Bianco su nero
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Fantascienza - racconti (196 pagine) - Nove racconti, nove sguardi nel rutilante spazio interno di uno dei più grandi scrittori italiani di science fiction, Vittorio Curtoni. Prefazione di Valerio Evangelisti
Cosa vuole l’ombrello parlante che convince Enrico ad acquistarlo, e piano piano comincia a manipolare la sua vita? Come mai a scuola alcuni bambini hanno cominciato a fare discorsi strani, descrivendo nei dettagli luoghi e persone che non esistono? Cosa rimane dei delinquenti sottoposti alla procedura empatica, con la quale un’altra persona entra nel loro stesso cervello per ripulirlo? Vale la pena morire in un’esplosione, se l’esplosione è eterna? E quel misterioso Shekhinah che ti sembra di conoscere da tutta la vita riuscirà davvero a cambiare l’universo?
Sono solo alcune delle domande alle quali si può dare risposta leggendo questo libro.
E non è detto che basti.
Nove racconti, nove sguardi nel rutilante spazio interno di uno dei più grandi scrittori italiani di science fiction, Vittorio Curtoni, capace come pochi altri di dimostrare che spesso questo genere può dare il meglio di sé proprio nelle storie brevi.
Vittorio Curtoni, nato in provincia di Piacenza nel 1949, scomparso nell'ottobre del 2011, è stato un vero pilastro della fantascienza in Italia. Nella sua lunga carriera è stato curatore della collana Galassia nei suoi anni migliori, ha fondato e diretto Robot, la più famosa rivista italiana di fantascienza dopo Urania, ha tradotto oltre trecento romanzi, tra i quali opere di Philip K. Dick, Joe Lansdale, David Ambrose. Ha collaborato per anni con la rivista Delos e con il quotidiano di Piacenza Libertà, e diretto la nuova serie di Robot, edita da Delos Books. Questa antologia, pubblicata per la prima volta pochi mesi prima della sua morte, è la quarta raccolta dei suoi racconti, dopo La sindrome lunare e altre storie (Armenia 1978), Retrofuturo (Shake 1999), Ciao futuro (Urania 2001).
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Bianco su nero - Vittorio Curtoni
2001).
Questo libro è per
Ernesto Vegetti,
che purtroppo non potrà più
catalogarlo.
Quanto mi manchi.
Da Milton ad Azathoth: Vittorio Curtoni come non l’avete mai visto
Valerio Evangelisti
È un po’ come scegliere di regnare all’inferno, invece di servire in paradiso. È ciò che ha fatto Vittorio Curtoni quando, ancora giovanissimo, scelse la fantascienza quale suo campo espressivo. In realtà, saprebbe scrivere qualsiasi cosa in ogni dominio narrativo, con risultati sicuramente straordinari. Pochi come lui padroneggiano lingua e stile, tempi e capacità di sintesi. Ciò gli è stato ampiamente riconosciuto dal mondo culturale in veste di traduttore dall’inglese, specialità nella quale si è cimentato senza esitazioni con gli autori e con i generi più disparati. Tuttavia la passione di Curtoni rimane la science-fiction o il fantastico, pur sapendo che si tratta di settori che, in Italia, non garantiscono facili riconoscimenti (certo meno del poliziesco, e persino del fantasy, diverso dal fantastico perché adotta stilemi, più o meno flessibili, derivati da Tolkien). All’interno di uno spicchio creativo circondato da infiniti fossati Curtoni si è proposto uno scopo niente affatto umile: essere il migliore. Ci è riuscito.
Anzitutto come organizzatore. Le sue curatele di Galassia, Robot, Aliens hanno marcato la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta, con nessun rivale sotto il profilo dell’innovazione, della scoperta, della riscoperta. Malgrado esperimenti coraggiosi come la rivista Gamma o l’antologia periodica Interplanet, la sf restava la cenerentola della letteratura, chiusa tra mura che nessuno osava valicare. Un poco come il fumetto, ancora ritenuto – solo ed esclusivamente in Italia – prodotto narrativo per bambini. Con le riviste citate, ma soprattutto con Robot, Curtoni sfonda i recinti del ghetto, contamina la fantascienza con le problematiche del presente, la fa vivere quale oggetto di cultura dotato di vita propria e di proprie regole, ma non staccato dall’ambito che lo circonda.
