Myself: 1, #1
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About this ebook
Katarina vive al di fuori del mondo virtuale noto come Myself, il più grande social network del momento, in cui ogni essere umano è collegato ad esso, e i droni con la propria autonomia si prendono cura di loro. Intrappolata in una realtà solitaria con sua figlia collegata alla rete, decide di lottare per ciò che ritiene giusto, affrontando la società stessa.
Cosa faresti se tutto ciò che ti interessa nella vita fosse dall'altra parte di un mirino?
L'intangibile diventa il tuo nemico. Senza indizi, sola in un nuovo mondo e stanca di aspettare, si precipita nell'incerto per darci un vero futuro.
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Book preview
Myself - Adrián Gonzalez
MYSELF
MYSELF
González Adrián
©Gli scritti di Qetra
www.lasescriturasdeqetra.com
Titolo originale: Myself
© Del testo: 2017, González Adrián
González, Adrián
Myself. -1° ed. - Buenos Aires.
Letteratura Giovanile – Fantascienza.
Tutti i diritti riservati. Questa pubblicazione non può essere riprodotta, né nel totale né in parte, né registrata in, o trasmessa per, un sistema di recuperazione di informazioni, in nessuna forma né per nessun medio, sia meccanico, fotochimico, elettronico, magnetico, on-line, per fotocopia, o qualsiasi altro, senza il previo permesso per iscritto dell’autore González Adrián.
Il mio posto preferito era diventato una grande autostrada, occupata da centinaia di edifici che oscuravano il cielo nel tramonto. I paesaggi elettromagnetici trasversali erano le nuove incorporazioni dei droni. Non avevo avuto la possibilità di provarli, giacché per me non aveva nessun senso farlo. Le macchine, nel corso degli anni, continuavano proiettando il lavoro degli architetti umani. Queste lavoravano senza riposo, ignorando che l’unica che percorreva i nuovi traguardi ero io. Anni prima pensavo che avrebbero cessato non più tardi di due o tre strutture. Non fu così. L’immaginazione umana non ha limiti. La capitale era stata riformata per completo e non sembrava che stavano per finire in nessun momento.
Myself è vita, felicità e il tuo sogno che si avvera. Incorpora il nostro nuovo disegno di chip e inizia a vivere
. L’annuncio si riproduceva ogni mezz’ora. Più e più volte risuonavano negli altoparlanti le parole di una donna. Semplice, gradevole e persuasibile. Quasi potevo crederli con ogni giorno che passava.
La vita si riduce nella solitudine di una vita su un ponte. Sostengo con forza il casco della motocicletta, per non piangere, per l’impotenza del maledetto che si portò i miei amati. È solo che, come si può combattere con qualcosa intoccabile come una rete sociale? Myself terminò con la vita così come qualche giorno si è conosciuta. Nessuno in un futuro parlerà di questo o scrivere la storia. Non ci sarà nessuno che potrà raccontarlo all’essere umano. Sospiro con lo sguardo dritto, mentre il sole cade nell’orizzonte. Portò le mani verso il mio corpo, nell’intento di calmare il freddo che porta la brezza del tramonto «dovresti tornare a casa», penso.
Monto la motocicletta. È delle poche cose che amo in questo mondo vicina a me. È di grande dimensione, sportiva, con forma aerodinamica e di un color rosso furioso. Quasi non metto piede per terra, però questo mi tiene senza attenzione. Faccio sentire il suo grande ruggito nell’autostrada. È una di quelle piccole cose che mi fanno sentire viva fra tanta solitudine.
Arrivo a casa dopo un breve periodo di alta velocità. Mi prendo sempre un momento per guardare intorno quello che è diventata la vita quotidiana. Tutte queste macchine automatizzate facendo il lavoro che era così rutinario nelle nostre vite; tagliare l’erba, pulire la casa, spedire una lettera, fare shopping, cucinare. Tutto è andato, lo fanno tutto loro e i nostri corpi rimangono mummificati in una vita virtuale. Cade il silenzio per i miei zigomi, le lacrime più fredde che ricorrevano questo luogo. La furia mi vince. Corre l’ira nel mio sistema e questa vita ingiusta. Per una madre che mai desiderò questo per sua figlia. Myself si portò tutto, è diventato così poderoso e perfetto. Migliorò il rendimento umano al cento per cento in tutti i luoghi del mondo; hanno cessato di esistere la povertà, le guerre, incluso i bambini dei giorni d’oggi ignorano cosa sia il male, al prezzo di cosa? Ammettere una legge che imponga che tutto gli esseri umani che nasce si connette un chip del programma, e aprendo gli occhi si trovano dentro di un mondo virtuale e inverosimile, che non si assomiglia minimamente alla vita reale. Mentre alcuni droni automatizzati, riforniti dalla luce solare, fanno tutto il lavoro e li alimenta come vegetali senza avere la possibilità di una vita normale e è tutto quello che stanno rubando. Dov’è finito il libero arbitrio?
