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Al Lupo Al Lupo
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Al Lupo Al Lupo

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Il mezzo vampiro Ollie eredita l’agenzia investigativa di suo zio nel paese non morto di Skullenia.

Assieme all’agenzia c’è il personale di suo zio: uno zombie che riesce a stento a tenersi assieme, un rianimato delle dimensioni di una cabina telefonica e con un QI a una sola cifra, un professore matto e Ronnie, che ha la capacità di rendersi invisibile.

Skullenia sembra essere l’ultimo posto al mondo che avrebbe bisogno di un’agenzia investigativa. Almeno questo è quello che pensa Ollie, fino a quando il Conte Jocular lo incarica di risolvere una serie di inspiegabili sparizioni.

Ma Ollie ha trovato pane troppo duro per i suoi denti? Con l’aiuto della sua raffazzonata squadra e alcuni francamente ridicoli personaggi, tenta di risolvere lo sconcertante mistero.

LanguageItaliano
PublisherNext Chapter
Release dateJun 14, 2020
ISBN9781071540565
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    Book preview

    Al Lupo Al Lupo - Tony Lewis

    Questo libro è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi ed eventi sono il prodotto dell’immaginazione dell’autore o usati in modo fittizio. Qualunque somiglianza a eventi, luoghi o persone vissute o viventi, è puramente accidentale.

    Tutti i diritti riservati. Nessuna porzione di questo libro può essere riprodotta o trasmessa in qualunque forma o con qualunque mezzo elettronico o meccanico, inclusa la fotocopiatura, registrazione o per mezzo di qualunque sistema di archiviazione e recupero di informazioni, senza l’autorizzazione scritta dell’autore.

    Per James

    Forse leggerai questo libro

    Con amore, Papà

    I boschi erano silenziosi e immobili come un cadavere, coi soli suoni prodotti dalle piccole creature selvatiche e dai predatori che davano loro la caccia, intenti a combattere le loro battaglie notturne.

    Maestosa nella sua algidità, la luna era piena e alta in cielo, ma il fitto fogliame degli alti e antichi alberi era sufficiente ad assicurare che solo una misera quantità della sua luce filtrasse a illuminare il terreno argilloso della foresta sotto di essa.

    Fu allora che un suono di passi quasi impercettibile disturbò la calma immacolata, e un basso sussurro fluttuò nell’aria scura.

    «Dobbiamo proprio farlo adesso?»

    «Beh, quando altro vorresti che lo facessimo? Potresti provare a venire all’ora di pranzo, suppongo, ma non credo che troveresti molti lupi mannari in giro ad abbronzarsi».

    «Va bene, d’accordo, ma ricorda cosa è successo agli ultimi due che hanno preso questo incarico».

    «E sarebbe?»

    «Sono venuti qui del tutto impreparati senza aver fatto nessuna ricerca. Hanno perfino portato dei proiettili d’argento, per l’amor del cielo, e tutti sanno che non funzionano».

    «Beh, non tenermi col fiato sospeso blaterando per tutta la notte. Cosa gli è successo?»

    «Uno non è mai stato trovato, e tutto quello che hanno mai trovato dell’altro è stato il cappello».

    «E?»

    «C’era ancora la sua testa dentro!»

    «Quindi, sulla base di quello, stai solo presumendo che sia stato mangiato da un lupo», giunse la sarcastica risposta.

    «Beh, cos’altro avrebbe potuto farlo qua fuori? Un Boy Scout impazzito? Che aveva fatto troppi nodi alla marinara ed era completamente andato fuori di testa?»

    «Magari Cowan si è stufato delle sue lamentele continue e gli ha tagliato la testa per farlo stare zitto».

    «Non rendermi nervoso, già lo sono abbastanza».

    «Non sapevo che avessi paura del buio».

    «Non è il buio il problema. È ciò che si nasconde nel buio che mi fa venire la tremarella. Soprattutto qua fuori».

    Uno sbuffo smorzato infranse il silenzio di tomba.

    «Guarda, non c’è davvero niente di cui preoccuparsi. Sai che ho portato tutto quello che potrebbe servirci. Ho aconito, catene e lucchetti, un fischietto per cani...»

    «Già, e mezza pecora che marcisce in quella sacca. Ne sento l’odore da qui, è disgustoso. È talmente forte che abbiamo più possibilità che ci faccia attaccare da uno squalo. Guarda, perfino le larve corrono via».

    «Non sapevo che le larve potessero correre».

    «Taci».

