Botteghe di città
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Per fortuna, oltre alle capsule della ruota, qualcosa d’altro inizia a girare: il conte Grumelli di Altamura gli ha promesso un accordo interessante che potrà riabilitarlo.
Tra dire il fare, però, questa volta non c’è di mezzo il mare ma lunghi chilometri che lo separano dalla ricchezza agognata; chilometri affastellati e impervi, e la meta d’arrivo è un quadro che Mirko dovrà recuperare, se vuole evitare che l’accordo salti: Les choristes.
E quando sulla sua strada incontra la bella e ombrosa Maria, che gli ricorda un’altra bella e ombrosa che vorrebbe dimenticare, Mirko capisce che il gioco da ragazzi tutto è fuorché facile.
Un romanzo tinto di noir e azione, dove le apparenze ingannano e il denaro manovra i sentimenti... o forse no.
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Book preview
Botteghe di città - Ruggero Ruggiero
Luca
Identità sommerse
Indugiare prospettive provvidenziali è semplicemente utopia allo stato puro. Materiale accademico per poeti e intellettuali di bassa classe e non certo per me che sono campione in affari.
Riuscirò a risalire la china, tornerò a essere l’uomo più temuto di Parigi, così ricco da permettermi di colorare di corvino anche i capelli del nuovo presidente americano. Conquisterò nuovamente il mio prestigio a costo di calpestare ogni cosa, ogni luogo, ogni persona, ma per il momento subisco la brezza delle prime ore del mattino che accarezza il mio viso ancora intirizzito dal freddo del cemento dove sono coricato.
Non tornavo in Italia da quasi due anni. L’ultima volta che atterrai nella mia città natale fu con un volo charter Parigi – Roma, dove una sensuale donna dalle gambe affusolate e lunghe come trampoli mi accolse con un sorriso appena ristrutturato in qualche clinica balcanica. Fui accompagnato al resort prenotato dai soliti clienti della Roma perbene, che avevano organizzato un festino all’insegna dell’ilarità. Se paragono il baldacchino dell’hotel di quel tempo con questo lurido posto dove sono costretto a nascondermi per non essere catturato dalla polizia, abomino. La sporcizia tutt’intorno uguaglia le favelas argentine, mentre le folate di vento sono il risultato di un nauseabondo spruzzatore d’ambiente carico di uova marce.
Io che ho sempre pensato di essere imbattibile, mi ritrovo a vivere da barbone, costretto a dormire in un sacco a pelo che il mio amico Sciacallo ha recuperato alla Cartitas l’altro giorno e svegliarmi per il freddo all’alba, quando in passato l’inizio di un nuovo giorno era cadenzato dallo scroscio dell’acqua sotto la doccia non prima delle dieci e trenta.
Sfioro la cerniera per uscire dal bozzolo notturno, ma la fredda solidità della lampo fa ritrarre la mano come il tocco fugace di una potenziale folgorazione. Stento a muovermi per evitare che l’aria s’insinui all’interno di esso. Impreco che l’immobilità è la costrizione disgraziata dell’individuo, è un orologio senza lancette che devasta la tranquillità e mette in crisi l’autostima.
In questi momenti di poca considerazione, per evitare di maledire tutto e tutti seguo il consiglio di Sciacallo: sei Mirko Frisco, l’uomo più ambizioso della distribuzione di stupefacenti in circolazione. Per fortuna questo schifo sta finendo e fra qualche ora il mio aspetto cambierà. Addio capelli biondi con mèches e barba lunga; addio abbigliamento giacca e cravatta color salmone, addio collezioni di ventinove bracciali acutamente posizionati sull’avambraccio destro; il trentesimo, di pelle nera con un’ametista al centro, lo terrò come memoria di una storia che pensavo fosse amore.
Del mio nuovo look conserverei solo gli occhiali – color avorio regalo di un cliente stilista di Milano. Purtroppo non so dove siano. Li avrò persi durante il trasferimento da Parigi a Ginevra con il tipo che contattai usando internet, dove un sito offre passaggi in auto a basso costo senza molte garanzie sugli occupanti; oppure li ho lasciati sul bus da Ginevra a Torino. Non posso tornare al terminal e chiedere: Per caso avete rinvenuto un paio di occhiali bianco-avorio?
Proietterei su di me dubbi, potrei essere riconosciuto, segnalato, arrestato.
