Salmodiando con Petrarca - Saggio
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Salmodiando con Petrarca - Saggio - Pietrino Pischedda
633/1941.
PREFAZIONE
Il titolo di questo mio saggio, Salmodiando con Petrarca, dovrebbe già, a primo acchito, rendere curioso il Lettore e condurlo all’interno dell’opera per esplorarne il contenuto.
Quanto al contenuto, preciso subito che non intendo entrare assolutamente nei dettagli, apprezzabili ma spesso anche noiosi, relativi alla data, al luogo di composizione e al titolo originario del testo in questione. Illustri petrarchisti hanno già fatto questo lavoro di indagine e non è quindi necessario che io mi sovrapponga alle loro benemerite ricerche.
Ciò che a me interessa maggiormente è il dato spirituale del Petrarca, il suo vissuto clericale e quindi la sua preghiera espressa in versi sulla scia dei salmi davidici.
Ogni salmo ha la sua valenza e io cerco di immedesimarmi nell’orante recitandone i versetti e cercando di interpretarne lo spirito.
Che questi salmi abbiano carattere penitenziale lo si deduce man mano che si scorre su ciascuno dei versetti che li compongono.
Rimango perplesso riguardo all’accentuazione, talora esagerata, dei toni con cui il Petrarca esprime la sua contrizione per le colpe commesse. Può - mi chiedo - aver il Nostro commesso tanti gravi peccati da uscirne tramortito e chiedere perdono a Dio in maniera così plateale? Credo, però, che egli si proponga come exemplum di penitente, di uomo che, con tutte le debolezze proprie dell’essere umano, ogni giorno deve rapportarsi con l’Altissimo e chiedere perdono per le offese arrecate a Lui e alla comunità.
Leggendo i salmi penitenziali del Petrarca, possiamo pensare a un cristiano umile e pentito, sulle orme di Agostino, il quale considera l’uomo incapace di salvarsi se non è sorretto dalla grazia divina.
Certamente il vescovo di Ippona, con la sua conversione e la sua vita di fede, è un monumento esemplare di vita cristiana, che gioisce della presenza di Dio una volta libero dal peccato. Sia nella vita del santo che in quella del poeta c’è la presenza di una donna. Si tratta di una donna, per entrambi, che non appare fisicamente ma che diventa subiectum / obiectum peccati.
Che la donna sia soggetto / oggetto di peccato non è un dato di discussione tipico del Medioevo, ma è spesso un motivo, antico quanto il mondo, per incolparla del traviamento dell’uomo verso la perdizione. Eppure il Petrarca non ci dà mai una rappresentazione della donna in questo senso. L’esaltazione suprema della donna si ha nella celebrazione solenne di Maria nella Canzone Vergine bella, che di sol vestita
, anche se nella stessa chiede alla Madonna di essere liberato dall’amore terreno per Laura.
Mi chiedo di quali peccati possa essersi macchiato il poeta, di quali gravi peccati, soprattutto, possa sentirsi colpevole.
Ecco allora il mio sintonizzarmi e rapportarmi con l’uomo Petrarca, pieno di miserie umane, non scevro da debolezze e quindi incline al peccato della carne, dell’orgoglio, della sete di gloria, ecc.
Non posso però pensare che nella mente del Nostro covasse l’odio verso chicchessia, quando nei suoi salmi parla di nemici
. Forse ci sono stati nemici
che possono aver avuto dell’invidia per le sue glorie di poeta, come anche dei nemici
all’interno della Curia avignonese per i tentativi di convincimento del poeta di riportare il papato a Roma.
Il nemico numero uno, comunque, è da considerare sempre il diavolo, che si serve di tutti i mezzi per portare l’uomo alla rovina.
La ruina di cui parla il Petrarca è l’Inferno, di cui egli avverte l’orrore per via della mancanza della presenza di Dio in eterno.
