C'è chi dice no
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C'è chi dice no - Andrea Martina
Prologo
IN GARAGE
Cos’era successo?
Dove mi trovavo?
Davanti a me vedevo solo tante auto parcheggiate e un neon guasto che illuminava a intermittenza l'ambiente.
Dovevo aver sicuramente perso i sensi: la cosa importante era capire dove mi trovavo e, soprattutto, se ero ferito. Mi sembrava di essere in un garage e poteva significare già abbastanza per capire di essere nel posto sbagliato. Non riuscivo nemmeno a ricordare quello che mi era successo prima di svenire, ma non importava: dovevo uscire di lì e chiamare immediatamente Massimo, solo lui poteva dirmi qualcosa di utile.
Dov’era il telefono? Le tasche dei jeans: vuote. Niente soldi, niente documenti, niente telefono, niente bustine.
Ecco, ricordavo di aver avuto delle bustine. Sì, iniziavo a collegare: mi ero fatto dare le dosi da quell'idiota. Come si chiamava? Michele, se non sbaglio, ma si faceva chiamare Mik; un p.r. cocainomane da quattro soldi che aveva due enormi difetti: parlava troppo e si faceva chiamare Mik.
Quello era il parcheggio del Boulevard: si sentiva la musica, iniziavo a mettere a fuoco. Sono nel parcheggio sotterraneo dei dipendenti del locale, dovevo cercare le scale per risalire.
Mi ero alzato. Dovevo essere rimasto a terra per parecchio tempo perché non riuscivo a camminare bene e... il mio zigomo sanguinava: un gran bel pugno, probabilmente.
Ormai stavo recuperando i sensi, tanto valeva fare una breve perlustrazione del posto, magari avrei trovato qualcosa che avrebbe potuto aiutarmi a capire.
A terra, oltre l'umido, c'era qualche traccia di sangue che sarà stato sicuramente il mio e dei segni di trascinamento: non ero arrivato lì con le mie gambe. In lontananza, però, c'era una pozza di liquido che risaltava sulla regolarità del pavimento. Avvicinatomi avevo realizzato di non essere stato l'unico ad aver perso sangue. Una differenza: io avevo uno zigomo malconcio e l'altro malcapitato era sicuramente morto con tutto quel sangue lì in terra.
Dovevo andare via, subito.
Il garage era fatto ad elle e il portone grande che conduceva allo scivolo era chiuso; le scale, invece, potevano trovarsi dietro quella porta rossa in fondo al corridoio. Era l'unica porta che vedevo, a pensarci bene.
Avevo alzato il passo, sentivo sulla tempia la vena che batteva e un forte tremolio alle mani. Mi era già successo di vedere dei cadaveri e il sangue non mi impressionava affatto, la mia agitazione era il frutto del pericolo che sentivo di correre.
Non sapevo dove mi trovavo e come ci ero arrivato, il mio volto si era abbattuto su un pugno da finale dei pesi massimi che mi aveva messo a dormire per non so quanto tempo e, risvegliandomi, avevo scoperto di essere in un garage dove con buone probabilità si era appena consumato un omicidio.
Mentre aprivo la porta, un riflesso incondizionato verso sinistra mi aveva fermato ancora un momento. Non esistevano molte vetture del genere a Padova, specie di quel colore. Mi guardavo ancora una volta intorno: dovevo andare a controllare.
Era proprio lui: il Maggiolino bianco nuovo modello, il mio Maggiolino.
Ecco, quello certificava il grandissimo casino in cui mi trovavo, anche se di dubbi ne avevo pochi. Non avevo le chiavi per aprirlo e dentro, oltre a un festival di sangue degno del miglior Tarantino, c’era un morto completamente sventrato.
Ok: bisognava correre.
Mi ero fermato ancora un attimo, cosa che una persona normale non farebbe in una situazione del genere.
Io quel morto lo conoscevo.
Era Mik.
Male. Meglio scappare.
I. METANFETAMINA
Torniamo indietro di qualche mese, riavvolgiamo il nastro fino a fermarci a febbraio: da maggio a febbraio può succedere di tutto.
Niente più latte tiepido e odore di caffè bruciato, niente più ispezioni all'alba, niente puzza di piscio che respiravi in ogni ambiente. Era ora di smetterla con quelle cose.
