Discover millions of ebooks, audiobooks, and so much more with a free trial

Only $11.99/month after trial. Cancel anytime.

Gli ultimi anelli della catena
Gli ultimi anelli della catena
Gli ultimi anelli della catena
Ebook162 pages2 hours

Gli ultimi anelli della catena

Rating: 0 out of 5 stars

()

Read preview

About this ebook

Quando arriva sulla scena del crimine, il commissario Alessia Licata si rende conto di conoscere quell'appartamento. Ci vive Theresa Smithson, l'amante di suo padre, la donna che aveva spezzato per sempre la sua famiglia. La donna che aveva condotto Sergio Licata a togliersi la vita. Ora Theresa è morta. Suicidio, sembra. Ma Alessia sa che qualcosa non torna. "Gli ultimi anelli della catena" è un romanzo sulla vendetta e l'integrità, sulla fragilità e la complessità dei rapporti umani. Un'indagine che intreccia vita privata e professionale verso un mistero che va oltre la risoluzione di un crimine, ma porta alla luce i segreti nascosti che custodiamo negli abissi del nostro animo.
LanguageItaliano
PublisherAUGH Edizioni
Release dateApr 15, 2020
ISBN9788893432795
Gli ultimi anelli della catena

Related to Gli ultimi anelli della catena

Related ebooks

Thrillers For You

View More

Related articles

Related categories

Reviews for Gli ultimi anelli della catena

Rating: 0 out of 5 stars
0 ratings

0 ratings0 reviews

What did you think?

Tap to rate

Review must be at least 10 words

    Book preview

    Gli ultimi anelli della catena - Fedora D'Anzeo

    piatto_d_anzeo.jpg

    © Alter Ego s.r.l., Viterbo, 2020

    AUGH! Edizioni

    Collana: Ombre

    I edizione digitale: aprile 2020

    ISBN: 978-88-9343-279-5

    Progetto grafico: Luca Verduchi

    www.aughedizioni.it

    Capitolo I

    «Porca puttana».

    Il commissario Alessia Licata se la prese con il proiettile che non era andato a bersaglio. Riprese la concentrazione e finì i quindici colpi del caricatore un centro dopo l’altro. Ne mise uno nuovo e si preparò a sparare ancora. Non fece in tempo a rimettere le cuffie che un addetto del poligono la raggiunse con una comunicazione: «Licata, è la centrale. Hanno trovato un cadavere».

    Il commissario rimise velocemente ogni cosa al suo posto. Neanche cinque minuti dopo aveva lasciato il poligono ed era in auto attaccata al telefono di servizio: «Che è successo?».

    «Hanno trovato una donna morta, probabile suicidio».

    «Dove?».

    «Via Garibaldi 18, ci sono già Sacchi e Visconti».

    «Il magistrato?».

    «Ancora no».

    «Vado».

    Accelerò per quel che poteva. La via era in pieno centro e a quell’ora, nei vicoli stretti, ci sarebbe stato di che penare, con i residenti di ritorno dal lavoro alla disperata ricerca di un parcheggio. Male che vada, attacco il lampeggiante, pensò, ma non ci fu bisogno. Mise l’auto nel primo posto utile e corse verso l’indirizzo che le aveva indicato la centrale. Ci stava andando come se già fosse stata lì. No, non come se. Era già stata lì. Quartiere signorile, palazzi cinquecenteschi testimoni dell’agio in cui vivevano i ricchi toscani nel Rinascimento, finestre grandi, niente balconi, un terrazzo enorme in cima all’edificio. Il numero 18 corrispondeva al portone che conosceva bene. Maestoso, di legno e di ferro, l’ideale per custodire segreti. Adesso era spalancato, e davanti all’ingresso c’erano una macchina della polizia, l’ambulanza e due soccorritori che stavano entrando. Scene che aveva già visto ma ora le sembravano irreali e distanti. Inevitabilmente c’erano anche loro, pizzetto, Giovanni Paoli, e la bionda, Marianna Russo, la migliore squadra della scientifica pronta a esaminare la scena del crimine. Sempre che di crimine si trattasse, per il momento la chiamata era per un banale suicidio. Passò oltre, salì le scale due per volta. Nel vederla, Giada Sacchi si avvicinò mentre Leo Visconti, senza voltarsi, continuava a parlare con una donna altissima e anziana che stava piangendo tutte le sue lacrime. Il medico legale stava esaminando il cadavere, la chiazza di sangue tra i capelli biondi che si propagava dalla tempia destra lasciava poco spazio all’immaginazione: Theresa era morta per un colpo alla testa.