Sono innumerevoli le rivalutazioni d’autore tentate e riuscite da Curtoni. Dick, Silverberg, Ballard, Sturgeon, Leiber, Lafferty. Di alcuni di costoro parlano oggi le storie della letteratura, e sono contesi tra importanti case editrici. Lo stesso Curtoni ha figurato in raccolte scolastiche e in collezioni di racconti, l’arte narrativa in cui eccelle. È infatti scrittore in proprio, particolarmente versato nelle storie brevi, a volte suggestive e a volte dissacranti, mai vuote di sostanza. Se il modello ispiratore era inizialmente Ballard, in seguito si è fatto egli stesso punto di riferimento, libero da qualsiasi scuola o costrizione. Persino da quelle cui la fantascienza nata sulle riviste per adepti si è via via assoggettata, senza peraltro ledere l’originalità dell’intero genere.
Era quanto mai opportuno, direi urgente, raccogliere in un’antologia il Curtoni di ieri e di oggi, presentando a una nuova generazione di lettori testi inediti, rari o sparsi in una pletora di pubblicazioni. Per apprezzarne l’eleganza, la sapienza di scrittura, la facilità apparente che nasconde complessità. Troviamo così l’inedito ed esilarante Incidente sessuale, l’ormai classico L’uomo, l’ombrello e altre cose in versione rivisitata, il televisivo La gaia bomba, ecc. Racconti attuali e non. Dal grottesco al drammatico, in tutta una gamma di tonalità.
Va notato comunque, nella produzione recente di Curtoni, un progressivo slittamento in direzione del fantastico puro, come i racconti compresi in questa antologia testimoniano. A ben vedere, alla sf propriamente intesa appartengono solo alcuni testi, quelli che ho citato perché rappresentano la vera novità di questo libro. Per esempio Incidente sessuale, divertente incontro con una razza aliena dotata, diciamo così, di doni nascosti
. Una scorribanda degna di un Eric Frank Russell (Galassia che vai) meno pudico. La gaia bomba, con una forte presa sulla nostra realtà, alla maniera degli scritti brevi di Sheckley. E un poco anche, come si scopre gradualmente, L’uomo, l’ombrello e altre cose, degno del Philip K. Dick più geniale e visionario. Ma Curtoni è Curtoni, è inutile cercargli ascendenti. Gli altri racconti sfiorano l’horror o il paradossale, senza pretesti parascientifici di sorta. Il fine comune è spiazzare, dare al lettore una diversa lettura del presente.
Non si cerchino in Curtoni l’avventura fine a se stessa, il paradosso buffo ma inconcludente, la parabola ammonitrice, la sorpresa da due soldi. Lui non è così, per indole intrinseca. Abituato a cercare attorno a sé il paradosso, l’incongruenza, il dettaglio che si presta all’ironia o alla critica, modella su questi la propria narrazione. Quando è con gli amici in un bar di Piacenza come quando scrive. Tante volte i suoi racconti prendono le mosse da una esperienza autobiografica, da un piccolo incidente, da un controsenso rilevato di persona. Il resto segue guidato da un implacabile rigore logico, che allarga la fessura fino a farne voragine.
È questo il segreto di tanti scritti di Vittorio Curtoni, il quid che li rende irripetibili. L’autore parla essenzialmente di sé. Non per solipsismo, ma per quella sincerità che dovrebbe ispirare ogni scrittore degno di nota. Capace di mostrarsi in pubblico senza pudore, perché il lettore più sensibile cerca essenzialmente l’incontro con un’altra personalità. Se gli sviluppi sono poi fantascientifici o fantastici, lo si deve alla particolare lente deformata – ma non sarà l’unica affidabile? – con cui il narratore guarda il mondo.
Gli alieni del vecchio film di sf La guerra dei mondi, di Byron Haskin, avevano pupille tripartite e variamente colorate. Vedevano un universo completamente differente dal nostro. Ciò vale anche per autori di rango capaci di scrutare l’imperscrutabile, e di costruire sul presente, a partire dal loro punto di vista, probabili o improbabili evoluzioni future. Curtoni solipsista? Non lo fu forse anche Philip K. Dick, che ha avuto proprio in Curtoni il più raffinato dei suoi traduttori?
Ci sono due modi per affrontare le lettura di questi racconti. Uno è abbandonarsi alla storia pura e semplice. L’altro è leggere lentamente, scoprendo ellissi sapienti, giri di frase abilissimi, momenti stilistici di grande eleganza.
Simili virtuosismi non sono tanto frequenti nel fantastico italiano, dove peraltro Curtoni ha seminato bene. Non lo sono nemmeno nel filone prevalente all’interno del mondo letterario ufficiale, dove fioccano premi su opere effimere, raramente sincere.