    «Non so davvero perché tu sia venuto, Alf», disse la prima sagoma, lasciando cadere il sacco pieno di carne al suolo, dove atterrò con un suono liquido e viscoso. «Non hai fatto altro che lamentarti e spaventarti per la tua stessa ombra».

    «È troppo buio per le ombre. È come essere in fondo a un cavolo di pozzo».

    «Guarda tutt...»

    «Sssshhhh».

    «Che c’è?»

    Un suono sussurrato, quasi impercettibile, aveva penetrato il silenzio abissale. Non era stato in effetti più forte di un asciugamano fresco di bucato che accarezzava la guancia di un bambino, ma era risuonato forte come un colpo di pistola, dato che la foresta era così immobile.

    Entrambi gli uomini reagirono all’istante, rannicchiandosi e tendendo le orecchie per quel che poteva valere, cercando non solo di capire cosa avessero sentito ma anche da dove fosse giunto, e cosa l’avesse originato.

    Alf era ormai andato oltre le sue paure iniziali per quell’impresa. Era arrivato alla stazione di Santo Panico ed era sul punto di diventare un relitto farfugliante fatto e finito. Avrebbe voluto darsi alla fuga ma aveva i piedi incollati al terreno, le ginocchia che gli tremavano e le viscere che gli si stavano velocemente liquefacendo.

    «Ehi!» sussurrò. «Che cos’è?»

    «Non ne sono sicuro», rispose il suo compagno, «ma credo ci sia qualcosa dietro di noi».

    Qualunque cosa fosse, il qualcosa emise un intenso, basso ringhio che i due uomini sentirono fin dentro il petto.

    «Siamo nei guai».

    Il ringhio divenne più forte e più minaccioso.

    «Siamo decisamente nei...»

    Tutto ciò che Alf vide fu una sagoma grossa e indistinta lanciarsi alle spalle del suo amico e, quando lo colpì un istante dopo, aveva forza sufficiente a trascinarlo sul suolo della foresta. Percepì un soffio di aria gelida sulla guancia e l’inconfondibile odore di cane bagnato.

    Il suo socio colpito urlò una volta e poi venne messo a tacere, il suo grido sostituito da uno sgradevole suono liquido. Alf osservò con affascinato orrore una testa delle dimensioni di quella di un cavallo girarsi verso di lui, e due intensi occhi rossi fissarlo con uno sguardo maligno. Un denso fluido scuro gocciolava lungo un dito indice mentre l’alito della creatura formava nubi miasmatiche davanti a essa. Un istante dopo, l’enorme bestia si lanciò verso l’ormai solitario cacciatore, intenzionata a ridurlo a brandelli per poter proseguire il suo macabro festino.

    Alf reagì per istinto, la ghiandola surrenale che pompava come non mai per alimentare i muscoli tesi, e, prima di essere conscio di ciò che stesse facendo, si girò per scappare.

    Purtroppo, però, il suo istantaneo tentativo di fuga subì una drammatica e improvvisa interruzione. Quando il suo piede destro ruotò, la punta dello stivale si impigliò in qualcosa di legnoso e, anche se ogni tendine e fibra del suo corpo lottarono per farlo restare in piedi, perse l’equilibrio e si schiantò pesantemente sul terreno cosparso di foglie. Il tempo parve rallentare e, mentre cadeva, girò la testa. Il lupo mannaro gli era quasi addosso. Era nel pieno della corsa, tutte e quattro le zampe staccate dal terreno, le fauci sbavanti spalancate e pronte a colpire. Rendendosi conto che, senza ulteriori azioni, sarebbe stato fatto a pezzi, Alf portò avanti il braccio sinistro, in cerca di una presa nel tentativo di rimettersi in piedi e allontanarsi da quella che sarebbe stata la più certa delle morti. Le sue dita però non afferrarono il terreno. Toccarono, e istintivamente si chiusero attorno a, un gelido pezzo di legno che era troppo uniforme per appartenere a un qualunque albero.

    Col tempo che ora sembrava essersi fermato, si avvicinò l’oggetto. Se non altro avrebbe potuto usarlo come mazza. Poi, con un lampo di intenso sollievo che lo fece letteralmente rabbrividire, si rese conto che era il fucile di grossa potenza che lui e il suo recentemente deceduto conoscente si erano portati dietro.

    Il lupo era ormai abbastanza vicino da permettergli di vedere i piccoli capillari rossi nei suoi occhi, e annusarne il fetido alito alla carne. Senza pensarci due volte, Alf puntò la canna dell’arma sulla creatura e premette il grilletto, spedendole dritto contro un proiettile a punta cava. Non vide dove questo penetrò, ma l’improvviso silenzio e il fatto di non essere stato smembrato gli dissero tutto ciò che aveva avuto bisogno di sapere. Ricadde sul terreno della foresta e lasciò andare il respiro che aveva trattenuto per quella che gli era parsa un’eternità.