    «Commissario, sembra un suicidio. È una donna, trentacinque anni, Theresa Smithson, origini americane, residente in città da dieci anni, faceva l’artista. Abbiamo trovato un biglietto».

    Non prestò molta attenzione alle generalità elencate da Sacchi, le conosceva tutte, ma drizzò le orecchie quando le parlarono del biglietto. Lo volle leggere: Chiedo scusa a tutti, non riesco più a sopportare questa vita. Suicidio un cazzo, pensò, ma non disse niente. Dopotutto, l’unico motivo per dubitare dell’evidenza era ciò che sapeva della vittima: Theresa non era il tipo da suicidarsi e non avrebbe scritto mai un biglietto tanto banale. Però, rifletté, erano almeno cinque anni che non aveva più niente a che fare con lei e il tempo cambia le persone, magari era depressa. L’istinto continuava a dirle che si trovava di fronte a un omicidio ma sapeva di dover trovare alla svelta qualche riscontro nella pratica, altrimenti il questore non l’avrebbe autorizzata a indagare. Mentre pensava a queste cose, si era avvicinata al cadavere della donna che aveva sedotto e abbandonato suo padre e distrutto per sempre la sua famiglia. Una maschera di sangue, un corpo da dare in pasto ai vermi, il frutto delle sue preghiere era lì davanti ai suoi occhi: Theresa, come aveva sperato per mesi, non c’era più, ma non ne fu contenta, anzi rabbrividì e si ricordò di quel detto: quando gli dei vogliono punirti esaudiscono i tuoi desideri.

    Fu Visconti a interrompere i suoi pensieri: «Commissario, ho parlato con la governante: oggi aveva il giorno libero, era rientrata per portare dei vestiti che aveva ritirato in lavanderia e ha trovato la vittima sul letto. Aveva la pistola in mano e c’era il biglietto sul comodino». Alessia Licata ascoltò in silenzio e guardò il medico legale che aveva appena finito e non aspettò nemmeno la domanda: «Commissario, poco da dire. Si è sparata un colpo in testa, la morte risale a circa dodici ore fa, potremmo essere più precisi con l’autopsia, se fosse necessaria…».

    Non finì la frase. Alessia lo ringraziò e poi si rivolse ai suoi colleghi: «Giada, chiedi ai vicini di casa se hanno sentito o visto qualcuno entrare o uscire tra ieri sera e stamattina. Leo, la donna aveva qualche parente?».

    «La governante ha detto che non aveva nessuno in città, viveva da sola. Pare avesse un fidanzato che però vive a Milano, ho già detto alla centrale di contattarlo».

    Era nervosa e Visconti se ne accorse: «Cos’è che non ti convince, Alessia?».

    Lo guardò irritata. Perché indovinava sempre cosa stava pensando?

    «Solo sensazioni, vedremo. Parliamo con il magistrato».