Da oggi sarò un altro uomo, così diverso da non essere riconosciuto neanche da Sciacallo, il quale continua a restare immobile sulla mia destra al punto di non avvertire il suo respiro. Certo, è abituato a questa vita, dopotutto quando lo rincontrai dopo anni che non avevo più sue notizie viveva per strada in un sobborgo di New York, ma mi chiedo come faccia a non spostare neanche una ciocca dei suoi lunghissimi capelli, maledettamente fini come corde di violino. Per quanto irritato, riconosco che devo molto a quest’uomo; se non fosse intervenuto irrompendo dal balcone dell’hotel dove Emili mi arrestò, ora sarei in galera.
Emili, maledetta poliziotta che si è finta dolce amante per incastrami... ogni volta che penso a lei, un formicolio sale dal torace per pulsare prorompente sulle tempie. Sento il mio volto irradiarsi di porpora maledicendo ogni istante, ogni attimo condiviso con quella donna.
Con flemma circospezione, sollevo il berretto di lana per sbirciare l’ora che l’orologio indica in prossimità dell’ingresso al centro commerciale: le otto e quindici. Fra quindici minuti le porte si apriranno e da lì a poco un folto numero di persone transiterà sulla scala sopra le nostre teste. Come tutte le mattine alcune circoleranno facendo finta di non vederci, ma sbirceranno con la coda dell’occhio la nostra casa di cartoni, le buste della spesa disseminate e unte, i brik di vino lasciati a terra. Faranno finta, voltando lo sguardo verso un punto estraneo a noi, di non notarci; perché si sa, i vagabondi sono raccapriccianti, ma la verità è un’altra: tutti temono il diverso e tutti confondono diffidenza per paura, affidando al lercio il proprio insindacabile giudizio. Nello stesso momento in cui le porte del centro si apriranno, inizierà a girare l’infernale ruota panoramica di trentaquattro cabine ognuna di esse di colore diverso. Dopo la spesa tutti hanno diritto a un giro gratis e tutti, nessuno escluso, ne approfittano, a discapito dei miei timpani. Più che un centro commerciale sembra un luna park per deficienti.
Giuro che appena riavrò il mio potere economico comprerò questo lurido centro commerciale, La Ruota
, per farne uno zoo cittadino.
Il rumore, da qui a poco, sarà così stridente che costringerà anche Sciacallo ad alzarsi, e come ogni mattina balzerà fuori dal sacco a pelo con uno scatto felino per entrare subito in partita. Sto contando i minuti, visto che oggi deve recuperare la mia nuova identità.
Otto e trenta in punto, una marcetta di altri tempi inizia a riecheggiare tutt’intorno, e con essa il diabolico gioco comincia a muoversi. Sciacallo apre gli occhi ricevendo il mio buongiorno. Il taciturno non risponde neanche a dirlo, abbozza solo un fugace sollevamento dello zigomo destro come segno di saluto. Gli chiedo se ha dormito bene. Di risposta mi dice che la lettura dell’ultimo capitolo del libro che ieri sera ha terminato lo ha incupito.
Accidenti, penso, più incupito di te c’è solo l’oltretomba.
Sottolineo con fermezza che deve fare attenzione. Non possiamo permetterci di essere scoperti, non siamo nelle condizioni di organizzare una fuga perché non abbiamo conoscenti e amici disposti a proteggerci. Lui, incurante, fa finta di niente per evitare di stimolare i miei nervi già di per sé scossi dalla situazione di disagio in cui mi trovo. Lo sguardo basso è il riflesso di chi mi conosce e sa che sono un uomo abituato a ogni tipo di lusso, a girare con un Audi TT e il cui unico interesse è trascorrere serate degustando champagne mentre si gioca a poker; ma ora sono come una caffettiera a vapore senza guarnizione pronta a esplodere. Continuo a rimproverarlo aspettandomi una minima reazione. Gli urlo che non può sedersi tutte le sere sotto il lampione con un libro in mano per leggere, perché desta sospetti e curiosità. Gli chiedo se ha mai visto un vagabondo leggere un libro sotto un lampione, ma l’arrabbiatura è smorzata dall’arrivo di un SMS dall’interno del sacco a pelo. Alzo gli occhi come chi si accinge a pregare, nella speranza che il messaggio sia quello che aspetto da due giorni. Recupero l’apparecchio, pigio il simbolo della bustina e il contenuto che si manifesta produce in me un senso di sollievo e di soddisfazione: L’affare si fa – portami domani la roba che ho gli ospiti giusti. Ciao. Conte Grumelli di Altamura.