Corso Garibaldi, Brindisi. La mia Brindisi.
Finalmente tornavo a camminare per le strade da uomo libero. Dieci mesi in cella sono duri da digerire, specie se non sei abituato.
Nel carcere di via Appia non ci voleva molto a dividere i detenuti in due categorie: i clienti abituali e i nuovi. I primi entravano sorridendo, salutavano ogni mattina il secondino di turno e nell’ora d’aria trovavano sempre qualcosa da fare: raccontavano le loro gesta criminali rigorosamente gonfiate, erano curiosi di sapere perché era finito dentro questo o quel detenuto, parlavano di progetti. L’unica sicurezza che avevano era che il carcere fosse la loro vera casa: anche se odiavano quel posto, non se la passavano poi così male.
Per i nuovi, be’... i nuovi si vedevano già dal primo giorno: rigidi come pali. Dalla sala di traduzione fino alla cella abbassavano la testa o si guardavano nervosi intorno, erano impacciati anche nel chiedere una sigaretta, ma dopo qualche giorno si adeguavano e venivano inghiottiti dallo stile di vita carcerario.
Io non ero finito dentro per aver commesso un reato. Io dovevo solo osservare per poi mettermi al lavoro.
Brindisi era bella, quella mattina.
Mi dirigevo verso il porto. Una volta uscito dal carcere non c'era nessuno ad aspettarmi. Dopo quello che mi ero lasciato alle spalle c’era la buona probabilità di trovare un mirino puntato sul petto alla prima boccata d’aria. A quanto pare chi di dovere continuava a proteggermi anche in quel momento.
Ero arrivato sulla banchina del porto per respirare un po’ di mare, mi sembrava insolita quella tranquillità e, infatti, mi avevano seguito.
«Ti vedo sciupato...».
«Non sono stato al Grand Hotel. Mi seguiva dall’uscita?».
«Non hai una gran voglia di vedermi, vero?».
«Di lei ho sempre ammirato la perspicacia».
«Me ne sbatto di quello che pensi di me, mi interessa piuttosto quello che hai fatto lì dentro».
«Diciamo che non sono stato un detenuto come gli altri...».
«La vuoi una sigaretta?».
«No, grazie».
«Credo proprio di sì, invece».
Mi mostrò un pacchetto di Lucky da venti aperto con all'interno tre sigarette e un bigliettino: forse in galera ero più libero.
Coprendo il pacchetto con il dorso della mano, avevo preso sigaretta e bigliettino facendo scivolare quest’ultimo nella manica del maglione.
«Allora ti auguro una buona giornata».
Dopo aver annuito con la testa, mi allontanavo dal porto. Io non fumavo, ma non potevo assolutamente buttare la sigaretta dopo un paio di tiri, non sarebbe stato prudente. Stavo continuando la passeggiata come se non fosse successo niente e, una volta finita quella maledetta sigaretta, entrai in un bar.
C’era l'atmosfera del lunedì mattina: discorsi sterili sul week-end appena passato, nervosismo da inizio settimana e i classici litigi inutili su rigori e gol annullati. A me interessava solo il fatto che ci fosse tutta quella gente: nella confusione si è meno osservati.
Dopo aver ordinato un cappuccino, mi ero recato in bagno per leggere quel bigliettino:
Via Giordano Bruno, 35 - interno 4
.
Bigliettino nel wc, scarico, cappuccino e via.
Non sapevo se quell’indirizzo fosse un punto di partenza o di arrivo. Tutto quello che c’era stato prima era, apparentemente, già sufficiente.
E invece no.
Iniziò tutto nell'aprile dello scorso anno in un appartamento a Padova abitato da tre studenti. Uno di questi era il figlio del ministro Rovai, aveva vent'anni.
Già, aveva.
I carabinieri lo trovarono disteso sul tavolo della cucina con l’ago ancora in vena. Gli altri due inquilini non erano in casa e le indagini esclusero subito un loro coinvolgimento. Il ragazzo si chiamava Matteo e, tranne qualche sporadico spinello, non aveva niente a che fare con l’eroina.