Il timore dell’Inferno mi sembra piuttosto accentuato nell’animo del poeta ed è quindi comprensibile la sua richiesta a Dio di aiuto e di perdono, onde evitare la dannazione eterna.
Il suo rapporto con Dio, oltre che reverenziale, è confidenziale, amicale, filiale. Sotto le ali
di Dio si sente al sicuro, non può temere alcun male.
Il settimo e ultimo salmo chiude in bellezza, rivolgendosi a Gesù Cristo, perché nella sua misericordia lo rialzi dallo stato di prostrazione dovuto ai peccati della vita passata e lo sostenga con la sua grazia per sempre.
Questo viaggio virtuale, all’insegna della penitenza, compiuto insieme al poeta, mi ha convinto che la sua umanità, fatta di umiltà e di ammissione delle proprie debolezze, è motivo per me di incitamento per assumere un comportamento di vita simile al suo.
N. B. Testo di riferimento: Francesco Petrarca – opera omnia - psalmi penitentiales – letteratura: digilander.libero.it
Pietrino Pischedda
PSALMUS I
1. Heu michi misero, quia iratum adversum me constitui Redemptorem meum, et legem suam contumaciter neglexi.
C’è un diffuso senso di colpa nell’animo del poeta, anche se di ordinaria amministrazione, come del resto si può riscontrare in qualunque uomo soggetto alla fragilità trasmessa dai progenitori.
Il fatto è che a Petrarca, data la sua posizione di clericus e data la frequentazione della Curia avignonese, ogni minimo passo falso
pesa come un macigno nel suo voler essere un cristiano esemplare.
Il suo stato di povertà interiore, dovuto alla trascuratezza della Legge fa scatenare l’ira divina. Un quadro quanto mai fosco, questo, in cui il misero appare soccombente senza alcuna prospettiva di redenzione. Nei suoi momenti di solitudine, spesso voluti, il poeta immagina di essere giunto al dies irae, al cospetto di un Dio severo e irremovibile.
2. Iter rectum sponte deserui et per invia longe lateque circumactus sum.
La confessione si fa un po’ più aperta, dalla quale si evincono due elementi, benché non ancora ben specificati: l’abbandono della retta via e, di conseguenza, la sbandata. Tutto ciò non avviene casualmente o per sbadataggine, ma sponte, consapevolmente, di propria iniziativa. Il Nostro penitente lascia la strada giusta per perdersi in terreni impraticabili e pericolosi. Il richiamo alla selva oscura e alla diritta via dantesche mi pare ovvio o per lo meno opinabile, come anche al suo mentore quanto mai autorevole, Agostino, il quale, in fatto di confessione delle proprie colpevolezze, è palesemente schietto.
3. Aspera quelibet et inaccessa penetravi; et ubique labor et angustie.
Quali siano stati i luoghi aspri e inaccessibili nei quali è entrato il poeta non è dato sapere. Certamente si tratta di una metafora, che rispecchia la selva oscura dantesca e quindi lo stato di peccato, cui ogni uomo va incontro. Mi piace sottolineare questa consapevolezza, forse esagerata, del poeta nel sentirsi perennemente in colpa, fino ad angustiarlo e a provarlo in maniera seria.
C’è chi non si cura del proprio stato spirituale e chi, invece, avverte continuamente la propria κένωσις, il proprio vuoto spirituale, che vorrebbe riempire e colmare di beni di grazia duraturi.
4. Unus aut alter ex gregibus brutorum, et inter lustra ferarum habitatio mea.
Il peccato fa assomigliare più alla bestia che all’uomo, che è stato creato a immagine di Dio. È tale il disordine procurato dallo stato peccaminoso che l’uomo a un certo punto, in un momento di resipiscenza, si sente come un verme nascosto sotto terra o come una bestia che, per paura di essere sbranata da altre belve più forti di lei, vive rintanata. Ritorna il tema del nascondimento a cui si è