Non sono mai stato abile nell’orientarmi, figuriamoci ora che devo muovermi senza essere notato. Da ragazzo, quando uscivo in comitiva, aspettavo sempre qualche amica che con disinvoltura fermasse un passante per chiedere indicazioni. Io, testardo, mi ostinavo a seguire il mio istinto, scoprendo solo da adulto che questa è una caratteristica normale per noi maschi; le donne sono più pratiche, sanno cogliere con facilità ogni vantaggio.
In ogni caso, anche se fossi in compagnia di una donna, la obbligherei a non chiedere nulla a nessuno per non destare curiosità e sospetto, e troverei autonomamente la destinazione nei pressi di via Milano, dove ho appuntamento fra meno di un’ora col barbiere.
Cammino a testa bassa per evitare occhi diretti che potrebbero riconoscermi, ma quando alzo lo sguardo capisco l’infondatezza della mia paura. Torino è una città talmente affollata che anche un pinguino passerebbe inosservato. Sorprendentemente scorgo un affascinante insieme di case e gente che si reca al lavoro o passeggia alla scoperta di emozioni storiche. A poche centinaia di metri, c’è la Mole Antonelliana. Quando la progettò Alessandro Antonelli come tempio israeliano, non poteva prevedere che sarebbe diventata un museo, eppure ci sono più ebrei ora che nel 1878. Mi muovo in direzione di Porta Palatina per raggiungere la mia destinazione. Sciacallo ha suggerito di seguire via Milano fino al monumento Conte Verde e poi svoltare in largo IV Marzo dove troverò il salone, nascosto e poco frequentato come volevo io. Mi raggiungerà con nuovi abiti e da oggi avrò una nuova identità. Mi chiedo quale nome avrà recuperato l’addetta all’anagrafe ex amante del mio rivenditore, spero solo che sia degno di me e di ciò che rappresento.
Tutt’intono regna un’area cinematografica di persone che si muovono come se fossero comparse di un set. Penso sia perché a Torino sono stati prodotti i primi film italiani e che quindi nel DNA di questa gente ci siano pellicole in bianco e nero, ma il frastuono di un martello pneumatico irrompe nei miei pensieri riportando l’attenzione sulla strada che devo percorrere.
All’incrocio con un viale, mentre un semaforo rosso indica ai pedoni di fermarsi, nasce la prima vera tensione della giornata. A causarla è una bambina di poco più di nove anni che mi guarda con insistenza, come a trovare nella mia persona qualche assonanza con un giocoliere da circo. È con la mamma insieme a un gruppo di turisti dall’accento napoletano, che impazienti vorrebbero passare. Faccio finta di non considerarla, ma la osservo con la coda dell’occhio per capire le future reazioni, che non tardano a presentarsi.
«Scusa, barbone, sai dov’è il Museo Egizio?»
La mamma interviene azzittendo la bambina con uno sguardo di rimprovero. Capisco dall’espressione che è un segnale di disprezzo per il mio aspetto. Dopotutto non si vedono in giro personaggi indossare vestiti eleganti ma sudici. Vorrei trattenermi, ma non voglio, anzi, desidero provocare una reazione nella donna, dunque rispondo che il Museo Egizio si trova a qualche isolato e le chiedo perché voglia vedere tombe e sarcofaghi. La mia risposta produce la replica della mamma, che redarguisce la piccola nel non dare confidenza a estranei, soprattutto sporchi. Che stupida: se solo sapesse chi sono, quanto sono stato ricco, che sono un falso barbone, si ricrederebbe. Nello stesso istante transita a velocità sostenuta un Audi TT bianco perla, la stessa che avevo io fino a pochi mesi fa. Abbasso lo sguardo verso la bambina per poi rivolgerlo alla mamma.
«Vede la macchina che è appena passata? Be’, era la mia.»
Il verde lampeggia: è tempo di attraversare. Meno male, perché credo che non avrei sopportato altre intrusioni simili. Il telefono trilla, lo recupero dalla tasca dei pantaloni: è Sciacallo.
«Che vuoi?»
«Principale, sei arrivato?»
«Ma che arrivato. Sono per strada. Hai recuperato tutto quello che dovevi?»
«Ancora no, capo.