Esplodo di rabbia, non posso evitare di gridare. Le mie espressioni fuori della mia testa arrivano a tutto l’solato. Esplodo in un mare di pianti e lacrime. Cado in ginocchio nell’erba artificiale tagliata alla perfezione, pieno di illusioni della vita, che non ha nessun insetto gironzolando in lei, né impronte di bambini giocherellando.
—Ah, il perfetto mondo di Myself! Dico a voce alta, con il tono più ironico suggerito per questo momento.
Lascio riposare i sentimenti incontrati per un momento prima di mettermi in piedi. Forte come sempre nell’entrare in casa, mantengo la speranza che mia figlia veda alcun malfunzionamento in Myself e mi abbracci all’entrare.
Non succede nulla. Solo vari droni intorno a lei. Come sempre seduta al tavolo. In questi momenti venendo alimentata da due braccia meccaniche che escono della stessa. Nel tavolo, sopra un piatto, c’è qualche tipo di carne e vegetali, le sufficienti vitamine per mantenersi forte nel mondo reale. Avanzo verso di lei.
—Ciao, Sara —La saluto, senza risposta, spero qualcosa di più come una tonta.
Mi siedo di fronte a lei. Si aprono due portelli nel tavolo, due braccia mergono. Preparano il pranzo in un bel piatto di vetro trasparente, colorato con teneri colori pastelli.
—Meraviglioso —Sbuffo con odio.
Visto che era automatizzato non poteva scegliere neanche i miei propri pasti. Il sistema di scanner si realizza nelle persone nel momento di rifornirsi di alimento: colazione, pranzo e cena. Captando che nutrienti sono bassi nel corpo; servendo così, il cibo ideale per fortificarsi le carenza nell’organismo. Il mondo utopico dell’umano creato a sua somiglianza (peccato che nessuno poteva apprezzarlo nel modo esemplare come io lo faccio). Dovrei lasciare ad un lato un poco il sarcasmo. Però non posso, diventerei una ipocrita se apprezzerei appena questa vita. Nell’osservare mia figlia di fronte, penso che mai ascoltai la sua prima parola neanche la vidi dare i suoi primi passi. Questo mi infuria e fa uscire il peggiore di me. Cerco di mangiare il poco che posso. Non ho tanta voglia, però devo essere forte per affrontare questi momenti così duri e pensare cosa devo fare. Do qualche morso, giro il purè, mangio qualche pezzettino di pane, termino la spremuta di arancia e mi alzo per andare nella mia stanza. Non appena mi alzo in piedi, amici miei le braccia robotiche puliscono tutto il disordine e buttano i resti, sospiro con un gesto di disapprovazione. Mi dirigo verso le scale, salgo per i puliti gradini, cammino frustrata verso la stanza. Non fermo i passi dirigendomi al bagno per una doccia rilassante.
L’acqua calda cade sopra le mie spalle e penso che ormai è ora. Temevo che qualche giorno dovrei coinvolgermi. Lo negai per tanti anni, esattamente duemila trecentosettanta giorni. Avevo iniziato a investigare sulla tecnologia del chip al negozio del centro di Myself. Mi ci è voluto qualche mese per ottenere le informazioni classificate. Certamente, che non ci fosse alcun personale per evitare di mettermi a vagare e interagire con i computer centrali del posto. Installata nell’ufficio del direttore generale, disponevo di una infinità di documenti e cartelle dispersi per l’enorme ufficio. Pensai che se accedessi direttamente da quel computer, in poche ore potrei ottenere l’informazione che cercavo. Niente risultava facile nella desolazione. La pressione giornaliera era costante, Sara cresceva dentro di Myself e io non ottenevo risposta. Quando finalmente ottenni i dati di creazione dei chip, l’informazione era apatica a quella che avevo bisogno. Consisteva con migliaia di paragrafi di ogni inserzione dei nervi, massa encefalitica e colonna vertebrale collegata all’utente. Tardai un mese nel leggere e capire ogni dettaglio del meccanismo. Non c’era neanche una teoria di come esportarlo. In una avvertenza molto marcata, insistevano nell’evitare un trattamento chirurgico, visto che potrebbe occasionare la morte immediata dell’utente. Il chip mandava segnali costanti a tutto il corpo, la realità si poteva filtrare e occasionare che il cervello pensasse che sarebbe morto, producendo così, un ictus. Solo a pensarlo mi faceva tremare. Intentai cercare una maniera di spegnerlo, avevo la teoria che, se questo accadeva, Sara tornerebbe immediatamente alla realità. Però questo non era possibile in nessun modo, gli sviluppi evitarono mettere questo meccanismo. Qualche settimana dopo, lessi, in un articolo nella Intranet della sede, che avevano la teoria che spegnere il chip potrebbe causare lo stesso che rimuoverlo.