Il caso si faceva spinoso e ogni volta che c’era qualcosa del genere entravo in gioco io. C’era il figlio del ministro coinvolto: logico che lo Stato avrebbe messo in campo anche risorse ai limiti della legalità pur di far chiarezza su quella vicenda. In un paese cresciuto tra mafie, stragi, logge e tangenti, quelli come me sono essenziali per fare in modo che certi equilibri non saltino per aria.
Per prima cosa bisognava recarsi nel luogo in cui era successo il fatto. Dopo meno di due ore dal ritrovamento del cadavere ero già su un Brindisi-Venezia.
Arrivato in quell'appartamento mi ero subito accorto di quanto puzzasse quella situazione. I giornali aprivano le loro edizioni online con "L'overdose del figlio del Ministro Rovai", la famiglia rimaneva in silenzio e gli sciacalli dei talk-show iniziavano la loro caccia tra gli amici del ragazzo per raccogliere aneddoti e interviste inutili.
Tornando a quel cadavere: sembrava tutto troppo perfetto. Il ragazzo era stato appena mollato dalla fidanzata, si era scolato un litro di Jack Daniel's nella vasca da bagno e successivamente aveva preso siringa, cucchiaio e accendino per spararsi quella dose fatale. L'unico modo per confermare quella versione nel mio rapporto era aspettare l'autopsia. Ovviamente, in storie di questo tipo, le quarantotto ore successive al decesso sono fondamentali per raccogliere qualunque tipo di informazione.
Mi allontanai da quell'abitazione per dirigermi in questura: dovevo parlare subito con i due coinquilini del ragazzo, portati lì in gran segreto dagli agenti.
Erano visibilmente scossi, in quel preciso momento dovevano essere a Milano per vedere un concerto dei Red Hot Chili Peppers programmato da mesi e si trovavano, invece, a dover piangere la morte di un amico e dare immediate spiegazioni a uno come me, senza distintivo e, tecnicamente, senza autorità. Mi dissero che Matteo non aveva niente a che fare con l'eroina e che era stato lui a mollare la ragazza per un'altra.
Presi il taccuino e cancellai la scritta Lasciato dalla fidanzata. Iniziavano già a circolare le prime balle e questo mi faceva capire che quel Matteo Rovai, figlio del ministro Rovai, non era un suicida.
Ero arrivato in via Giordano Bruno, una strada vicino alla stazione di Brindisi. All’interno del civico 35 c’era una scala che conduceva a due pianerottoli. Mi trovavo di fronte alla porta dell'interno 4 senza avere la più pallida idea di chi mi avrebbe aperto.
«Sei in anticipo».
«Addirittura! Vedo che hanno scomodato i pezzi grossi per questa storia».
«Entra, dai».
In quell'appartamento non ci abitava nessuno da anni, si sentiva dall’odore. Era solo un luogo d’appoggio, uno dei tanti. La cucina era al limite della decenza.
«Abbiamo letto il tuo rapporto: l'idea di piazzarti in carcere era l'unico modo per arrivare a quelle conclusioni. Anche se, capisco i disagi…».
Ecco come farmi incazzare: capisco i disagi, magari poteva aggiungerci anche un bel stando dietro a una scrivania.
Mi dovevo calmare.
«Adesso che sono fuori, come funziona?».
«Calma, calma. Prima voglio capire se sei in grado di proseguire quest’operazione».
«Sta scherzando, vero?».
«La prudenza non è mai troppa in situazioni del genere».
«Senta, io sono stato per quasi un anno in quel posto di merda. Dovevo avvicinare Fontana e ho avvicinato Fontana. Ora cosa volete fare? Continuare a usare informatori inutili o infiltrare direttamente me?».
«Siamo sicuri che Fontana ti abbia dato la sua benedizione?».
«Sì».
«Sono anni che proviamo a infiltrare qualcuno nella sua rete e i risultati sono sempre stati vani. Tu come hai fatto?».
«Perché non prova a chiedere agli altri come hanno fatto a non riuscirci?».
«Mi stai nascondendo qualcosa?».
«Il primo a dubitare dovrei essere io, non crede? Siamo partiti dall'omicidio di un ragazzo e adesso mi trovo a parlare addirittura con lei. Tralasciando i dieci mesi in cui rischiavo la pelle dalla mattina alla sera».
«Rischiamo tutti: viviamo di mezze verità, lo sai benissimo».