Ma Vittorio Curtoni non si può lamentare. Ha deciso di regnare all’inferno, e lì resta in veste di sovrano. Assiso su un trono che scotta (in effetti ha un sacco di problemi proprio da quel lato) e circondato da coorti, minoritarie e tuttavia consistenti, che acclamano la natura magistrale della sua scrittura e della sua militanza critica. Somiglia un poco ad Azathoth, la divinità pazza e cieca collocata da H. P. Lovecraft al centro del cosmo. Solo che Curtoni è fin troppo intelligente, e vede più in là di tutti.
Un ottimo sovrano, a mio parere.
L’uomo, l’ombrello e altre cose
Nel luglio del 1968 feci la maturità classica. Grazie alla mia consueta fortuna, quello fu l’ultimo anno prima della riforma della maturità: all’esame andavano portate tutte le materie dell’ultimo anno, più i rimandi agli anni precedenti. Un vero incubo. La seconda metà di giugno è ancora incisa nella memoria come uno dei periodi più massacranti della mia intera esistenza. All’epoca vivevo a Calendasco, un paese a pochi chilometri da Piacenza: pianura padana, caldo pazzesco col 300% di umidità, zanzare grosse come bombardieri. Della prima guerra mondiale. E io giù a studiare, ripassare. Anche se alla fine mi andò bene. Uscii maturato con la media di sette e tre quarti (all’epoca si usavano ancora i voti da uno a dieci), ebbi l’esonero dalle tasse all’università. Dove entrai nell’autunno del ‘68. Wow!
All’interno di quell’inferno, l’unico raggio di luce fu la lettera che mi annunciava di essere tra i dodici semifinalisti del Premio Nova Sf* 1968, indetto dalla neonata rivista di Ugo Malaguti targata Libra Editrice. Avevo a che fare con concorrenti formidabili, autori con un’esperienza molto maggiore della mia, ma non so come riuscii a entrare fra i tre finalisti che vennero pubblicati su Nova e poi votati dai lettori. Ne uscii soltanto terzo (primo risultò Franco Bellei, secondo Luciano Radaelli), ma francamente fui contentissimo lo stesso. Dopo la stagione matta e disperatissima delle fanzine, sulle quali erano apparse tonnellate di miei pessimi racconti che però qualcuno riteneva promettenti, ero alla ricerca di conferme dal mondo dell’editoria fantascientifica vera, professionale. Volevo capire se mi fosse lecito sperare di poter diventare scrittore sul serio, senza essere costretto a ciclostilarmi da solo ciò che producevo. Il racconto del Premio Nova, L’uomo, l’ombrello e altre cose, mi diede la conferma che aspettavo. Apparve sul numero 10 della rivista, nel marzo 1970; e, anche se nel frattempo ero già stato pubblicato su Oltre il Cielo e Galassia, ho sempre considerato quel racconto la mia prima effettiva vendita professionale. Retribuita con buona generosità.
Lo ripresento qui a distanza di tanti anni, lievissimamente spurgato dalle ingenuità più colossali e ridicole (un certo quid di esperienza l’ho accumulato, da allora a oggi), però del tutto integro nel suo sapore d’epoca. E d’età: lo scrissi nel 1967, quando avevo diciotto anni, e per la miseria, ero bravino, dai. Per essere solo un modesto liceale di provincia. Ma avevo già letto tanti di quei libri da poterci affogare dentro. L’idea in sé non è originalissima e suppongo sia abbastanza evidente l’ombra tutelare di Philip Dick, mio eterno amore; però oserei dire che ha un suo taglio particolare, un sapore diverso dalla media della sf americana. Riletto oggi, mi ricorda le atmosfere del surrealismo a lungo frequentate. Mi vengono in mente le splendide piogge di omini in bombetta e con l’ombrello di René Magritte. A quel tenerone di Giuseppe Lippi, invece, il mio ombrello evoca Pinocchio e il Grillo Parlante. Penso che abbiamo ragione tutti e due.
1. Nella stanza buia
Incontro con la donna
Il buio più assoluto regna nella stanza. Finestre e porte sono ermeticamente chiuse. Non un raggio di luce penetra all’interno. Tutto scuro attorno a lui che giace al centro della stanza, abbandonato su una vecchia poltrona in velluto rosso, la sua preferita, e geme tenendosi le mani sul ventre. Troppo buio. Troppo dolore.
– Martha, ti prego, Martha, vieni a vedere. Sto male. Muoio.
