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Storie che il Mella porta a valle
Storie che il Mella porta a valle
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Storie che il Mella porta a valle

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Questi racconti sono inventati, ma sono scaturiti da ricordi, o brandelli di storie ascoltate da nonni, sorelle, fratelli e amici di vari paesi della valle. Si tratta di vicende forse anche accadute davvero, disperse nella mia memoria quasi tutte fin dalla metà del secolo scorso, e per oltre cinquant’anni riposate nell’idea di questa raccolta. Li ho scritti pensando di lasciare una piccola idea di cosa hanno sofferto le generazioni dei nostri genitori, in modo che i nostri figli, oggi persi nel virtuale di aggeggi elettronici sempre più sofisticati, un giorno possano trovare un minimo di aggancio con la

storia dei luoghi e dei loro nomi. Le radici, anche se nascoste sotto vagonate di virtuale, restano sempre ben salde al terreno, e caratterizzano nell’intimo ciò che siamo, e prima o poi chiederanno un confronto.
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateApr 17, 2020
ISBN9788831666466
Storie che il Mella porta a valle

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    Storie che il Mella porta a valle - Alessio Tanfoglio

    info@youcanprint.it

    Romildo

    (Vin brûlé)

    Al Maniva, inizio della Valle Trompia, la stagione sciistica era iniziata in anticipo di quasi un mese sul 10 dicembre. L’abbassamento brusco delle temperature regalò un bellissimo manto di neve e sembrò portare con largo margine di anticipo l’arrivo  dell’inverno. Il viavai di appassionati della montagna, di sciatori e turisti, iniziò a infoltire nei fine settimana la provinciale creando code e ingorghi, ma garantendo il pienone negli alberghi di Bovegno, Collio, San Colombano. In occasione di certe festività, diverse orchestre suonavano per turisti e villeggianti. Per ben due volte in quella settimana, dal 2 al 9 novembre, si susseguirono abbondanti nevicate, e la neve raggiungeva un’altezza di 30 cm, ma in alcune zone anche di 50 cm. Dal Maniva si potevano ammirare il Dosso Alto e la Corna Blacca splendidamente illuminate dal sole di quei giorni, che dorava le piste come fossero ricoperte di zucchero filato. In un tratto della strettissima gola della provinciale tra Collio e San Colombano, dalla parete nord scendevano imponenti stalattiti di ghiaccio che raggiungevano un’altezza massima di circa dieci metri; sembravano canne d’organo maestose nella loro purezza. L’immagine era bellissima e, proprio in quel tratto di strada, i turisti sostavano per scattare fotografie ricordo.

    Dalle finestre del soggiorno, Romildo contemplava il sorgere del sole su quel biancore che pareva colorarsi di pagliuzze rosate, azzurrine e gialle, riempiendolo di un sentimento di tenerezza. Gli sembrava che la felicità scendesse ogni mattina, come per incanto, su quella terra di sacrifici e lavoro, che nella quotidianità sapeva far tesoro del silenzio e del fascino regalati dalla natura. Lontani erano i clamori della città, lontani i problemi legati all’inquinamento acustico ed atmosferico da biossido di carbonio e quant’altro, che la legge indicava con una scala di gravità considerata tra ‘possibile’, ‘probabile’, ‘riconosciuto’ e ‘sconosciuto’, specificazioni che lui percepiva come ipocrisie burocratiche, non vedendo alcun cambiamento concreto sulle strade. A lui sembravano specifiche inutili se non ambigue, forse da presa in giro, perché pensava: quando l’aria è pulita e la respirazione normale è evidente che tutto va bene. Invece in certi momenti del giorno, per via dell’arrivo dei vacanzieri provenienti dalla città con le loro macchinone diesel che impestavano l’aria per ore, era difficile respirare e spostarsi in paese dalla propria abitazione agli alimentari o al panificio, anche per una sola decina di metri. Poi c’era il problema della fuliggine dei camini, alcuni dei quali ancora sbuffava nuvoloni scuri, nerastri e malsani che, anche trattenendo il fiato, procuravano forti attacchi di tosse. La situazione era simile a quella degli scarichi della Centrale Biomassa del Comune, installata nei primi anni del duemila, che pur dando benefici aggiungeva ulteriori problematiche non solo di carattere ecologico. In alcuni giorni quegli scarichi puzzolentissimi ammorbavano tutta l’area del paese, nonostante il divieto di utilizzare camini e stufe a legna emanato dal sindaco.

