Cannabis: Credevo fosse droga
Di Flavio Passi
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Info su questo ebook
Piccolo nelle dimensioni, ma non negli intenti; necessario perché affronta lucidamente tutti i pregiudizi morali e ideologici che ostacolano la coltivazione, la diffusione e l’uso della canapa, smontandoli a uno a uno con una narrazione che mescola abilmente la cronaca delle esperienze personali dell’autore con i fatti storici e scientifici; il tutto corredato da studi approfonditi e da una serie di dati statistici inoppugnabili e verificabili.
Con la sua prosa agile, senza fronzoli, ma sempre appassionata, Flavio Passi mette a nudo tutta l’ipocrisia e gli errori di valutazione sociali e politici che ancora oggi rendono molto complicato il libero uso della Cannabis a scopi ricreativi e terapeutici, lasciando che il suo commercio clandestino continui a foraggiare il mercato dello spaccio e tutta la rete criminale che ci gira intorno.
E soprattutto ce la presenta semplicemente per quello che è: una pianta officinale buona, utile e ingiustamente demonizzata.
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Anteprima del libro
Cannabis - Flavio Passi
Flavio Passi
Cannabis
Credevo fosse droga
Edizioni Effetto
www.edizionieffetto.it
Flavio Passi
Cannabis Credevo fosse droga
©Edizioni Effetto
tutti i diritti riservati
Prima edizione digitale maggio 2020
ISBN 9788835815976
Copertina: progetto grafico di Roberta Sanna
Quest'opera è protetta dalla Legge sul diritto di autore.
È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.
UUID: f87fe380-6913-49bd-9178-20eb027e2f8e
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Indice dei contenuti
Prefazione
Una necessaria premessa
PRIMA PARTE
Quadretto di famiglia
La mia prima volta
1995: il militare
2003: un nuovo incontro
Autunno 2010: la notte della scoperta
Il proibizionismo
Il sistema endocannabinoide
2011-2019: otto anni da bandito
E oggi, nove anni dopo, come sta Flavio Passi?
2013: vi racconto un’altra storia
Come dovrebbe essere trattata la Cannabis
I proibizionisti nostrani e la teoria dei buchi nel cervello
Alcol e cervello
La Cannabis e la guida
SECONDA PARTE
Prima considerazione: i mali del proibizionismo
Seconda considerazione: non è una droga
Terza considerazione: come mi ha migliorato la vita
Quarta considerazione: come mi ha peggiorato la vita
Quinta considerazione: la coltivazione per uso personale
Dicembre 2019. La Corte di Cassazione
TERZA PARTE
La legalizzazione e i giovani
La legalizzazione e le tasse
La legalizzazione e la sicurezza
La legalizzazione e la pace sociale
QUARTA PARTE
La Cannabis Terapeutica
APPELLO ALLE ISTITUZIONI
Note
Affronta i tuoi incubi
sguazzaci dentro
e poi gridali al mondo
Solo così sarai finalmente libero!
Flavio Passi
Prefazione
di Matteo Mantero
Quando si parla di canapa, che sia industriale, medica o ad uso ricreativo
(ad alto o basso contenuto di THC fa poca differenza), nell’immaginario comune si finisce subito per pensare a una droga . Proprio come recita il titolo di questo libro, tutti credevamo – anzi, crediamo – che sia una droga .
Quello impresso sulla canapa è uno stigma dei più difficili da cancellare. Il pregiudizio, che per ottant’anni si è alimentato delle più grandi assurdità e del bigottismo insito nel nostro paese, è così radicato che se anche se vi raccontassi per filo e per segno come la canapa abbia servito, vestito, alimentato e curato l’uomo fin dagli albori della sua esistenza, comunque lo stigma resterebbe: droga.
Per questo ho pensato di usare un trucchetto da scrittore per aggirare per un momento il pregiudizio che, volenti o nolenti, ci influenza ogni volta che ragioniamo di canapa.
Ipotizziamo che un potentissimo industriale riesca a inventare il modo per sintetizzare in laboratorio un discreto surrogato del vino; brevettando quel processo e riuscendo a far bere il suo vino artificiale a milioni di persone, avrebbe indubbiamente un vantaggio economico enorme. Tutti quelli che volessero produrre o commercializzare quel prodotto dovrebbero rivolgersi a lui e sottostare alle sue condizioni. Sarebbe lui a dettare il prezzo, un vero e proprio monopolio.
