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Dietro gli occhi di un soldato
Dietro gli occhi di un soldato
Dietro gli occhi di un soldato
Ebook84 pages57 minutes

Dietro gli occhi di un soldato

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About this ebook

Il romanzo è la personale esperienza da soldato dell’autore, durante la missione italiana di pace nel Kosovo, povera provincia dell’ex Jugoslavia martoriata dalla guerra. Un libro che fa rivivere i momenti e gli stati d’animo di chi era in prima linea e operava con tanta difficoltà nell’inferno della guerra, dove violenza e odio sono i protagonisti assoluti di una sanguinosa realtà e dove povertà e fame rappresentano il crudo scenario con cui dover fare i conti ogni giorno, ogni ora, ogni singolo minuto. Un libro che è anche la maturazione personale di un uomo che si chiede chi è veramente e dove può arrivare, per contribuire con la sua goccia di pace e solidarietà a prosciugare l’oceano scarlatto e devastante della guerra. Un libro che rappresenta l’altra faccia della realtà, quella troppo spesso avida, sporca e corrotta, che divora tutto superando barriere e mascherando verità troppo scomode da poter rendere pubbliche.
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateApr 20, 2020
ISBN9788831668934
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    Book preview

    Dietro gli occhi di un soldato - Mirko Giudici

    Prefazione

    Il ro­man­zo è la per­so­na­le espe­rien­za da sol­da­to dell’au­to­re, du­ran­te la mis­sio­ne ita­lia­na di pa­ce nel Ko­so­vo, po­ve­ra pro­vin­cia dell’ex Ju­go­sla­via mar­to­ria­ta dal­la guer­ra.

    Un li­bro che fa ri­vi­ve­re i mo­men­ti e gli sta­ti d’ani­mo di chi era in pri­ma li­nea e ope­ra­va con tan­ta dif­fi­col­tà nell’in­fer­no del­la guer­ra, do­ve vio­len­za e odio so­no i pro­ta­go­ni­sti as­so­lu­ti di una san­gui­no­sa real­tà e do­ve po­ver­tà e fa­me rap­pre­sen­ta­no il cru­do sce­na­rio con cui do­ver fa­re i con­ti ogni gior­no, ogni ora, ogni sin­go­lo mi­nu­to.

    Un li­bro che è an­che la ma­tu­ra­zio­ne per­so­na­le di un uo­mo che si chie­de chi è ve­ra­men­te e do­ve può ar­ri­va­re, per con­tri­bui­re con la sua goc­cia di pa­ce e so­li­da­rie­tà a pro­sciu­ga­re l’ocea­no scar­lat­to e de­va­stan­te del­la guer­ra.

    Un li­bro che rap­pre­sen­ta l’al­tra fac­cia del­la real­tà, quel­la trop­po spes­so avi­da, spor­ca e cor­rot­ta, che di­vo­ra tut­to su­pe­ran­do bar­rie­re e ma­sche­ran­do ve­ri­tà trop­po sco­mo­de da po­ter ren­de­re pub­bli­che.

    La Partenza

    Era­no le 2:00 di not­te e non riu­sci­vo a chiu­de­re oc­chio. Ero to­tal­men­te spro­fon­da­to in un vor­ti­ce di pen­sie­ri che cre­de­vo che la te­sta da un mo­men­to all’al­tro sa­reb­be esplo­sa. Fi­nal­men­te, ero ar­ri­va­to a po­che ore dal mio gior­no, dal gior­no del­la par­ten­za.

    Quel­la not­te fu la più lun­ga del­la mia vi­ta. Nel­la mia te­sta, i pen­sie­ri gi­ra­va­no co­me pal­li­ne im­paz­zi­te, mi fa­ce­vo tan­te do­man­de al­le qua­li non riu­sci­vo a da­re una ri­spo­sta.

    Le lan­cet­te dell’oro­lo­gio fa­ce­va­no le 03:30 e do­po un’ora cir­ca mi do­ve­vo al­za­re per pre­pa­rar­mi.

    Den­tro di me sen­ti­vo di es­se­re con­ten­to e di es­se­re fi­nal­men­te ar­ri­va­to a ciò che più vo­le­vo. Ave­vo at­te­so con an­sia quel gior­no, e ades­so che sta­vo ad un pas­so, qual­co­sa den­tro di me mi tor­men­ta­va.

    Al­le 04:30 suo­nò la sve­glia sul mio cel­lu­la­re, ma io ero già sve­glio da un pez­zo. Era ar­ri­va­ta l’ora di pre­pa­rar­si. Fuo­ri era an­co­ra buio pe­sto e co­min­cia­va a pio­ve­re.

    La mia ca­ser­ma fa­ce­va par­te del­la Bri­ga­ta Arie­te e si tro­va­va a Ma­nia­go, un pic­co­lo pae­si­no vi­ci­no Por­de­no­ne, a ot­to­cen­to chi­lo­me­tri da ca­sa.