I mesi successivi in un intento forzato, entrai all’ospedale generale, l’unico che si aveva nella città. Gli allarmi suonarono e tentarono allarmare l’assente personale di sicurezza. Varie ore dopo, smessero. Mi ci è voluto un anno completo controllare tutti gli archivi di ognuna delle operazioni prima e dopo dell’automatizzazione. Ci fu un tempo che i medici facevano la inserzione del chip nel paziente, e ognuno di questi aveva una cartella clinica. Non incontrai alcun fallimento. In ogni cartella l’intervento andava alla perfezione e il paziente di trovava stabile. Dopo migliaia di operazioni, gli stessi dottori si sottomisero all’intervento, essendo così rimpiazzati da una guida automatizzata. Non avevo trovato dati di come toglierlo. Si che avevo imparato a operare alla lettera, di tale maniera che potevo metterlo con gli occhi chiusi. Era l’ultimo che volevo, e se avessi bisogno di uno, lo metterei io stessa.
Continuai a investigare duranti i successivi anni in tutte le notizie, dalla sua prima apparizione come occhiali di realtà virtuale, fino alla sua evoluzione come chip sensoriale. Tutto era perfetto, non c’erano critiche in assoluto. Fino le persone più polemiche della stampa davano per scontato che era il miglior successo tecnologico che fosse esistito. E così fu, nessuno aveva dubbi di questo, neanche io.
Erano trascorsi quattro lunghi anni da quando avevo tentato a fare uscire Sara da Myself e continuavo senza un progresso concreto. Giurai di non arrendermi e mi introdussi nei principi della realtà virtuale; il suo funzionamento, con la complessità di questo vincolo con il trance mentale che proporzionava e il modo di evitarlo. Myself, mediante il chip, dava una sensazione diretta verso il cervello dell’individuo. Avevo scoperto che, se potevo evitare questo, il proprio cervello starebbe in conflitto e tornerebbe alla realità. Tentai di tutto per lunghi mesi, da trance fino a portarla con la mia motocicletta a tutta velocità. Niente era soggettivo per la mente di Sara. Era coinvolta pienamente in questo mondo. Gli ultimi sei mesi ero depressa, no per il fatto di non sapere come, bensì pensare che era l’unica opzione. Una che venivo negando dalla nascita di mia figlia. Adesso dovevo affrontarla.
Tremo solo a pensarlo. Io non posso farlo. È una pazzia. Giro le manopole, l’acqua smette di cadere. Stendo la mia mano tastando la parete fino a incontrare un asciugamani. Me lo passo per il corpo. Mi giro e lo lego al petto. Prendo un altro per i miei lunghi capelli. Lo giro un poco prima di stendermi. Non mi è mai piaciuto bagnare i cuscini una volta stesa.
—Sei lunghi anni persi per la mia innocente figlia — La mia voce cede e inizio a piangere —Sei cresciuta seduta in una sedia, dentro un mondo falso —Ormai senza contenere le lacrime.
Mi pesano gli occhi, la vista si offusca.
Sorge il sole, o così sembra. Gli orrendi tuoni mi svegliano e quasi do un salto nel letto. Scendo a fare colazione, mi costa camminare, il pensiero da giri nella mia testa ogni volta con più forza, si mi fa molto difficile ignorarlo. Mentre, vedo i bracci servendomi un piatto enorme per iniziare il giorno.
Proteine, fibre, vitamine e minerali. Lo scanner aveva dato negativo rivelando un colore rosso allarmante. Gli alimenti digeriti la notte prima, non erano il sufficiente per adattarmi al mio giorno quotidiano in Myself, o così lo intendevo, nel modo che stava programmata la vita automatizzata.
