito, anzi, forse era il più convinto di tutti i conservatori. Era stato lui a dare vita alla confraternita degli incappucciati, quando anni prima, durante la reggenza della Regina Margherita, accorgendosi che il Regno fosse di nuovo sull’orlo di una guerra civile, aveva convinto il giovane Guglielmo della necessità di creare una scorciatoia alla giustizia. Così il Re aveva radunato trenta uomini della piccola nobiltà e del popolo e, sotto indicazione di Roberto, aveva fatto in modo che si incontrassero nella grande sala sotterranea. Solo Guglielmo conosceva dunque le identità degli incappucciati e solo lui poteva sostituirne i componenti qualora non godessero più del suo favore. Roberto aveva l’incarico di garantire l’esatto svolgimento del cerimoniale della confraternita e di far rispettare le leggi che la regolavano.

    Vero canale tra il Re e i trenta era invece padre Silvano. Costui raccoglieva gli ordini diretti di Guglielmo, i pettegolezzi del popolo e le confessioni degli stessi incappucciati, anche loro orecchie e voce dei mali del Regno. Padre Silvano non sapeva mai chi ci fosse oltre la tenda che lo separava dal confessante, sebbene sapesse riconoscere quando costui era uno della congrega. In ogni caso, qualunque fosse la modalità di ricezione del nome del colpevole, padre Silvano era obbligato a comunicarlo attraverso il rituale dell’apertura del Sancta Sanctorum.

    Vi erano molte altre regole che normavano la confraternita degli incappucciati, che se dovessero essere elencate non basterebbe un giorno intero.

    Goffredo Mamuto, dei saraceni convertiti, che convertito veramente non lo era mai stato, ottenne il pagamento dei suoi reati appena due giorni dopo. Venne ritrovato riverso nella mangiatoia del bestiame, pugnalato a morte dall’assassino della sacra congrega.

    Capitolo 2

    Estate 1185, Balermus

    Guglielmo era chiamato il Buono, ma questo non poteva soltanto attribuirlo ai suoi meriti. L’omonimia col suo predecessore aveva reso necessaria l’assegnazione di un nomignolo che lo contrapponesse al primo Guglielmo, detto il Malo, e poiché peggio di questi non avrebbe potuto fare, l’avevano definito il Buono. Il termine di paragone l’aveva quindi favorito, così come aveva favorito il suo ingresso nella storia come uno dei Re migliori della storia del Regnum. Ma d’altronde si sa, gli epiteti sono capaci di influenzare i giudizi dei contemporanei, così come quelli dei posteri, spesso e volentieri deviando l’attenzione sull’effettivo operato di chi lo porta.

    Dal momento che non aveva mai ostacolato apertamente le ambizioni della nobiltà, agli occhi degli ottimati Guglielmo buono lo era davvero. Certo, questa non era più l’epoca di Bonello - il ruolo di dissidenti era stato assunto da uomini di ben più basso spessore - ma di certo Guglielmo si era dimostrato un re conciliante. Basti pensare che i personaggi più in vista del Regno, ascoltati e accontentati dal sovrano, erano uomini che capeggiavano fazioni tra loro rivali: Riccardo Palmer, ora asceso alla diocesi arcivescovile di Messina; Matteo di Salerno, capo principale dei notai; e il potente Gualtiero, primo uomo di corte ed Arcivescovo di Palermo. Altra prova della bonarietà e accondiscendenza di Guglielmo era il ruolo che aveva affidato al cugino Tancredi, Conte di Lecce. Costui si era distinto durante le insurrezioni di venticinque anni prima come istigatore ed esecutore dell’attacco al trono di suo padre, eppure ora veniva utilizzato come generale del temibile esercito regio.

    Vi erano numerose contese, antipatie e rancori alla corte di Guglielmo, ma mai esse sfociavano in violenza e disordine, e prima ancora che questo potesse succedere, gli incappucciati risolvevano in maniera risoluta la questione. Dove la sacra congrega del Sancta Santorum poteva però poco era nella rivalità latente che intercorreva tra Matteo di Salerno, uomo d’umile origine ma legato alla casta dei funzionari e degli eunuchi di corte, e l’Arcivescovo Gualtiero, inglese di nascita e portavoce di una parte del baronato. Ognuno ovviamente cercava di tirare a sé la volontà di Guglielmo, facendo apparire vantaggioso per il Regno ciò che in realtà poteva svantaggiare il rivale e facendo sembrare svantaggiosa qualunque idea potesse favorire l’altro. Era successo così quando qualche anno prima Matteo di Salerno era riuscito a convincere il Re della necessità di creare una nuova diocesi che limitasse il potere di Gualtiero. Guglielmo temeva l’Arcivescovo e la sua straordinaria influenza sul popolo, perciò quando il Protonotario [5] gli aveva suggerito la cosa, aveva accettato. La zona dei dintorni di Palermo era una delle meno cristianizzate di Sicilia e la scusa addotta dal Re era stata proprio quella che quei territori necessitassero di un organo ecclesiastico potente e presente, non distratto dai problemi della capitale. Era nata così l’Abbazia di Monreale, elevata poi a sede arcivescovile, proprio ad una manciata di miglia da Palermo; un vero smacco per Gualtiero! Guglielmo aveva utilizzato così il potere della Legatia Apostolica [6] per ridimensionare il potere dell’Arcivescovo, e questi aveva assistito impotente alla mutilazione della propria diocesi e alla diminuzione dei propri introiti.

