Dietro gli occhi di un soldato
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Book preview
Dietro gli occhi di un soldato - Mirko Giudici
Prefazione
Il romanzo è la personale esperienza da soldato dell’autore, durante la missione italiana di pace nel Kosovo, povera provincia dell’ex Jugoslavia martoriata dalla guerra.
Un libro che fa rivivere i momenti e gli stati d’animo di chi era in prima linea e operava con tanta difficoltà nell’inferno della guerra, dove violenza e odio sono i protagonisti assoluti di una sanguinosa realtà e dove povertà e fame rappresentano il crudo scenario con cui dover fare i conti ogni giorno, ogni ora, ogni singolo minuto.
Un libro che è anche la maturazione personale di un uomo che si chiede chi è veramente e dove può arrivare, per contribuire con la sua goccia di pace e solidarietà a prosciugare l’oceano scarlatto e devastante della guerra.
Un libro che rappresenta l’altra faccia della realtà, quella troppo spesso avida, sporca e corrotta, che divora tutto superando barriere e mascherando verità troppo scomode da poter rendere pubbliche.
La Partenza
Erano le 2:00 di notte e non riuscivo a chiudere occhio. Ero totalmente sprofondato in un vortice di pensieri che credevo che la testa da un momento all’altro sarebbe esplosa. Finalmente, ero arrivato a poche ore dal mio giorno, dal giorno della partenza.
Quella notte fu la più lunga della mia vita. Nella mia testa, i pensieri giravano come palline impazzite, mi facevo tante domande alle quali non riuscivo a dare una risposta.
Le lancette dell’orologio facevano le 03:30 e dopo un’ora circa mi dovevo alzare per prepararmi.
Dentro di me sentivo di essere contento e di essere finalmente arrivato a ciò che più volevo. Avevo atteso con ansia quel giorno, e adesso che stavo ad un passo, qualcosa dentro di me mi tormentava.
Alle 04:30 suonò la sveglia sul mio cellulare, ma io ero già sveglio da un pezzo. Era arrivata l’ora di prepararsi. Fuori era ancora buio pesto e cominciava a piovere.
La mia caserma faceva parte della Brigata Ariete e si trovava a Maniago, un piccolo paesino vicino Pordenone, a ottocento chilometri da casa.
Dovevamo fare in fretta, cercando di non svegliare gli altri commilitoni che non sarebbero partiti con noi. Ma feci presto a capire che quella notte furono veramente in pochi a chiudere occhio.
In un attimo, vedevo i miei colleghi schizzare su e giù per prepararsi. Chi si vestiva, chi metteva le ultime cose in valigia, chi correva in bagno per radersi la barba.
Sembravamo impazziti. Avevo sistemato le ultime cose, mi guardavo allo specchio del mio armadietto dicendomi che, se tutto fosse andato liscio, avrei rivisto i miei occhi riflessi in quello stesso specchietto dopo quattro mesi.
Durante quei minuti mi accorgevo che in tutte quelle operazioni che stavamo facendo traspariva sui nostri volti l’immagine della paura. Avevo riempito bene lo zaino, ci avevo messo tutto ciò che poteva servirmi.
Chiesi a Livio, il mio collega di stanza, di aiutarmi a mettere lo zaino sulle mie spalle. I colleghi che invece rimanevano in caserma ci guardavano con invidia, ma nello stesso tempo era chiaro che, in fondo, dispiaceva anche a loro vederci andar via. Salutai il mio amico Aldo, con cui avevo legato più di tutti. Lo abbracciai, lui mi sorrise e con il suo accento napoletano mi disse Guagliò, statt’ accort
.
Aldo, anche se non era stato messo in lista per questa missione, sapeva benissimo che dove andavamo non avremmo fatto una vacanza. Dopo una mezz’ora ci ritrovammo sul piazzale della caserma per l’adunata. I mezzi erano già stati allineati. Tutto ormai era pronto.
Stavamo per partire. Sotto quella leggera pioggerellina, il tenente della nostra compagnia faceva l’appello per verificare se fossimo tutti. Nessuno fiatava, ma si respirava un’aria pesante e c’era un po’ di nervosismo. Per la maggior parte di noi questa era la nostra prima missione.
Ognuno di noi accetta il distacco dalle persone che ama, c'è chi fa l'ennesima missione per pagare il proprio mutuo di casa, chi magari cerca di rimandare il matrimonio con la fidanzata di una vita, chi è alla sua prima missione e non sa che cosa l'aspetta e forse è proprio per questo che ha accettato, chi cerca solo di cancellare una macchia dal proprio passato.
Tutti hanno qualcosa di personale e privato da chiedere a questa missione, ma tutti, indistintamente, ora abbracciano i loro cari, perché non importa chi sei, o perché stai per partire su quell’aereo, l’unica cosa che non vuoi è partire da solo. Io non sapevo cosa mi aspettasse laggiù, partivo con l’incarico da conduttore mezzi ruotati, ma sapevo bene che non avrei dovuto soltanto guidare mezzi pesanti, ma avrei anche dovuto gestire l’ufficio logistico con un altro collega e un maresciallo.
Eravamo sui mezzi, diretti verso l’aeroporto Ronchi dei Legionari di Trieste. Ognuno di noi faceva le ultime telefonate per sentire i propri cari e la ragazza. I saluti sono i momenti più brutti, ma inevitabili.