    «Mai più», mormorò tra sé.

    * * *

    «Ova di cena, Ollie!»

    «Oh, santo cielo, devo proprio?»

    «Penfo proprio di fì, altvimenti mettevai la tua, uh, anima immovtale in fecco, uh, fevio pevicolo, decci, dicce, vovinevai la tua fteffa cavne e, uh, offa e poi dovvai paffave tutta l’etevnità a vagave per il nonmondo eteveo».

    Ollie Spina chiuse gli occhi e sospirò, cercando di allontanare il pensiero della cena dalla mente. In effetti, e a mo’ di presentazione (che non si dica che noi scrittori siamo maleducati), potrebbe farvi comodo sapere che Ollie era un vampiro. Beh, un mezzo vampiro, comunque. Suo padre, Glut lo Sventratore, era un ben famigerato succhiasangue, noto in tutto il mondo dei non morti come la più raccapricciante e malevola tra le creature che avessero mai indossato il mantello nero e i denti appuntiti. Sua madre, tuttavia, non era una tale abitante dell’oscurità, occupante dell’altromondo o di qualunque malvagio vicinato di qualsivoglia genere. Si chiamava Sharon Goldsmith ed era, allo stato attuale, assistente in una piccola biblioteca di Cardiff (lavorava nella sezione della lingua Gallese, perciò passava la maggior parte del tempo a pulire catarro dai libri e spiegare ai turisti inglesi che heaty hottio non significava forno a microonde).

    Suo padre l’aveva conosciuta durante una delle sue tante spedizioni di caccia notturne (o, per dirla in altro modo, andava in giro a uccidere più cose viventi possibile prima che il sole sorgesse e lo trasformasse in un tortino di carne).

    Sharon, d’altra parte, essendo un po’ più accademica e non così tanto interessata ai massacri su scala mai più vista fin dai tempi dell’epidemia di Spagnola, si era presa un anno sabbatico dall’università e stava viaggiando attraverso l’Europa dell’est per aprire la mente ed espandere le sue esperienze di vita.

    Come da tradizione (e chi sono io per metterci becco) si erano incontrati in un isolato villaggio pseudomedievale popolato da sempliciotti sbavanti, idioti di prima classe e una donna pazza che passava il tempo a girovagare urlando CHIIIIII! ai passanti. Avete capito che genere di posto, no? Se no, immaginate il Southend ma un pizzico più amichevole e con un QI collettivo più elevato.

    Comunque sia, il loro incontro era stato una sorta di rivelazione per entrambi. In tutti i suoi secoli di esistenza, Glut non era mai stato tanto colpito da un’umana (nel fatto di non provare l’impulso di lacerarle la gola e bere il suo sangue. Beh, l’aveva fatto per un po’, ma non sarebbe stato un vero vampiro in caso contrario, no?), e, per impossibile che potesse sembrare, si era davvero innamorato della ritrosa ragazza del Galles.

    E così, colpito com’era stato dalle fatali frecce di Cupido, si era reso conto che, se voleva forgiare un qualsivoglia genere di rapporto significativo con Sharon, avrebbe dovuto essere sincero con lei. Così aveva corso il rischio e le aveva parlato del suo, come potremmo definirlo, colorito stile di vita alternativo. Con sua sorpresa, lei aveva accettato tutto senza battere ciglio, e affrontato il surreale racconto del vampiro in modo incredibilmente pragmatico perché, a volerla dire tutta, era tanto colpita dall’enorme succhiasangue quanto lui da lei. Non si erano mai sposati, ovviamente, perché i vampiri semplicemente non lo fanno per tradizione, e poiché le tradizioni sono in un certo senso tradizionali, e i vampiri sono molto tradizionalisti nel rispettare le tradizioni, non era possibile che Glut infrangesse quella particolare tradizione, perché era davvero tradizionale e, come potrete immaginare, ci sono tradizioni con le quali non si può scherzare. A lei, comunque, era stato riservato il più grande degli onori che un vampiro potesse fare a una donna umana. Aveva scelto lei perché portasse in grembo suo figlio, e da allora avevano vissuto una felicissima storia d’amore, molte grazie. Lui continuava ancora a farle visita diverse volte l’anno (è su tutti i giornali quando succede. Beh, quasi. L’ultimo titolo è stato Altre 34 morti inspiegate nella capitale del Galles. Senza dubbio lo capiranno un giorno o l’altro, ma per allora non sarà rimasto nessuno a parte Sharon, quella statua di Sir Gareth Edwards e il tizio che pulisce il Millennium Stadium).

