La storia insegna
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La storia insegna - Pietro Sgambati
Prefazione
a cura di Dora Pelullo
Porsi domande è nella natura dell’uomo; cercare soluzioni, poi, è la qualità di chi non si accontenta e vuole di più. Pietro è tutto ciò.
Comincia con un tocco di leggerezza: descrive compagni di vita, pezzi di un percorso importante, dedicando loro poesie nitide, leali e limpidi come i loro rapporti. Si lascia ispirare dal passato e dal presente, decidendo di non lasciare nulla al caso, nella ferma convinzione che sia importante lasciar traccia di momenti e persone che, toccandoti, inevitabilmente ti cambiano.
Si serve, poi, di racconti brevi, dolci fiabe e fantastiche storie per dire la sua al mondo.
Viaggia nel tempo e lascia parlare uomini di ogni rango, fanciulle di tutte le età e addirittura straordinari animali che vogliono ricordarci che siamo più simili di quanto crediamo, noi, esseri di tutte le specie. Racconta il rispetto mai scontato, la lealtà dimenticata, il male gratuito e inspiegato, ma fa sempre vincere il bene, la pazienza di chi attende e crede che chi merita, alla fine avrà.
Racconta nella consapevolezza che la storia insegna, se la si sta ad ascoltare. E allora, da parte sua, propone soluzioni a problematiche di interesse comune, spaziando dalla Chiesa alla politica, dalla fede genuina, che è di tutti – credenti e non – al male di tutti, i potenti di turno.
Pietro ama la vita in ogni suo aspetto, crede fermamente nella giustizia, nell’amicizia che supera tempo e distanza, nell’amore oltre gli ostacoli. Trasuda valori in ogni sua riga.
Conoscere la storia dei libri di scuola è un dovere, provare a guardarla con occhi sempre nuovi e curiosi è ciò che fa la differenza tra chi impara e dimentica e chi ne fa tesoro per la vita.
Pietro: un autore d’altri tempi, al passo coi tempi.
Da lui non si può che imparare.
Dora Pelullo
Autrice di Se solo avessi coraggio
Laureanda in Scienze e tecniche psicologiche
PRIMA PARTE
Poesie
A Mio Padre
Un genitore sovente si domanda
se abbastanza fece per i suoi cari,
un figlio: teme non fu sufficiente
quanto per lui s’è adoperato;
ed in tal dilemma, perpetuo,
si strugge e si dissolve l’animo.
Il tempo continua la sua marcia
costante, forse lenta ma inesorabile,
lasciando dietro orme indelebili:
amarezze e felicità, speranze e
trepidazioni, appagamenti ed illusioni;
non sentenzia, non consiglia, documenta.
Il canto del gallo, il verde dei prati,
l’eco della montagna ed il cinguettio dei
passeri, il soffocato mormorio del ruscello
a valle, le fontane dalle acque salutari,
le diatribe elettorali della borgata,
stanno a significar che la vita va avanti!
Mentre il tuo corpo si lacera e si trasforma
la tua anima veglia sul loco che tanto amasti
costretto a lasciarlo ma che mai abbandonasti
la tua vita fu un invito alla semplicità,
al rispetto della natura e del divino,
senza rinunciar mai alle tue velleità.
Quella terra che instancabilmente curasti,
adesso protegge le tue spoglie stanche;
il tuo viso retto, calmo e ancora intatto,
testimonia che la morte non t’ha disfatto,
e lodato, per l’infinità del creato,
a Dio raccomandi questa ingrata umanità.
Il Giardino
La mattina, appena desto e sceso dal letto
al bagno vado e prima di fare il consueto gesto,
apro la finestra e miro con entusiasmo
il mio giardino che mi saluta soave,
e quasi volesse parlarmi e sussurrarmi
mi manda tutta limpida e pura una boccata d’aria.
E giro il capo a destra e a manca.
E gli occhi si posano tutto beati,
sulla vite, sul limone, sui fiori e prato
come l’artista che pronto a dipingere il quadro
nulla sfugge, ogni dettaglio resta vivo
affinché la mente ed il pennello lo scolpisce.
Più non posso aspettare anzi devo farlo;
poi, dopo un’occhiata ai pargoletti cari,
m’assicuro d’aver indosso panni e calze
e giù per le ferrose scale cauto vado
per non cascar e rompermi le costate
com’avvenne qualche tempo fa.
Talvolta un leggero e benevole vento,
lungo e di traverso, come volesse accarezzar,
gioca tra le piante, i fiori ed il prato;
mentre i passeri cinguettano allegramente
e si associano alla natura, invitano me medesimo
a cantar con gaudio le meraviglie del creato.
