Revenge of the Ghost (La vendetta del fantasma)
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Revenge of the Ghost (La vendetta del fantasma) - Virginio Giovagnoli
IL MIO PENSIERO DI APERTURA.
Giorni…mesi…anni di tormenti.
Portati dal peregrinar del tempo da malvagie genti.
Due colpi di pistola al petto.
Questo è il lor voler per il rispetto.
Vicino e lontano dagli affetti, inaspettata è la morte.
Di molte vite cambierà la sorte.
Si spargon le ceneri sulla piana dei desideri.
La sua ombra aleggia in tanti pensieri.
Si pensa la vendetta che parte dal cuore.
Si vuol tacitar un tremendo dolore.
Figlie di diversi amori si uniscon nel tormento.
Porteran scompiglio come il turbinar del vento.
Si offre l’amor desiderando la morte.
Soprusi e minacce recheran malasorte.
Si cerca e si trovan branchi di alleati.
Per boschi e per valli giungon minacciosi i loro ululati.
La fantasia del popolo nei paesi si diffonde.
Timore e paura degli uomini ogni mente confonde.
Si arrovellan nell’intelletto un’infinità di pensieri.
Si architettan strategie per nuovi voleri.
Intrighi e inganni per alterar le menti.
Scorrerà sangue di malvagie genti.
Di parole non scritte, ma sol di giuramenti.
Si attenueran dolori e spariran tormenti.
Tutto si fa e si disfa nella vita.
Alto il mio pensier si erge: di un viver che non è mai finita.
INTRODUZIONE
Una storia raccontata in una trilogia di libri, che sembrava finita, torna a rivivere nell’animo di chi nel peggiore dei modi l’ha vissuta. Quando non si ottiene giustizia, è facile dire devi perdonare
, ma se tu sei l’oggetto di un'infinità di nefandezze, riuscirci è tutt’altra cosa. Il suo ricordo travalicherà ogni scritto e chi l'ha amato, lo riporterà in vita nella realtà della propria fantasia.
Venire a conoscenza dopo tanti anni, solo nel giorno della sua morte, che il tuo genitore è quella persona che hai per tanto tempo ammirato, ti avvilisce e ti getta nello sconforto. Il disprezzo verso chi è stato la causa della sua dipartita non riesci a contenere, così spesso sfocia nel desiderio di vendetta.
Giudicare il comportamento o quello che accade agli altri è facile e meschino, più difficile è giudicare se stessi nelle medesime situazioni.
Finalmente, dopo tanti anni, si possono conoscere tutti fra loro, in situazioni del tutto anomale. Fratelli e sorelle di un unico padre e di tre madri. Sempre pronti a tendersi una mano l’un l’altro, nei giorni bui di una rinata sofferenza. Questa è la vera soddisfazione che può rendere la vita piena, vivibile e ridarle un senso.
La fatica di tornare a ricomporre quel branco di lupi che per anni è stato ai comandi di un alfa umano è davvero difficile. Saranno ancora loro a determinare certe situazioni incresciose che si verranno a creare con il passare dei giorni. Saper riconoscere nei nuovi alfa l’amore che per tanti anni li ha uniti al loro capobranco, far ritrovare e provare lo stesso amore a due sorelle che non sapevano di esserlo, si deve a loro. Quanto avremmo da imparare dalle bestie e dagli animali domestici che vivono e che spesso per nostra incuria, sopravvivono insieme con noi.
I giorni di paura e di tensione torneranno a fare breccia in certi animi scombussolando l’essere stesso. Desideri e finti amori si mescoleranno a quelli veri, ognuno con le proprie finalità di vita e di morte.
Si cercherà nella speranza quello che difficilmente accade. Quel forse, di un domani migliore, sarà lo scudo del proprio io, per cercare di vivere e dimenticare ogni violenza e sopruso subito in tanti anni, lungo i marciapiedi della vita.
OGNI RIFERIMENTO A NOMI PERSONAGGI O FATTI REALMENTE ACCADUTI É PURAMENTE CASUALE O DI FANTASIA.
L’autore
Virginio Giovagnoli
I primi dolorosi ricordi
Mi chiamo Speranza. Sono nata nell’aprile del 1989 da una relazione extraconiugale di mio padre, venutosi a trovare in un momento particolare e difficile della sua vita. In quegli anni era latitante alla macchia essendo stato accusato di un efferato delitto, mai commesso. Un giorno girovagando nei boschi in cerca di un nascondiglio sicuro, incontrò in una cascina del comune di Mercatello sul Metauro mia madre di nome Eva. In quel periodo, anche lei stava attraversando un momento piuttosto brutto. Infatti, suo marito l’aveva lasciata, perché l’incolpava di non avergli dato dei figli. In seguito si scoprirà che dipendeva esclusivamente da lui. La mia vita è stata scombussolata in continuazione per colpa di soggetti mafiosi. Oggi è davvero una giornata davvero triste per me, per mia madre e il mio fratellino. Un killer ha ucciso mio padre. Questo è tutto ciò che ricordo, che come un flash continua a proporsi nella mia mente.