    Principale terreno di scontro dei due importanti ministri era ora la questione che riguardava la successione dinastica. Guglielmo infatti non aveva figli, e il matrimonio con Giovanna d’Inghilterra non aveva prodotto gli sperati frutti. Si vociferava perfino che la giovane Regina avesse fatto voto di verginità pur se sposata...

    Ormai chiaro che sul trono di Palermo non sarebbe asceso un figlio di Guglielmo, le parti contrapposte avevano proposto i propri successori.

    Matteo di Salerno indicava come prossimo sovrano Tancredi, figlio naturale del fratello del Malo. Questi non aveva l’aspetto di un re, o almeno non ne rispecchiava l’immaginario comune; era infatti basso e tarchiato, tanto che un nobile in vista aveva osato definirlo più simile ad una scimmia. Inoltre non era nato da un’unione legittima, e questo bastava a scandalizzare i puristi della successione dinastica. Tancredi era però l’unica risorsa propria del Regno, l’unica soluzione che avrebbe scongiurato la fine degli Altavilla sul trono di Sicilia; per questo era appoggiato da gran parte della nobiltà e del clero del Regnum. Matteo di Salerno, garante proprio di Tancredi, aveva fatto di tutto per mettere il suo pupillo in bella mostra, al punto da arrivare a fare di lui un generale dell’esercito e a spingerlo in sensazionali imprese militari.

    La soluzione proposta da Gualtiero era invece qualcosa che fino a qualche tempo prima nessuno avrebbe mai considerato. Re Ruggero aveva avuto una figlia postuma, ovvero nata dopo la sua morte. Ella era l’ultimo soggetto della sua prole e l’unica sopravvissuta della discendenza diretta del primo Re di Sicilia. Era sorella di Guglielmo il Malo e zia del Buono, ma di lei non si era mai chiacchierato. Emarginata da ogni interesse di corte, Costanza era finita in giovinezza col farsi suora. Gualtiero però teneva più agli interessi materiali che a quelli spirituali, e questo nonostante fosse il prelato più importante del Regno. Propose così a Guglielmo di farla smonacare e di darla ad un giovane principe straniero, affinché con tale atto fossero ipotecate nuove alleanze. Ed ecco il paradosso! Guglielmo aveva per tutta la durata del suo regno combattuto Federico Barbarossa, Imperatore d’Occidente, le cui mire espansionistiche puntavano proprio alla conquista della Sicilia, ma ora decideva di consegnare di sua spontanea volontà il Regnum al figlio di questi, Enrico, concedendogli la mano della propria zia. Un gesto apparentemente senza spiegazioni, le cui motivazioni potevano giacere solo in fondo a ciò che Guglielmo non avrebbe mai rivelato.

    Roberto era chiamato a risolvere gli affari sporchi mediante la congrega degli incappucciati e perciò compariva raramente al cospetto del Re. Un giorno d’estate, però, ed erano gli ultimi di luglio, il Buono volle vederlo.

    Accompagnato da un paio di soldati negri armati di alabarda, quelli della guardia personale del Re, Roberto percorse il viale principale del giardino antistante il palazzo. Si lasciò dunque la grande peschiera alle spalle e venne invitato ad entrare. Ciò che Roberto aveva dinanzi a sé era l’ennesimo magnificente edificio costruito dai re di Sicilia. Questo in particolare era stata iniziato dal Malo, durante i suoi ultimi anni, ma era stato ultimato dal nuovo sovrano. Si trattava del fiore all’occhiello dell’intero parco reale, tanto da essere stato battezzato al Azīza [7], in arabo la splendida. Si trovava insieme a tutti gli altri palazzi regi all’interno dell’immenso parco del Genoardo [8], un paradiso di estensione immensa che lambiva le mura cittadine e che si protendeva fino alle sorgenti del fiume principale di Palermo.

    Roberto vestiva di un semplice corpetto di cuoio, evocando l’armatura adottata un tempo dai guerrieri normanni. Indossava anche un mantello nero e un copricapo del medesimo colore da sotto il quale sbucavano i lunghi capelli grigi. Era molto alto, più della media, e conservava gli stessi magnetici occhi verdi di molti anni prima. Dei suoi cinquantotto anni gli ultimi quindici li aveva vissuti agendo nell’ombra, come capo della congrega del Sancta Sanctorum. Alla luce del sole egli era tuttavia uno stimato barone che campava di rendite e commercio, avendo ricevuto terre e titolo grazie al matrimonio con la lombarda Guida. Comunque sia, benché vivesse dei frutti dell’agricoltura, Roberto abitava a Palermo, lì dove le trame nascoste del Regno avevano bisogno di essere scovate e sciolte.