    Abitava in prossimità del piazzale dove ancora c’é il lavatoio, oltre al bar ‘Camoscio’ di Tullio, l’amico d’infanzia, e la fermata delle autolinee SIA. Il torrentizio Mella si trovava in posizione sicura più in basso. Nel tardo pomeriggio dopo l’orario di lavoro come impiegato comunale, da almeno vent'anni Romildo aveva l’abitudine di recarsi da Tullio, in quella sala tranquilla frequentata dai soliti quattro pensionati e, ma solo il sabato sera, anche da un gruppetto di ragazzini quindicenni. A cinquantuno anni, Romildo in quel bar distillava pensieri a coloro che della vita sembravano sapere già tutto. Il più delle volte i vecchi lo guardavano con aria di compatimento, ma lo lasciavano dire. In alcune occasioni e senza un perché definito, capitava che qualcuno iniziasse un canto popolare di notti buie e tempestose, di alpini piangenti al ricordo della mamma, o per ricordare la bella ‘biondina capricciosa garibaldina trulla là’, la Gigogin e la Mariettina. Quando la situazione si ‘scaldava’, si poteva stare sicuri che attorno al fiasco di rosso che andava vuotandosi, i canti sarebbero continuati per circa due ore, riesumando stornelli e tradizionali del folclore, intermezzi d’ispirazione religiosa e canti patriottici. Agli uccellini del bosco si alternavano gli spazzacamini, e ‘mamma mia damma cento lire che in America voglio andar’; i presenti si univano con convinzione, producendo armonie da pelle d’oca e vibrati degni di Claudio Villa, come in un rito consacrato da un rosso ‘che pica mia dé rider’. Anche Romildo si univa al coro, come se in quelle semplici parole e melodie, fosse racchiusa la testimonianza della sua semplicità. Per i presenti quel momento voleva essere la volontà di una conferma della loro identità, che sembrava vacillare davanti ai suoni tecnologici delle suonerie di cellulari, computer e giochini moderni. Durante l'anno, al bar di Tullio ci passava due, a volte tre ore serali prima di rientrare a casa e buttarsi sul letto per la notte, che trascorreva spesso in un dormiveglia. Il mattino lo vedeva come ogni giorno, puntuale e concentrato nel suo lavoro. La domenica pomeriggio la trascorreva quasi sempre al bar, seguito dal suo cane Buck che restava con lui anche nei vari spostamenti sia in casa che in paese. Certe volte, chissà per quali combinazioni, tra i presenti iniziavano discussioni alle quali partecipavano anche i quattro pensionati che giocavano a carte. Ci fu un pomeriggio, forse era il 16 novembre, in cui qualcuno chiarì, a difesa della tecnologia moderna, che anche il suono delle campane ormai proveniva da altoparlanti innescati da programmi e ‘file di computer precisissimi’. Ma quella delle campane era stata una discussione feroce, che durava da alcuni mesi tra il Don e alcuni paesani che si lamentavano del volume troppo alto e disturbante i programmi della tivù e le ore di riposo, per cui i presenti glissarono. Di solito Romildo, davanti al suo bicchiere di vino rosso, scambiava due parole con Tullio, leggeva la Gazzetta dello Sport, ma certe volte se ne restava solo al tavolo, e finiva per rievocare fatti lontani che ancora lo disturbavano, e non si trattava né di calcio, né di scudetti ‘rubati’.

    19 dicembre

    Al bar, quel pomeriggio, ricordò che molti anni prima aveva organizzato con Cristina, l’amore della sua vita, una gita serale nella notte delle stelle cadenti, proprio alla fine dell’abetaia sotto i prati del Maniva. Aveva da meno di una settimana conseguito la patente, e il papà gli lasciò usare la sua 500. Parcheggiò in una piazzuola di sosta e trascorsero la sera a parlare del loro futuro, ipotizzando la data delle nozze, dei figli e il programma della loro vita; poi mangiarono una mela, la stessa, morsicando a turno la polpa fino al torsolo. Erano nati nello stesso 1959, a distanza di soli tre giorni, e per lei questo significava una predestinazione. A Romildo quella mela sembrò carica di significato. Nel silenzio del cielo stellato carico di desideri, si amarono con passione ed intensità, e si giurarono amore eterno. In quelle ore Romildo pensò di essere nel pieno della felicità; quello era il nirvana! Ascoltarono canzoni alla radio e poi azionarono il mangiacassette per sentire quelle che amavano maggiormente di Mogol-Battisti. Le cantarono all’unisono, in sequenza: Un’avventura, Acqua azzurra, acqua chiara, Mi ritorni in mente, La canzone del sole e I giardini di marzo. Battisti, quel cantante dalla voce esile che qualcuno disprezzava proprio per quella sua caratteristica, per loro era ‘l’insuperabile’: il ‘mitico Lucio’ lo chiamavano. Le sue canzoni li accompagnarono nella discesa verso casa. Era ormai notte fonda.