Lentamente la lucidità lo abbandona, con la velocità di un cavallo lanciato al galoppo, portandosi dietro la normalità della sua vita quotidiana. Lui, Enrico, non è più l’uomo che vive da un giorno all’altro nella modernissima casa sulla collina con la sorella e il cognato. Immerso in un lungo nulla di dolore, grida inutilmente perché qualcuno lo venga a soccorrere.
– Martha, Martha, MARTHA!
Gli sembra tanto forte, la sua voce, e probabilmente è solo un roco mormorio impercettibile che quelli del primo piano non riescono a sentire, se no sarebbero già corsi a vedere, probabilmente avrebbero chiamato un medico. Ma intanto immagini di demoni sgargianti gli tendono le mani da una parete all’altra, e anche se non li vede troppo bene la loro presenza è inequivocabilmente chiara.
Un attimo si ferma, in una pausa degli spasmi lancinanti al ventre, a cercare di capire cosa stia succedendo. Niente d’anormale, in apparenza, un comunissimo mal di pancia come ne capitano a tutti, però troppo forte. E poi tutto lì, in quella stanza buia, il suo studio, dopo un sonno durato senza dubbio pochi minuti, e tutto d’un colpo, come una botta improvvisa allo stomaco, senza alcuna avvisaglia.
Aggrapparsi ai braccioli della poltrona è inutile, lo sa già. Le sue mani cercano di afferrare quella piccola porzione di realtà, che potrebbe anche offrirgli una via di salvezza, se solo riuscisse a tirarsi su, reggersi in piedi, e poi, ecco, scendere d’un fiato le scale, irrompere nella camera di Martha e crollare lì, sotto lo sguardo impietrito di lei. Allora non avrebbe più da temere nulla, sarebbe salvo; ma la presa è debole, il corpo troppo pesante, il ventre intriso di dolore, e così resta fermo, seduto senza tranquillità, urlando.
– Martha, santo cielo, vieni su subito. Sto morendo, Martha!
Chi lo sentirà? Passassero secoli e secoli, ne è sicuro, quel buio maledetto assorbirebbe ogni suo respiro, ogni minimo movimento. Confuso nel caos delle cose, uguagliato a ogni oggetto della stanza, il suo corpo non ha più possibilità di vita di quante ne abbia un pesce nell’aria. Deve limitarsi a vegetare, sperando in un’attenzione da parte di altri che non viene, non viene.
Ed eccolo adesso, incapace persino d’aprire la porta per gemere il proprio dolore, incapace di formulare un pensiero coerente, uno solo, dimentico di ogni cosa al di fuori dei sussulti inconsistenti della pancia. Lentamente scivola giù dalla poltrona, cade sul pavimento freddo fatto di piastrelle di marmo verde. Un breve lampo di ribellione negli occhi, l’istinto che lo spinge a gridare, ma un secondo dopo non ricorda più nulla, e tace, supino sul complicato mosaico verde.
Laggiù in fondo, in biblioteca, nell’ampio, imponente salotto, una donna lo sta aspettando, una bella donna, gli hanno detto, ma in quel momento non ha assolutamente voglia di conoscerla, gli fa ancora troppo male la pancia, e vorrebbe solo restarsene lì, sulla sedia, a rimettersi in forma, e invece Martha e Carlo vogliono portarlo là a tutti i costi.
– Non adesso, per favore. Vedrò quella donna quando vorrete, ve lo prometto, ma ora sto male. Non riuscite a capirlo?
Inutilmente egli protesta. Già l’hanno sollevato, tenendolo per tutte e due le braccia, e gli fanno mettere un doloroso piede davanti all’altro, passo dopo passo, verso la donna che non conosce e sembra essere tanto importante da giustificare quel martirio.
Dentro lui c’è ancora tutta la confusione delle ore precedenti, non riesce a connettere i fatti con precisione. E poi soprattutto è il ricordo del dolore al ventre, come un cancro, a sgomentarlo, metterlo a disagio. Loro non vogliono sentirne parlare, lo negano, ma lui ricorda benissimo, e poi ancora adesso sente un grande vuoto al ventre, e la testa gli gira, tanto che non riesce a reggersi in piedi.
– Per pietà, lasciatemi andare. Sto male. Vi prego.
Istante per istante lo trascinano avanti, passano nella biblioteca dove uno sgargiante divano gli lancia richiami insostenibili, e infine sono nel salotto, lo lasciano cadere su una poltrona, e lei, la donna che deve conoscere, lì davanti, gli sorride impacciata, tenendo tra le mani una tazza di tè.