    Do­ve­va­mo fa­re in fret­ta, cer­can­do di non sve­glia­re gli al­tri com­mi­li­to­ni che non sa­reb­be­ro par­ti­ti con noi. Ma fe­ci pre­sto a ca­pi­re che quel­la not­te fu­ro­no ve­ra­men­te in po­chi a chiu­de­re oc­chio.

    In un at­ti­mo, ve­de­vo i miei col­le­ghi schiz­za­re su e giù per pre­pa­rar­si. Chi si ve­sti­va, chi met­te­va le ul­ti­me co­se in va­li­gia, chi cor­re­va in ba­gno per ra­der­si la bar­ba.

    Sem­bra­va­mo im­paz­zi­ti. Ave­vo si­ste­ma­to le ul­ti­me co­se, mi guar­da­vo al­lo spec­chio del mio ar­ma­diet­to di­cen­do­mi che, se tut­to fos­se an­da­to li­scio, avrei ri­vi­sto i miei oc­chi ri­fles­si in quel­lo stes­so spec­chiet­to do­po quat­tro me­si.

    Du­ran­te quei mi­nu­ti mi ac­cor­ge­vo che in tut­te quel­le ope­ra­zio­ni che sta­va­mo fa­cen­do tra­spa­ri­va sui no­stri vol­ti l’im­ma­gi­ne del­la pau­ra. Ave­vo riem­pi­to be­ne lo zai­no, ci ave­vo mes­so tut­to ciò che po­te­va ser­vir­mi.

    Chie­si a Li­vio, il mio col­le­ga di stan­za, di aiu­tar­mi a met­te­re lo zai­no sul­le mie spal­le. I col­le­ghi che in­ve­ce ri­ma­ne­va­no in ca­ser­ma ci guar­da­va­no con in­vi­dia, ma nel­lo stes­so tem­po era chia­ro che, in fon­do, di­spia­ce­va an­che a lo­ro ve­der­ci an­dar via. Sa­lu­tai il mio ami­co Al­do, con cui ave­vo le­ga­to più di tut­ti. Lo ab­brac­ciai, lui mi sor­ri­se e con il suo ac­cen­to na­po­le­ta­no mi dis­se Gua­gliò, statt’ ac­cort.

    Al­do, an­che se non era sta­to mes­so in li­sta per que­sta mis­sio­ne, sa­pe­va be­nis­si­mo che do­ve an­da­va­mo non avrem­mo fat­to una va­can­za. Do­po una mezz’ora ci ri­tro­vam­mo sul piaz­za­le del­la ca­ser­ma per l’adu­na­ta. I mez­zi era­no già sta­ti al­li­nea­ti. Tut­to or­mai era pron­to.

    Sta­va­mo per par­ti­re. Sot­to quel­la leg­ge­ra piog­ge­rel­li­na, il te­nen­te del­la no­stra com­pa­gnia fa­ce­va l’ap­pel­lo per ve­ri­fi­ca­re se fos­si­mo tut­ti. Nes­su­no fia­ta­va, ma si re­spi­ra­va un’aria pe­san­te e c’era un po’ di ner­vo­si­smo. Per la mag­gior par­te di noi que­sta era la no­stra pri­ma mis­sio­ne.

    Ognu­no di noi ac­cet­ta il di­stac­co dal­le per­so­ne che ama, c'è chi fa l'en­ne­si­ma mis­sio­ne per pa­ga­re il pro­prio mu­tuo di ca­sa, chi ma­ga­ri cer­ca di ri­man­da­re il ma­tri­mo­nio con la fi­dan­za­ta di una vi­ta, chi è al­la sua pri­ma mis­sio­ne e non sa che co­sa l'aspet­ta e for­se è pro­prio per que­sto che ha ac­cet­ta­to, chi cer­ca so­lo di can­cel­la­re una mac­chia dal pro­prio pas­sa­to.

    Tut­ti han­no qual­co­sa di per­so­na­le e pri­va­to da chie­de­re a que­sta mis­sio­ne, ma tut­ti, in­di­stin­ta­men­te, ora ab­brac­cia­no i lo­ro ca­ri, per­ché non im­por­ta chi sei, o per­ché stai per par­ti­re su quell’ae­reo, l’uni­ca co­sa che non vuoi è par­ti­re da so­lo. Io non sa­pe­vo co­sa mi aspet­tas­se lag­giù, par­ti­vo con l’in­ca­ri­co da con­dut­to­re mez­zi ruo­ta­ti, ma sa­pe­vo be­ne che non avrei do­vu­to sol­tan­to gui­da­re mez­zi pe­san­ti, ma avrei an­che do­vu­to ge­sti­re l’uf­fi­cio lo­gi­sti­co con un al­tro col­le­ga e un ma­re­scial­lo.

    Era­va­mo sui mez­zi, di­ret­ti ver­so l’ae­ro­por­to Ron­chi dei Le­gio­na­ri di Trie­ste. Ognu­no di noi fa­ce­va le ul­ti­me te­le­fo­na­te per sen­ti­re i pro­pri ca­ri e la ra­gaz­za. I sa­lu­ti so­no i mo­men­ti più brut­ti, ma ine­vi­ta­bi­li.

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