Sono le tredici del quattordici settembre 2014. In un piccolo ristorante, poco lontano dalla città di Gallipoli, regna il caos. Molte persone sono accorse verso i bagni, dopo aver sentito due spari, mentre l’esecutore materiale si dilegua in tutta tranquillità
.
«Francesco, che cosa è accaduto?», domanda uno dei due camerieri presenti in sala.
«Credo abbiano sparato a quel signore che è entrato dieci minuti fa. Non sono riuscito a sapere chi sia, ma penso sia morto».
«Com’è possibile? Si sa chi è stato e perché?».
«No! È successo tutto così in fretta. Quello che ha sparato l’ho appena intravisto quando usciva dal bagno, ma non saprei dirti chi era, forse neanche riconoscerlo. Da queste parti non l’ho mai visto, ma ormai sarà piuttosto lontano».
«Poveraccio! Era venuto per stare un po’ in pace e pranzare insieme ai suoi famigliari, invece. Senti le urla. Saranno sicuramente la moglie e i figli. Spero che prendano quel vigliacco che l’ha ammazzato».
L’arrivo di una volante dei carabinieri e di un mezzo del pronto soccorso, placa la concitazione venutasi a creare. Compiuti tutti i rilievi e le formalità dell’ora del decesso, la salma è subito trasportata nell’obitorio dell’ospedale più vicino. Dopo l’autopsia, trattandosi di morte violenta, è restituita ai famigliari. Sono passate più di settantadue ore dal reato. Avuti i relativi permessi dal comune dove è avvenuto il misfatto, si procede per la cremazione. Venerdì ventisei settembre le ceneri sono trasferite nel comune di residenza del defunto. Il paese dove è nato e dove ha vissuto la maggior parte dei suoi anni. La moglie e figli abitano ancora lì. Terminata la breve funzione religiosa, scende il silenzio nel piccolo cimitero di Belforte all’Isauro, in provincia di Pesaro e Urbino. Cinque o sei persone stanno parlottando vicino al cancello d’entrata. Assieme a loro c’è un capitano dei carabinieri.
«Senta Mancuso, io sono Speranza, immagino che lei si ricordi di me. Noi cinque siamo tutti figli del defunto: quelli avuti dalla moglie e quelli avuti dalla sua compagna, che poi sarebbe mia madre Eva. Non sappiamo ancora nulla: né chi sia l’autore del gesto criminale, né il mandante o mandanti e neanche il perché. Lo immaginiamo soltanto. Lei può darci una mano per venire a capo di questo efferato delitto?».
«Non mi pare che questo sia il momento e nemmeno il luogo adatto. Se non sbaglio, domani voi siete impegnati, così mi è parso di sentire dai discorsi che stavate facendo. Mi dispiace, però il giorno seguente che cade di domenica, sarò io a essere occupato. Lunedì potremmo incontrarci. Penso che abbiate la necessità di fermarvi qualche giorno. Comunque decidiate fatemelo sapere, così prenderemo accordi».
«Va benissimo lunedì mattina. Prima di venire le telefono per avvisarla. Per favore non dica nulla a mia madre. Per il momento non ho nessuna intenzione d’informarla di che cosa intendo fare, è già abbastanza assente e angosciata. In seguito vedrò».
«Lo immagino e la capisco, ma non si preoccupi signorina, rimaniamo d’accordo così?».
«Va benissimo grazie».
Terminata la breve conversazione, l’ufficiale dei carabinieri si allontana per andare a salutare le due donne, che stanno chiacchierando in disparte. Dopo pochi minuti ci saluta con una mano e se ne va per tornare in tenenza, mentre loro due si avvicinano a noi. Hanno entrambe gli occhi arrossati dal pianto, ma finalmente dopo tanto mutismo si parlano, anche se il tono non può definirsi né amichevole, né confidenziale.
«Vede signora, queste poche righe sono state scritte da suo marito. Sono parole che tante volte mi ha detto e ripetuto nel corso degli anni. Il suo desiderio più grande è stato sempre quello di spargere, almeno una piccola parte delle sue ceneri, nella piana di Campo: la così detta sala da ballo. Io penso che non ci sia nulla di male. Ricordo che, quando gli facevo notare che ci volevano dei permessi, mi rispondeva: Che cosa vuoi che sia, basta trafugarne un semplice cucchiaio o due, le altre lasciatele nell’urna vicino alle spoglie dei miei genitori. Non voglio farvi ammattire anche dopo morto. L’ho fatto anche troppe volte in vita
».