Mangio con un ampio appetito, lasciando pulito il piatto in pochi secondi. Bevo in un solo sorso la spremuta, soddisfacendo una fame che avevo potuto notare fino a questo momento. I nervi, lo stress, il peso che implica il carico che sto per assumere, fino a questo momento non mi ero accorta dell’impossibile che era entrare in Myself, e mi faccio sentire in tutto il vicinato.
—Maledizione! —Grido miseramente.
Chiaro, mia figlia neanche è impassibile dei miei atti, però piango con furia, così vicina, la rabbia non mi fa pensare che a una sola cosa: il chip. Non voglio uno di questi nella mia testa, non potrei uscire, sarei sommersa in questo mondo e in un piccolo errore perderei qualsiasi contatto con la realtà. Passarono vari minuti, sgombro la mia mente e pendo molto in questa tecnologia, nei chip, nella comunicazione di Myself con le persone, penso a un prima. E ricordo che al principio si usavano visori, decenni fa, sì, però potrei ottenere alcuni, in un negozio o case di tutto il mondo, davano uno gratis per promuovere la nuova sensazione, ricordo che il mio lo lancia e l’ho rotto.
—Tonta —Sussurro.
Agli inizi di Myself convivevo con il padre di Sara, ricordai. Mi sorprendo di allegria, la sua stanza non la toccai da quando se ne andò per entrare nel suo nuovo mondo. Lui aveva uno di questi antichi visori di realtà virtuale. Lascio il tavolo e esco correndo verso lì, salgo al primo piano saltando i gradini a due a due, di fretta arrivo alla porta, non posso muovermi. Respiro in cerca di forze e do un passo al fronte. Apro la porta con lentezza, la luce si accese lasciando vedere il disordine del giorno che se ne andò.
Che inizi la mia odissea. —Dico con tutta indifferenza. Lui mai tirava niente che avesse qualcosa con che vedere la tecnologia.
Dopo tre eterne ore rivedendo e rimuovendo ogni tipo di cavi, schermi e elementi vari che non posso segnalare che sono, lo vedo. Con un bagliore di speranza davanti ai miei occhi. Nel suo astuccio plastico celeste con le iniziali di Myself di color bianco. Conservato con attenzione in eccellente stato. Nell’aprirlo mi trovo con l’antico modello di Myself, ha un aspetto di un paio di occhiali, la lente è uniforme, di un solo pezzo e di plastica. Ai lati c’è la batteria di litio, l’interruttore. Il terminale si colloca tra le orecchie in modo convenzionale, come gli occhiali.
Incrocio le dita sperando che si accendi e funzioni. Così succede quando lo accendo. Salto di allegria, non sono mai stata così contenta di trovare qualcosa da parte di lui.
—Finalmente sei servito ad una causa famigliare. —Li dico con tutta la traboccante allegria che emanava il mio volto e un sarcasmo unico.
Eleggo di non vivere più questa vita miserabile e di solitudine. Voglio mia figlia. Nessuno ha il diritto, più che lei, a eleggere la vita che li è stata data. Per questo, decido lottare per un mondo migliore per lei e per me.
Nella stanza con la mia nuova scoperta, faccio spazio sulla scrivania appoggiando con attenzione lo strumento. Mi siedo e tento rilassarmi, mettermi il più comoda possibile. Nel momento che lo porto fuori dall’astuccio, le mani mi iniziano a tremare. Un intenso doloro allo stomaco si fa sentire. Mi alzo e vado in cucina per un bicchiere d’acqua, con un intento di tranquillizzare l’ansia, nervi, paura, disperazione che provoca l’idea di un nuovo mondo. Bevo sorsi corti, mentre la osservo. Mia figlia, seduta, senza nessun movimento. La rabbia corre per le mie vene colpandomi a me stessa per tale debolezza. Riversando valore, torno all’abitazione, prendo il visore, e mi siedo di fronte a lei.
—È per lei che lo faccio, è per mia figlia. —Espresso con sicurezza mentre la osservo.
So che fronte a lei potrò farlo e sopportare questo. Lei è il mio sostegno, mi da le forze che ho bisogno senza darmi un consiglio o parole d’animo. Solo nel vederla così, mi spinge a addentrarmi in qualsiasi posto pur di salvarla.
Respiro mentre guardo fisso il visore, e tento ricordare tutta la contaminazione pubblicitaria che fece Myself nella prevendita. Durante lunghi anni promozionò il prodotto, con innovativi comandi basici