Il nostro industriale, chiamiamolo Mr. D, si rende subito conto di avere per le mani un potenziale enorme. Il suo vino da laboratorio, spinto dai suoi buoni contatti, invade in fretta gli scaffali dei supermercati, viene pubblicizzato sui giornali del suo amico e socio Mr. H. Le persone, mosse da curiosità, lo provano. Ma qualcosa ancora non va: per quanto nei suoi laboratori si sforzino di migliorarne il sapore, per quanto investa in pubblicità e distribuzione, la gente continua a preferire il vino prodotto dalla pigiatura dell’uva. Le infinite variazioni di bouquet , il profumo dei terpeni, la sapidità dovuta ai terreni dove cresce la vite e gli effetti dell’esposizione al sole non sono riproducibili in laboratorio. Per quanto Mr. D cerchi di ottimizzare il processo produttivo, la coltivazione dell’uva resta più economica e alla portata di tutti. Chiunque abbia un po' di terreno può piantare il suo filare e fare il suo vino, o può acquistarlo da chi lo produce ormai da centinaia di anni con amore e passione.
Il progetto di D e H è destinato a fallire, ma qualcuno ha un’idea illuminante: e se si sfruttassero i giornali di Mr. H per spargere la voce che il vino è una droga potentissima, che i suoi effetti sulle persone, soprattutto sui giovani, sono devastanti, che l’alcool trasforma i ragazzi in pazzi psicotici assassini e fa diventare le donne promiscue? In fondo un po' di vero c’è, l’effetto inebriante dell’alcool esiste.
Ecco così che nasce una potente campagna mediatica che, sfruttando il quarto potere
– i potenti mezzi comunicativi di Mr. H – e l’aiuto di Mr. A, un solerte agente del dipartimento anti-droga, arriva a forza di fake news e manipolazioni a convincere milioni di persone che la vite è una droga , a prescindere dalla sua varietà e dall’uso che se ne vuol fare. Viene addirittura inventato un nome da affibbiare a questa droga: agua caliente , un nome che ricorda minoranze etniche malviste dalla popolazione, in modo da generare maggiore confusione e timore nell’opinione pubblica.
A questo punto la strada è spianata: ai nostri industriali basta sfruttare i loro contatti al governo per far varare una legge che prima applichi una tassa pesantissima a chi coltiva o vende la vite – anzi, la pianta da cui si produce l’ agua caliente – e poi la vieti del tutto, arrestando e condannando chi ancora la coltiva.
Ecco che a questo punto il vino surrogato di D non ha più alcun concorrente: chi vuole bere vino è costretto a utilizzare il suo prodotto, che presto invade le nostre tavole e viene servito nei nostri bar e ristoranti.
D annuncia trionfante ai suoi azionisti che cambiamenti radicali della nuova legislazione tributaria del governo sarebbero potuti diventare uno strumento per accelerare la forzosa accettazione delle nuove idee per la riorganizzazione industriale e social e
, ovvero forzare il passaggio verso i prodotti sintetici.
Così, grazie a controlli schiaccianti, nel giro di pochi anni la coltivazione della vite letteralmente scompare, le aziende vinicole chiudono o si riconvertono al vino di sintesi; i pochi che continuano a coltivare qualche filare per produrre pochi litri di buon vino per sé e per la famiglia lo fanno di nascosto, per paura di essere considerati dei drogati e di finire in galera, trattati come pericolosi narcotrafficanti.
So già cosa state pensando: Che assurdità! Questo è lo scenario di un romanzo distopico di serie B!
Come darvi torto? È davvero impensabile che una pianta così importante per la nostra economia e così radicata nella nostra cultura come la vite possa essere messa al bando per l’effetto psicoattivo causato dall’alcool. Eppure questo è esattamente quello che è successo alla cannabis. Una pianta che i nostri nonni coltivavano abitualmente per la qualità della sua fibra, per farne farina da utilizzare come mangime per gli animali e olio da bruciare nelle lampade – e sì, anche per farsi una fumatina quando il mal di schiena dovuto al lavoro nei campi si faceva particolarmente sentire – è stata trasformata in una droga
e messa al bando per difendere gli interessi di pochi industriali americani.
C’è però una differenza sostanziale: mentre l’ubriachezza è generata da un’intossicazione da aldeide acetica (un prodotto della parziale ossidazione dell’alcool che il nostro organismo non è in grado di digerire e che alla lunga può causare gravi