    Sull’uscio dell’abitazione di Cristina, silenziosamente si abbracciarono e baciarono ancora, come affamati, e poi ancora e ancora. Erano giovani, e tutto il futuro era aperto ai loro sogni.

    Le cassette le registrava Cristina che metteva in fila una dietro l’altra quelle belle canzoni, alternate a Senza luce cantata dai Dik Dik, del 1967, e molti altri successi, anche di cantanti e complessi stranieri che andavano per la maggiore in quegli anni.

    Seduto al solito tavolo, Romildo ripensandoci convenne che negli anni non smise di amare quelle musiche, che in fondo rappresentavano ancora un bel pezzo della sua vita. Ricordò che loro le adoravano e le ascoltavano decine di volte anche in casa, col mangiadischi, lo stesso che funzionava anche a batterie e che a volte si portavano appresso al parco.

    Se il meteo non era stato in grado di prevedere l’anticipo dell’inverno, le previsioni avevano azzeccato tutto della settimana che portava al Natale: sole splendido, gelate notturne, però niente neve se non dopo il 25. Per Romildo era una grande occasione quella di poter incamminarsi sul solito percorso, senza alcun timore di scivoloni; quella che era caduta nelle settimane precedenti non lo preoccupava perché si trattava, nei punti critici del cammino, di pochi centimetri e fanghiglia che lasciava ancora chiare le tracce dei vari sentieri. In quella settimana, in ferie dal lavoro, ripercorse quei camminamenti, fotografando vedute e particolari di abetaie, con pini e faggi, e gli riuscì d’immortalare colonie di cornacchie, poiane e il fagiano di monte, oltre alla coturnice e la pernice bianca. Era soddisfatto dei suoi scatti, ne andava fiero. Forse con questa sua passione s’illudeva di essere parte di quell’armonia che percepiva eterna. Alcuni anni addietro, sarà stato nell'ottantadue, era riuscito a fotografare anche una volpe e una faina, che invero incontrò per due volte in periodi diversi, oltre ad un riccio, e circa due anni dopo s’imbatté in una marmotta e in un capriolo. Gli capitò anche di vedere una donnola e addirittura un ermellino, ma non ebbe il tempo di scattare alcuna foto. Però gli restò il ricordo. Le fotografie migliori gli riuscivano con i fiori, per via del fatto che poteva averli fermi e sotto il naso. I suoi tre bellissimi album pieni di immagini e di particolari, dai boccioli a quelli fioriti, contenevano quelli più comuni e quelli meno conosciuti, ed erano da alcuni invidiati in paese; narcisi, viole, primule, orchidee rosse e gialle, l’aglio di Lombardia, le campanule e il raponzolo di roccia, sembravano ‘veri’, grazie all’obbiettivo che li aveva messi ‘a fuoco’ in modo perfetto.  Con le genziane ci faceva la grappa, ma solo per sé. Tra i volatili conservava scatti non eccellenti ma valevano come prova, ed erano cinciallegre, fringuelli, merli, tordi, cardellini e pettirossi. Non gli riuscì mai di fotografare il cuculo né l’allodola. Strepitose erano le fotografie che ritraevano pispole ignare di essere spiate, come pure il sordone, la tordela e la beccaccia, mentre per lo zigolo giallo aveva una sequenza di dodici foto tutte sfocate o mosse. Non amava però fotografare né funghi, né rettili come la vipera e le lucertole, ma neppure il ramarro, la rana e i rospi, senza darsi una specifica motivazione, non gli piacevano, punto e basta.

    Una stranezza, che pochi capivano in paese, era quella di fotografare il cielo terso o mosso da disegni di nuvole ‘particolari’  in certe giornate di calma; per certi cieli, si portava anche nel bosco, e spesso con inquadratura dal basso e sotto abeti rossi, querce o alberi di rovere e pino silvestre, scattava e scattava foto che solo lui riusciva a comprendere. La fotografia era la sua passione e grazie ad essa riuscì a superare centinaia di giornate nere come il catrame e gonfie di disperazione. In totale, ricordava di avere circa 3.500 fotografie, la maggior parte scattate tra il 1977 e il 1998, e all’amico Tullio lo diceva aggiungendo: Vorrà pur dire qualcosa, intendendo che il meglio della sua passione era riuscito a dimostrarlo negli anni di libertà, o di solitudine (a seconda del suo stato d’animo e dei punti di vista). Il dispiacere amoroso aveva trovato il giusto sfogo nell’arte, questa era la sua convinzione, rivelandosi però positivo e con risultati piuttosto soddisfacenti.

      Dall’addio di Cristina erano ormai trascorsi ben 15 anni; lui da quella delusione non si riprese mai più, decidendo di lasciare ad altri i sogni dell’amore.