    La sala della fontana si presentava in tutta la sua bellezza. Non era la prima volta che Roberto la vedeva, ma come allora anche adesso provò un irrefrenabile stupore. I marmi policromi, i mosaici, le muqarnas [9], le scritte in arabo sull’arco d’accesso, il fluire placido della sorgente d’acqua nel solco del pavimento e tutto ciò che faceva apparire quel luogo esotico e più simile agli ambienti di un sultano... Dunque, pieno d’orgoglio per il fatto di servire il sovrano che aveva dato vita a tutto questo, Roberto esclamò estasiato:

    «Che meraviglia!»

    «La meraviglia sta nel ritrovare un amico forte e in salute!» controbatté il Re, giungendo da uno degli ingressi laterali della sala.

    «Sire!» salutò Roberto, chinando un ginocchio.

    A Guglielmo facevano seguito una decina di servi e serve, i più bei fanciulli e le più belle ragazze, tutti vestiti con morbidi e colorati abiti di seta. Il Re stesso, biondo e dal viso armonioso, si copriva con un lungo mantello blu, un pregiato tessuto imbellito con dei ricami dorati raffiguranti lo zodiaco, la luna e il sole. Portava anche una sorta di turbante giallo e delle pregiate scarpe con la punta all’insù. Guglielmo non smentiva la vocazione per l’oriente che tanto aveva contraddistinto i suoi predecessori.

    «Non vi uccide questa calura, Roberto? Non vi piacerebbe un po’ di svago tra la lussureggiante vegetazione del parco?» chiese il sovrano, ventilandosi con una mano.

    «In verità, mio Re, gli architetti di vostro padre progettarono questo edificio giusto per sfuggire all’afa che attanaglia Palermo nei giorni d’estate. I fornici sulla facciata, le mashrabiyya [10] per imbrigliare il vento, e questa sala dalle fresche acque, il cui soffitto giunge infino al piano più alto, per raffreddare l’ambiente dell’intero palazzo... Un sistema ingegnoso! L’ora più calda è appena passata e credo che non esista luogo in tutto il Regno con un’aria più piacevole di questa sala.»

    «Si può soffrire la calura pur non sentendola sulla propria pelle.»

    Comprendendo la metafora, Roberto chinò il capo.

    «Due cavalli.» ordinò Guglielmo a quelli della servitù, intanto che si spogliava del lungo ed ingombrante mantello.

    Vennero quindi fuori e presto furono loro portati due destrieri dal pelo lucido e lucente. Le guardie si premurarono a montare a cavallo per seguire il Re, ma questi, parando una mano dinanzi a loro, spiegò sorridendo:

    «Sono già nelle mani più sicure del Regno!»

    Lusingato, Roberto spronò il suo destriero per seguire Guglielmo, il quale partiva a gran velocità puntando verso un palmeto. Le morbide vesti del Re e il nero mantello del suo servitore svolazzavano all’indietro per la corsa dei loro cavalli. L’aria era ferma e calda, tanto secca che il sudore asciugava senza gocciolare.

    Quando Guglielmo decise di fermarsi, il suo ultimo palazzo era visibile in lontananza. Il più recente dei sollazzi regi, detto della Qubba [11], si elevava su un grande lago artificiale. Si riconoscevano la cupola, le forme squadrate e gli archi ciechi. Alberi di ogni specie adornavano quell’ambiente, rendendo tutto molto simile ad un sogno fiabesco. Più vicino vi era un padiglione di dimensioni più piccole, circondato anch’esso dal lago. I risolini di alcune donne si udivano a distanza; un gruppetto di una dozzina di concubine, sorvegliate da almeno cinque eunuchi, se ne stava sotto la cupoletta di detta costruzione, armate di lenze e reti da pesca poiché intenzionate a catturare i pesci presenti nello specchio d’acqua. Il Re e Roberto erano invece circondati da aranci e limoni, mentre un piccolo canale tagliava in due quell’ambiente tranquillo. Maestosi cigni reali dal piumaggio candido corredavano l’aspetto di quel luogo.

    Avevano incontrato un gran numero di servitori durante la loro cavalcata, ma adesso non vi era nessuno lì attorno, nessuno che potesse sentire ciò che il Re aveva da dire.

    Guglielmo scese da cavallo e, mentre si chinava sul canale e si gettava dell’acqua sul viso, esordì:

    «Goffredo Mamuto era molto amato tra la sua gente.»

    «I giudizi della santa congrega sono inappellabili, mio Re.»

    «Se la questione fosse stata risolta come nel caso di ibn-Hammūd sono sicuro che avremmo dovuto fronteggiare un’altra ribellione. I giudizi della santa congrega sono una manna dal cielo in giorni come questi!»

    Guglielmo citava il caso di un ricco ed influente saraceno che era stato accusato di sedizione, cosa che aveva provocato l’ira dei suoi correligionari. Un episodio emblematico che confermava quanto più efficaci fossero i metodi degli incappucciati.

    «In tutti questi anni siamo riusciti a garantire pace e ordine.» rispose con

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