Sabato ventisette, sulla piana una decina di macchine sono ferme in mezzo al prato. Luigi, il più piccolo dei fratelli, in disparte, seminascosto, sta piangendo sommessamente. Improvvisi quanto inaspettati, decine di ululati provenienti dal basso, riecheggiano tutt’intorno. Sì, sono proprio loro: i lupi di mio padre. Gli erano davvero affezionati. Hanno sempre cercato di proteggerlo. Quando li ha lasciati l’ultima volta, per venire a passare qualche giorno di riposo da noi a Gallipoli, erano piuttosto tristi. Credo, anzi sono sicura, che presagissero la sua dipartita. Noto che il mio fratellino tende l’orecchio e aguzza lo sguardo, ma nonostante questo sono sicura non riesca a vederli. Ormai è abituato a loro e ne percepisce la presenza. Anch’io mi accorgo di quello che sta accadendo, ma fingo di non vedere e non sentire. Ancora sono troppo scossa e non voglio illudermi, mi metterei di nuovo a piangere, invece devo farmi forza. Mia madre è sconvolta e mio fratello non fa che spargere lacrime dal giorno della sua scomparsa. Devo per forza cercare in tutti i modi di dar loro un po’ di coraggio, nonostante me ne sia rimasto davvero poco. Così ogni volta che sono sola, anche se cerco di nasconderla, qualche lacrima mi scappa via.
Si sta facendo notte. Sono quasi le diciannove, quando i mezzi riprendono la via del ritorno, lasciandomi dentro un infinito senso di vuoto. Dopo un frugale pasto in un ristorante del luogo, mia madre, mio fratello ed io, rientriamo nella cascina di Mercatello sul Metauro. Ci preparano per la notte. Nessuno di noi ha voglia di parlare. In un silenzio muto e cupo ci ritiriamo nelle nostre rispettive camerette, e sdraiandoci nei letti cerchiamo di dormire. Mia madre inquieta, si gira e rigira da una sponda all’altra del letto, così dopo un’ora circa, si alza e si avvia verso la cucina. Immagino che cosa voglia fare: prepararsi una camomilla. Mio fratello, finalmente si è tranquillizzato e riesce ad addormentarsi. Io all’apparenza sembra che dorma, ma sto parlando nel sonno. Forse gli incubi della tragica morte di mio padre mi hanno traumatizzata. D’improvviso una luce, mentre un’ombra si avvicina facendomi sussultare. «Papà! Impossibile! Che cosa ci fai qui? C’è qualche cosa che disturba il tuo riposo?».
«Lo so a che cosa stai pensando figliola, ma stai attenta, la strada che vuoi intraprendere è irta e pericolosa. Segui il mio consiglio: pensaci bene prima di fare quello che non dovresti. Credi davvero che sia una cosa semplice? Non è così, te lo posso assicurare. Solo per prendere contatto con loro mi ci sono voluti molti giorni. Per farmi accettare e diventare il loro capobranco parecchie settimane. Lo sai che me ne intendo e che affermo la verità».
«Di che cosa stai parlando?».
«Non fingere con me. Ho percepito il tuo desiderio di vendetta».
«Ma no! Stavo solo riflettendo su come fare per avere giustizia. Lo sai meglio di me che certe persone se la cavano sempre. Si sentono i padroni del mondo. Questo non solo è ingiusto, ma non lo sopporto neppure. Con tutti i soprusi che abbiamo dovuto subire nel corso di questi anni, mi pare più che naturale: chi ha sbagliato deve pagare. Per prima cosa andrò a parlare con il tuo amico Mancuso. So, perché me l'ha detto lui, che è ancora a dirigere la tenenza di Urbino, ma in procinto di essere trasferito dopo la promozione a capitano. Da come ho capito, lascerà l’incarico a fine maggio, o i primi di giugno. Forse potrà aiutarmi. A Gallipoli, nonostante tutte le buone intenzioni, non sono venuti a capo di niente. Sono passati tredici giorni dalla tua morte. Non si sa ancora niente. Tutto è in alto mare. Più tempo passa e meno saranno le possibilità di scoprire che sia stato a ucciderti e chi lo abbia ordinato».
«Chi sia l’esecutore materiale non so dirtelo, ma chi siano i mandanti non ci sono dubbi: le famiglie dei Coccia e dei Rotundo, tramite il capomafia Rotundo, l’amico. Quello che tua madre decantava e che più volte ha provato a portarsela a letto, nei giorni più oscuri della sua vita. Sarebbe sempre quello che aveva preso le sembianze dell’integerrimo brigadiere Morabito Giovanni, occupandone anche il posto alla tenenza di Urbino».