«Ed è qui che la pensiamo in modo diverso. Le mezze verità le costruiamo proprio noi. Per farlo, però, bisognerebbe avere la situazione sotto controllo».
«Con la mossa che stiamo per fare inizieremo tutti a capirne di più. Quella è gente che non scherza e potresti trovarti in situazioni senza via d'uscita, lo sai anche tu. Capisci il nostro interesse a proteggerti?».
«Lo sa che lei potrebbe fare il commercialista?».
«Come?».
«Ha la sindrome del commercialista».
«E sarebbe?».
«Quando si fanno bene le cose siamo noi
, se ci sono dei rischi da correre o delle situazioni delicate sono io
e non più noi
».
«Invece tu potresti fare carriera, tra qualche anno...».
«Non mi interessa diventare come lei».
«Dicono tutti così, all'inizio. Ma lasciamo perdere e pensiamo alle cose serie: io ti do il via libera, non farmi pentire o non duri nemmeno una settimana».
«Ecco, finalmente sento una cosa sensata».
Davanti a me c'era una valigetta: documenti nuovi di zecca, passaporto, una Smith & Wesson 29 con cinque caricatori, le chiavi di una Volkswagen, un cellulare, 50.000 euro e l'indirizzo di un appartamento con chiavi annesse: si ritornava a Padova.
«Quando devo partire?».
«Hai fatto colazione?».
«In un certo senso...».
«Bene, allora direi che puoi partire. L'auto la trovi nel parcheggio della stazione».
Non era una Volkswagen qualunque, ma un Maggiolino bianco nuovo modello.
Presa l'A14, iniziavo a pensare ancora una volta a quella maledettissima storia di Padova.
L'autopsia su Matteo Rovai parlava chiaro: non si trattava di eroina ma di shaboo (o metanfetamina), una nuova droga che aveva effetti più lunghi e letali di cocaina ed eroina. La dose era stata preparata appositamente per uccidere e nel corpo non c'erano tracce di Jack Daniel’s eccetto che sulle labbra. A spazzar via ogni dubbio era il modo in cui avevano stordito quel ragazzo: sonnifero nell’acqua minerale. Tutto quadrava: omicidio.
L'assassino di Matteo era un professionista, sapeva cosa sarebbe successo dopo. Simulando un suicidio aveva costretto gli inquirenti a perdere due giorni di indagine su una pista vuota in modo da prepararsi un’eventuale fuga, l'autopsia ribaltò la situazione e forse era già troppo tardi.
Il ministro Rovai passò quei giorni drammatici nella sua villa milanese in assoluto silenzio. Parlava soltanto con alcuni colleghi di partito e con me.
Proprio così. Non con ispettori, commissari o magistrati. Il ministro doveva parlare con me perché rappresentavo l'unica persona che poteva realmente fare luce su quell’omicidio. Inutile specificare quanto fosse straziante interrogare per ore un uomo a cui hanno appena ammazzato il figlio.
Poi successe una cosa importante: un mafioso di mezza tacca mi consegnò una dose di shaboo che mi avrebbe aiutato
. Era solo un assaggio dello schifo che circondava quella storia e il mio lavoro: dovevo parlare anche con i mafiosi, precisamente con Mimmo Crescenzi, un affiliato di Cosa Nostra al nord.
Esaminando la dose trovai riscontro con quella presente nel corpo di Matteo. Crescenzi mi disse che una droga di quel genere veniva venduta solo dagli spacciatori di Renato Fontana, boss di grande calibro delle cosche siciliane operanti nel Triveneto.
Ok, come fai a fidarti di un mafioso che potrebbe travestirsi da informatore per sviare indagini o colpire qualche nemico?
Semplice: non ti fidi.
Ci vollero dieci giorni e qualche migliaio di euro speso per confermare quella pista. Su cinque dosi acquistate da diversi spacciatori dei Fontana tutte e cinque avevano riscontri con quella dell'omicidio: quella roba aveva il loro marchio.
Facendo il riassunto, avevo tra le mani una storia e tre domande. Cosa c'entrava la droga di Fontana con quel ragazzo? Se volevano colpire il ministro perché lo avevano fatto in un modo così diretto e plateale? E soprattutto: perché Crescenzi si era esposto in quel modo tirando in ballo