    Perciò Ollie, grazie alle sue origini miste, aveva ricevuto in dono alcuni tratti molto caratteristici e in qualche modo bizzarri. Poteva ipnotizzare chiunque volesse (purché avesse il cervello di un pugile dei pesi massimi alla fine della carriera e il QI di un cavolo bollito, vale a dire); doveva evitare il contatto diretto con la luce del sole, ma poteva uscire di giorno se si bardava come un eschimese che odiava davvero tanto il freddo; dormiva in una bara delle dimensioni della cassa di un pianoforte e, per qualche strano motivo, poteva rendere invisibile il suo piede sinistro. Nelle notti buone, se aveva dormito tanto e si concentrava davvero intensamente, poteva trasformarsi in un pipistrello di taglia decente. Beh, c’era riuscito una volta sola, ma si era stufato dell’intero processo e aveva giurato di non farlo mai più dopo che aveva passato tre ore appeso a testa in giù a un ramo, si era svuotato la vescica sulla faccia, era svenuto ed era caduto in terra. E cercare di farsi la barba senza avere un riflesso era una costante spina nel mento.

    Il rovescio della medaglia di tutte queste nere, vagamente malvagie e, qualcuno avrebbe potuto dire, oltraggiosamente nefande capacità (e, siamo seri, è bello avere un po’ di equilibrio. Non paga essere del tutto marci per tutto il tempo, no?, a meno di essere un serial killer, un malvagio dittatore o un agente immobiliare, almeno), era che amava bere una tazza di tè Earl Grey (decaffeinato, ovviamente. I vampiri possono essere già abbastanza irascibili anche dopo una bella giornata di sonno), i panini alla Marmite senza crosta, un buon goccio di vino e un bel pianto per qualunque cosa fosse anche lontanamente sentimentale.

    Il suo retaggio era anche il motivo del suo alquanto peculiare nomignolo. In pura tradizione vampiresca, secondo cui il titolo dell’uomo avrebbe dovuto significare qualcosa di più abietto possibile, il suo nome era in effetti Gore lo Spaccaspinedorsali, ma, dopo che aveva raggiunto l’età in cui cose del genere avevano importanza, aveva deciso che sarebbe stato pressoché impossibile cercare di vivere per l’eternità con un titolo talmente spettrale, soprattutto dopo che una sera aveva cercato di prenotare un tavolo in un ristorante. Aveva a malapena finito di pronunciare il suo nome che il maître gli aveva rivolto un’occhiata alquanto bizzarra, era impallidito come un cencio e gli aveva chiesto di andarsene, o avrebbe chiamato le autorità. Ovviamente una squadra di poliziotti non avrebbe rappresentato alcun problema per il giovane vampiro, ma non era quello il modo in cui aveva pianificato la serata, e dover uccidere vari esponenti della legge gli avrebbe probabilmente fatto passare l’appetito.

    Ollie, però, amava il suo vecchio padre, perciò, in segno di rispetto, anziché cambiare del tutto il suo nome, lo aveva contratto nel più ragionevolmente user friendly Spina. Ollie era il nome di un gattino che aveva avuto da piccolo. Un gatto che era misteriosamente scomparso un fine settimana quando suo cugino di nove anni e mezzo, Grind l’Ammazzafelini, si era fermato a dormire da lui.

    Il più grosso problema nella vita di Ollie, comunque, era un totale e assoluto disprezzo della vista, odore, sapore, consistenza e aspetto del sangue. Ogni volta, il solo pensare a quel rivoltante liquido lo faceva rabbrividire, cosa che avveniva in effetti due volte al giorno, una pinta per volta. E, come potrete immaginare, non era piacevole essere una creatura della notte quando lo spargimento di sangue, e qualunque altra cosa correlata a quella disgustosa sostanza, gli facevano venire i conati di vomito. L’incontro semestrale dell’Unione Vampiresca, V.L.A.D (Vampiri Liberi Amanti del Dissanguamento) era un totale incubo dall’inizio alla fine. Gli altri membri, che si gettavano allegramente galloni di AB negativo in gola, avrebbero felicemente estratto le zanne se avessero scoperto che aveva fatto entrare di contrabbando un paio di bottiglie di Ribena al gusto fragola. E il buffet, beh, non c’erano parole per descriverlo (era putrido, nauseante, orripilante, cattivo, repellente e senza mezzi termini schifoso. Ecco, c’erano delle parole dopotutto. Urrà per le iperboli, enfatizzazioni, esagerazioni, infiorettature eccessive e via dicendo).