Nel mondo sì funesto, sempre più sciagurato
venite a guardar, com’è bello e naturale,
l’incanto che d’ogni parte emana.
L’animo riflette e s’accorge d’esser sviato,
sui passi falsi e pseudo felicità, si promette
di non ritornar; usar la ragion che tanto vale.
A Mia Figlia
E tutto d’un tratto, quasi per caso, in remoto passato,
tu, diletta mia, ormai stavi per arrivar.
Incerti e titubanti, ci mettemmo a sfogliar
la margherita: dolce fior di prato.
Eri in agguato! Decisa, pronta a scattar
per dire a tutti: Eccomi qua!
Un nome ci ingegnammo a cercar
che non fosse arcaico, anzi bello e attuale.
Incerti della tua identità, sicuri del tuo arrivo,
ora senz'altro desiderata; un tremito
le membra nostre percosse, al pensiero
che un fiore a recider stavamo.
Prima che la mite stagione s’affacciasse,
pochi preamboli, dolcemente sbocciasti.
Era sabato. Sette marzo, poche doglie,
al mondo gridasti: Eccomi qua!
Son Rossella e non Ivan,
nessun dubbio sull’identità.
Il dì della redenzione, lo squillare delle campane,
la primavera ben arrivata e gli alati svolazzar,
in chiesa con splendenti fiori adornata, fosti portata,
a ricevere la prima acqua santa.
La sposa col velo bianco ti salutò,
a Dio entrambi rendeste omaggio.
Rossella, pronunciò anche il prete,
insieme alla madrina negaste il male,
accettaste il bene. Un angelo dal Cielo
ti sorrise, ti sarebbe stato sempre accanto.
A sera fosti festeggiata, con suoni e canti.
Dall’alto la nonna si compiacque.
A Mio Fratello Mario
Eri per nostro padre, ciò
che Giuseppe fu per Giacobbe:
seguivi le orme di Pellegrino,
quando dissodavi il terreno;
seminavi, piantavi, raccoglievi.
Ti sollazzavi nell’arare la campagna,
mondarla dalla gramigna,
per donarla con altre sterpaglie,
bulbi adiposi, al minuto bestiame.
Ti seguiva Palumbo, il cane t’adorava.
Le donzelle ti mangiavano cogli occhi.
La campagna che amavi più di loro,
a sera, d’inverno, quando rincasammo
dal Colosseo dopo il film di cappa e spada
divoravamo salsicce e patate, al focolare.
Un mesto giorno, seguisti, tuo malgrado,
il cammino di tristi e speranzosi paesani.
Ti fu sollievo, nella Terra dei Franchi,
nell’alto Reno, Pellegrino trovasti.
Percepivi la mamma e la voce di papà.
Lì, la campagna seguitasti ad apprezzar,
sdegnasti fabbrica e miglior salario,
curare boschi, con piante e fiori abbellire
all’ordine del sindaco, la città di Brumath.
Ti rallegravi; pensavi sempre a papà.
Ti innamorasti; un’Alsaziana portasti
all’Altar. E le paesane costernate.
Ti avevano atteso, ansiose, invano.
Una villa erigesti quasi con le tue sole mani.
Tra i Franchi, Terra amica, giaci.
Sotto il Pergolato
Sotto la tettoia, innanzi alla casa di campagna,
la mamma, il pranzo per i braccianti, preparava;
a mezzogiorno, ad un tavolo di legna, adunati,
su sgabelli, panieri e sporte rovesciati,
il sospirato pasto si consumava.
A me piaceva, col consenso della mamma,
con loro, nella bella stagione a pranzar.
Zio Vincenzo, due e tre piatti di pasta,
specie con fagioli era capace di ingurgitar;
rifocillava più degli altri, altrettanto abile
a zappar e dissodar, tirava padrone e braccianti,
in ogni angolo del campo.
Ed io, le sue rughe non potevo contar,
notavo il suo volto, vegeto e chiaro.
Del fondo i braccianti, ristorati, nei dintorni
si spargevano, su un giaciglio a riposar.
Il saggio, accanto a me piaceva restar,
e storielle avvincenti, soleva riportare,
d’antico tempo, sotto il verde pergolato.
Allora, curioso, con occhi dilatati,
restavo allettato dal suo raccontar.
In alto, per distrarmi solevo mirar,
di chicchi acerbi, saturi e pendenti,
di fronde grondanti il pergolato,
rigoglioso, d’uva maestosa la raccolta