Un viso minuto, affilato, chiuso da una rete di capelli corvini, e due gambe forse un po’ piccole ma ben fatte, addolcite da calze color dell’oro. La donna indossa un vestito verde estremamente semplice, e continua a guardarlo sorridendo, timida statuetta tanto stonata in quell’accozzaglia di sensazioni spiacevoli.
– Questa è Renata, Enrico. La nostra nuova vicina.
2. Incontro con l’ombrello
Rientro a casa
Camminava adagio, spostando appena col piede l’erba sotto, e alzava di tanto in tanto gli occhi al cielo, a fissare le stelle. Splendevano di una nitidezza inconsueta, in quella notte così incredibilmente serena, tanto che la loro luce era molto più forte di quella della luna, pallido spettro sempre in viaggio.
Una leggera brezza, tiepida e carica di profumi noti, gli sfiorava il viso, dandogli una sensazione di calda sicurezza. Avrebbe voluto che lì con lui ci fosse Angela, perché era molto stupido sprecare una notte simile senza fare l’amore. Oppure la nuova vicina, Renata, ma con lei avrebbe potuto solo parlare, niente di più.
Invece passeggiava solitario, lento, le mani affondate nelle tasche dei pantaloni, senza guardare avanti, felice fino a un certo punto. Gli sarebbe piaciuto che con lui ci fosse qualcuno con cui scambiare due chiacchiere, per non sentirsi del tutto abbandonato sotto quel cielo.
Dietro, la sua casa, e un poco più avanti quella di Angela, delineata in maniera nettissima dalla luce delle stelle. Sarebbe bastato suonare, Angela avrebbe aperto la porta e sarebbe uscita con lui, vestita del solito maglione e della solita gonna, e lui l’avrebbe presa sull’erba, come sempre. Ma non se la sentiva.
In quel momento udì la voce.
– Signore…
Un pigolio, più che una voce. Non apparteneva a qualcuno che lui conoscesse, di questo fu subito sicuro. Era estremamente debole, quasi fanciullesca.
– Signore, si fermi un attimo, per favore.
Insospettito, mentre i nervi entravano in tensione e svaniva il senso di sicurezza, si guardò attorno, senza scorgere nessuno.
– Chi c’è?
– La prego, signore, si fermi. Mi comperi.
Uno scherzo. Solo uno scherzo idiota di qualcuno dei suoi. Dovevano avere messo un registratore nell’erba.
– Mi comperi, signore. Sono un ombrello. Nient’altro che un credito.
Continuava a girare la testa da tutte le parti ma non vedeva nulla. Gli sembrava ora che l’ambiente fosse molto più scuro e aveva quasi paura.
– Da questa parte, signore. Alla sua destra.
Si voltò.
– Mi vede, adesso? – Enrico scrollò il capo. – Si avvicini. Qui, contro il muro di cinta. C’è buio. Non ha una torcia elettrica?
Adesso distingueva qualcosa. Appoggiata al muro c’era una macchina scintillante che era certo di non avere mai visto, con diverse fessure. E accanto alla macchina un ombrello.
– Un credito, signore. Introduca un credito in questa fessura.
L’ombrello saltellava impaziente, battendo il manico contro uno dei fori di quell’aggeggio. Enrico indietreggiò. Si sentiva la gola secca.
– Cos’è questa farsa?
L’ombrello si calmò, cadendo sull’erba.
– Non è una farsa, signore. Lei deve solo comperarmi. Le sarò utile, vedrà.
Era di nuovo nella zona di luce, e il muro e tutto il resto si confondevano nell’ombra. Ma vedeva l’ombrello alzarsi e ballonzolare verso lui.
– Chi parla? Chi è che parla?
L’ombrello gli giunse vicino e restò in piedi.
– Io, signore. Mi comperi, la prego. Ho bisogno di servire a qualcosa. Lei capisce che restare ad ammuffire per tanti anni non è piacevole.
Terrorizzato, prese l’ombrello, lo fece roteare nell’aria, mentre quello pigolava chiedendo pietà, poi lo scagliò con violenza contro la macchina. Si mise a correre.
– Si fermi, signore. Io posso esserle molto utile.
L’ombrello gridava. Lui continuò a correre. L’ombrello gridò più forte.
– Non ci sarò più, domani sera. Lei avrà ancora i suoi mal di pancia.
Si fermò di scatto. Si voltò.
– Cosa hai detto?
– Ho detto che lei avrà ancora