    24 dicembre

    Il mattino di vigilia si presentò con un cielo ingrigito, come se fosse intristito o in preda ad un’arrabbiatura; in previsione della neve, Romildo aveva deciso di restare in casa, sbrigare qualche spesa allo spaccio del paese, e nel pomeriggio recarsi a fare gli auguri a Tullio, e così avvenne. Quel pomeriggio gli sembrò che i ricordi della sua amata si fossero dati appuntamento proprio lì, mentre era seduto davanti al solito bicchiere di rosso, anche se per lui era normale che quasi ogni giorno la pensasse ancora. Seduto al solito tavolo del bar, col suo cane Buck steso ai suoi piedi, rincorreva frasi di quel perduto amore, che non riuscì mai a dimenticare, frasi che per anni cercava di collegare in un disegno logico senza riuscire a decifrare, peggio di quel puzzle che raffigurava Venezia al tramonto, che avevano acquistato insieme il giorno del loro fidanzamento ufficiale, il 18 marzo 1974. Avevano quindici anni e a loro sembrava di avere tutto il futuro assicurato dall'amore. Quanti flashback, quanti ricordi. E quanta tristezza nel rievocarli. Nella mente si ripetevano alcune frasi che Cristina gli aveva sussurrato e che lui percepiva essere decisive, ma senza sapere perché: Sono felice di stare con te e voglio starti vicina per sempre, oppure: Che bello che ci amiamo; pensa a tutti quelli che invece sono tristi e soli. Romildo era scettico rispetto agli avverbi di tempo definitivi tipo ‘sempre’ e ‘mai’, i cosiddetti: quantificatori universali; era consapevole che la felicità dell’amore, sua e degli altri, dipendeva principalmente dalle due parti in causa, per cui lui rimaneva sicuro solo del suo. Poteva fare ben poco, se non niente del tutto, davanti alla fuga dell’amata, per questo negli anni del loro amore si faceva bastare averla sottobraccio, stretta a lui, e scoprirla vogliosa delle sue tenerezze. Ma si sa come vanno le cose, e anche l’immortale promessa sostenuta in Maniva, che sembrava pegno di un amore indistruttibile, lentamente si sbriciolò. Constatò che lei non solo era ‘naturalmente’ portata alle generalizzazioni, di qualunque tipo e per qualunque argomento, ma era anche un tantino bugiarda, e adulatrice del tipo ‘lo so che tanto mi perdoni’. Lui infatti lasciava correre; sapeva bene che non era per merito del canto del gallo che il sole si alzava nel cielo. E tutte le ‘buche’ che gli aveva dato all’ultimo momento? E quando addirittura non si faceva trovare, né a casa, né dall'amica del cuore, e al citofono faceva rispondere la mamma? A volte la sua Cristina gli sembrava volergli sfuggire. Sua mamma, quella povera donna che peraltro a lui voleva bene, quando si presentava al cancello apriva la finestra della cucina e alle sue domande, con espressione affranta gli rispondeva solo: Non so dove sia andata, non me l’ha detto, niente altro, e forse invece sapeva bene dove fosse, ma gli spiaceva vederlo soffrire!

    Quella vigilia di Natale, mentre quattro anziani pensionati giocavano a carte, lui ascoltava i ricordi che frullavano con altri pensieri nella sua testa; gli ronzavano da ore quelle promesse che negli ultimi anni, da quando Cristina l’aveva lasciato, aveva ripercorso più e più volte per capirci un senso, ma senza trovare alcuna risposta adeguata. Rivisitando le frasi mielate che lei gli regalava nei momenti più impensati, trovò che potevano essere di circostanza, e fossero solo simulazioni, ipocrisie, forse dettate da suoi segreti innamoramenti per qualcun’altro. A quel pensiero si sentiva invadere dal fuoco della rabbia.

    Ricordò che l’ultimo giorno del loro fidanzamento era il 22 marzo del 1981, e avevano ventidue anni, non erano più bambini. Erano cresciuti insieme, dall’asilo alle scuole medie fino a quel pomeriggio primaverile, e Cristina gli si era avvicinata e gli aveva pronunciato sottovoce all’orecchio: Tu sei l’uomo perfetto guardandolo poi fisso negli occhi come se quell’attimo fosse un momento definitivo, Quella sbagliata sono io aveva aggiunto, come per nascondere una ragione più grande della comprensione che lui mai sarebbe stato in grado di dimostrarle, almeno così lei pensava. Quella frase sancì il distacco, anche se Romildo non afferrò subito né il peso, né il senso delle sue parole. Lui le aveva risposto solo un Perché? ripetuto varie volte, ma senza alcuna inimicizia, solo per capire e trovare un appiglio, per farsene una ragione. Lui si chiedeva come fosse possibile che dopo soli sette anni, tutto il loro travolgente

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