    Il dottor Baldini arrivò trafelato e nervoso. Vivevano in un posto tranquillo ma quando era di turno sembrava che qualche forza oscura lavorasse apposta per far capitare qualcosa di brutto, ovviamente assicurandosi che le grane fossero per lui. Alessia sapeva di non godere della simpatia dell’uomo. In procura la definivano troppo zelante e l’eccesso di zelo non piaceva quasi a nessuno. Baldini, in particolare, non si preoccupava di nascondere i suoi sentimenti verso la giovane poliziotta. Infatti, quando Alessia gli si avvicinò per dirgli: «Dottore, vorrei parlarle» lui alzò gli occhi al cielo, assicurandosi di essere visto: «Mi dica» rispose gelido, lasciando trasparire la sua disapprovazione.

    «Ho qualche dubbio sul suicidio…» fece lei dosando bene parole e tono della voce. «Cosa non la convince? Il biglietto, il colpo alla testa, il fatto che sia stata trovata in perfetta solitudine?».

    «Era mancina».

    Doveva pensare in fretta e le era venuto in mente che Theresa usava sempre la sinistra. Con quella mano l’aveva vista dipingere, bere il caffè, strisciare la carta di credito. Accarezzare suo padre. Il colpo era alla tempia destra.

    «Come ha detto?».

    «Theresa Smithson era mancina. Il colpo invece è stato sparato con la destra».

    «Ma lei che diavolo ne sa?».

    Licata deglutì. La storia dell’amante di suo padre non si doveva sapere.

    «Dipingeva, ho… un paio dei suoi quadri in casa. È mancina. Era».

    La tensione e l’irritazione si videro chiaramente sul volto di Marco Baldini, ad Alessia venne da pensare che se non fossero stati un magistrato e il capo della mobile nell’esercizio delle rispettive funzioni, probabilmente l’uomo l’avrebbe presa a male parole. Tuttavia, poiché erano un magistrato e il capo della mobile e si trovavano dannatamente nell’esercizio delle loro funzioni, Alessia incassò soltanto una risposta appena sgarbata: «Insomma, cosa vuole?».

    Alessia Licata sentì che stava per segnare il punto: «Solo che disponga l’autopsia. Magari troviamo una traccia sotto le unghie, sperma, qualsiasi cosa ci indichi la presenza di un’altra persona in questa stanza stanotte».

    «Secondo il medico legale non ci sono dubbi sul suicidio».

    «Non ho avuto modo di riferirgli che la vittima fosse mancina».

    Entrambi rivolsero lo sguardo al medico legale il quale capì che avrebbe dovuto raggiungerli. Alessia cercò di essere il più convincente possibile: «Dottore, ho notato che la vittima ha un colpo alla tempia destra. Ma era mancina, lo so per certo».

    Il medico legale non sembrò particolarmente colpito dalla circostanza, si grattò la barbetta rada: «Vuol dire tutto e niente. Anche io sono destro ma quando annaffio le piante in giardino, non so perché, uso la sinistra».

    «Ma premere un grilletto richiede un po’ di forza» ribatté. «Non sono un medico, però credo sia un’operazione che si fa con la mano dominante».

    Non sapeva se avesse detto una cosa sensata, stava solo cercando di prendere tempo in attesa che le venisse un’idea migliore. Il medico legale e Baldini si guardarono senza dire niente ma la loro espressione non lasciava dubbi: se fossero stati in un fumetto, in quel momento ci sarebbe stato scritto: Che grandissima scassacazzi. Non sapevano che per Alessia era un complimento, se le veniva detto all’interno dell’orario di lavoro.

    Leo Visconti si avvicinò ai tre: «Chiedo scusa. Commissario, non riusciamo a trovare il cellulare della vittima».

    Alessia si illuminò, il volto del magistrato apparve improvvisamente più teso.

    «Avete guardato dappertutto?» chiese pro forma.

    «Sì, commissario. La governante dice che lo teneva sempre sul comodino quando dormiva. Non aveva computer ma un tablet. Non troviamo nemmeno quello».

    Alessia guardò il medico e il magistrato, per quanto volesse dissimularlo, con aria trionfante. La sorpresa ammutolì gli altri nella stanza. Il medico disse, asciutto: «Chiederò che sia disposta l’autopsia».

    Licata cercò di non lasciar trasparire la soddisfazione che provava in quel momento, ringraziò e si avvicinò a Paoli della scientifica. L’uomo, occhi chiari e l’aria di chi la sa lunga, sembrò leggerle nel pensiero: «Lo stub» le disse quando la vide avvicinarsi.

    Era l’esame che serviva a dimostrare se Theresa avesse effettivamente sparato. In quel caso, ci sarebbe stata della polvere da sparo sulla mano destra della donna. Alessia rivolse a Paoli un sorriso stanco e lo ringraziò, l’uomo rispose con un cenno della mano e riprese a ispezionare la stanza con la sua collega. Qualcosa che rivelasse una presenza.

    Confortata dall’intesa coi colleghi della scientifica, Alessia chiamò a rapporto Visconti e Sacchi, che era appena tornata nell’appartamento.

    «Trovato niente, Giada?».

    L’agente scelto scosse la testa: «Nessuno ha notato niente di strano. Pare ci fosse spesso gente che andava e veniva e quindi nessuno ci ha fatto caso».

    Licata la ascoltava appena. La sua testa stava già lavorando su altri dati: se mancavano cellulare e tablet voleva dire che l’assassino – perché non aveva alcun dubbio che ce ne fosse uno – sapeva che lì dentro c’era qualcosa che avrebbe portato dritto a lui: foto? Conversazioni compromettenti? In caso contrario, che senso avrebbe avuto portar via tutto?

    Pensava a queste cose quando le venne in mente che, in assenza dei supporti, qualcuno avrebbe potuto aiutarla a scoprire se Theresa avesse dei segreti custoditi nel mondo digitale. Era il momento di rivedere Giulio.

    Tornò con la testa in casa di Theresa e si rivolse ai colleghi: «Va bene. Leo, chiedi alla governante il numero di telefono della vittima e andiamo in questura».

    Per tutto il tragitto non fece che pensare a come parare l’inevitabile lavata di capo del questore. Alessia non poteva fare a meno di andare a fondo in tutte le cose. Era per quello che aveva deciso di diventare un poliziotto, glielo dicevano da sempre, da quando era solo una bambina: con quella testa che hai puoi fare solo il poliziotto, oppure devi darti alla filosofia. Era capitato, a volte, che per via di quella smania di indagare, avesse preso iniziative che poi si erano rivelate inutili. Come quando aveva fatto mettere sotto stretta sorveglianza un professore perché aveva dato retta alle denunce di una sua alunna, nota mitomane. Alessia era stata l’unica a dare credito alla ragazza, era convinta di aver visto in quegli occhioni azzurri tanta sofferenza e aveva voluto darle una mano. Salvo poi rendersi conto che la piccola e dolce Elisa aveva seriamente bisogno di farsi vedere da uno psichiatra. E forse era già tardi. Questa volta, però, era diverso. Lei della vittima sapeva tutto, se non altro tutto quello che aveva fatto, detto e soprattutto scritto fino a cinque anni prima. Cosa ancora più importante, stavolta a muoverla non era la pietà ma un desiderio irrefrenabile di stabilire la verità. Sentiva che quello era il suo dovere. Theresa non poteva essere morta soltanto perché lei lo aveva desiderato, fino a pensare di ucciderla con le sue mani, pensò. Si era sicuramente cacciata in un guaio, da quella svalvolata senza criterio che era. Infine, se qualcuno l’aveva uccisa, là fuori c’era un assassino in libertà. E noi siamo poliziotti, non ce lo possiamo permettere, giusto signor questore?

    «Licata, lei mi vuole far prendere un infarto, vero?».

    L’inconfondibile accento napoletano di Eduardo Picozzi Passalacqua si faceva ancora più marcato quando era arrabbiato. Alessia pensò che quella doveva essere una caratteristica degli emigrati: anche sua

    Enjoying the preview?
    Page 1 of 1