    Mentre Flug posava il vassoio sulla scrivania e indietreggiava appena, Ollie pensò a quello che aveva appena detto. Sembrava legnoso e ingessato, quasi imparato a memoria. Non avrebbe mai potuto pensare qualcosa del genere per conto suo.

    «Hai di nuovo guardato le belle figure nei tuoi fumetti di vampiri, Flug?»

    «Già. A me piace i cacciatovi. Fono fovti», rombò lui.

    «Ne sono sicuro».

    «E bvavi cuochi».

    «Cuochi?» chiese Ollie.

    «Fanno belle cofe coi polletti, a me piace polletto».

    Ollie guardò sdegnato il colosso di fronte a lui.

    «P-A-L-E-T-T-I. Non P-O-L-L-E-T-T-I, testa di legno», disse, spezzettando e compitando le parole come se si stesse rivolgendo a un bambino particolarmente stupido, o a un adulto di Chatham. Scelse di glissare sul fatto che gli apparenti eroi di Flug passassero la maggior parte del loro tempo a inchiodare vampiri al pavimento, strappare loro i denti come souvenir e, in aggiunta a tutto questo, piantare loro pezzi di legno nel petto, cosa che, come minimo, era onestamente piuttosto antigienica. E se ci fosse rimasta una scheggia? Avresti potuto ritrovarti con una bruttissima infezione.

    Una risata secca e roca giunse da una figura in ombra celata sulla porta.

    «Non serve a niente dirglielo così, Ollie, amico. Sai che ha problemi a mettere in fila due frasi. E a capirle, per quel che vale. Figurarsi una parola intera».

    «Avrebbe problemi a infilare due perline. Allora, che posso fare per te?»

    Phillip Sutura Meeup avanzò tranquillo verso la scrivania di Ollie. Aveva un passo basculante e inclinato e un aspetto polveroso, grigio e quasi messo assieme a casaccio, il che era virtualmente vero a dirla tutta. Nei centosessant’anni dalla sua rianimazione, il tempo e la consunzione avevano esatto il loro prezzo da giunture, muscoli e tessuti del vecchio zombie, e cercare di riportare indietro le lancette dell’orologio era una battaglia continua che non avrebbe mai vinto. C’erano sempre parti di lui che cadevano, e non c’era olio di fegato di merluzzo, crema per le mani o Svitol a sufficienza da tenere a bada il suo estremo processo di invecchiamento. Si portava dietro in ogni momento un piccolo kit da cucito in caso di incidenti, da cui il suo adeguato, anche se non fantasioso, soprannome (ma siamo seri, esiste forse un soprannome fantasioso? Uh... no. Se ti chiami Jones, è Jonesy. Smith... Smiffy, ecc. Se sei un tantino grosso è Smilzo e se sei alto è Piccoletto. Il più popolare è ovviamente riservato ai partecipanti al Grande Fratello VIP. Ognuno di essi è noto come Chi cavolo è quello?)

    Sutura si sedette su una vecchia poltrona in pelle di fronte a Ollie.

    «Mi chiedevo solo se stesse arrivando del lavoro. Quello non dovresti berlo, a proposito? Meglio che non si coaguli», disse, indicando il boccale pieno di sangue.

    Ollie fece una smorfia e allungò una mano verso il rivoltante spuntino.

    «Grazie davvvvvero per avermelo ricordato», grugnì.

    Sutura si appoggiò allo schienale della poltrona e incrociò le gambe, suscitando un sonoro schiocco e un preoccupante sbuffo di polvere.

    «Non c’è di che, raggio di sole. Mi conosci, sono sempre pronto a dare una mano», rispose.

    Ollie si bloccò con il boccale a qualche centimetro dalla bocca.

    «Quante volte dovrò dirti che non è divertente chiamare un vampiro raggio di sole?»

    «A me fa ridere», disse Sutura, mostrando un sorrisino sarcastico.

    «Questa non è una garanzia di qualità umoristica. Perdonami».

    Ollie chiuse forte gli occhi e si strinse il naso con le dita prima di fare un profondo respiro, deglutire a vuoto, inspirare rumorosamente, schiarirsi la gola, inspirare ancora e, ammesso fosse possibile, stringersi ancora di più il naso, per poi buttar giù il liquido caldo.

    «Che schifo», disse strozzato mentre sbatteva giù il boccale vuoto, schizzando microscopiche goccioline di sangue sulla superficie di legno della scrivania nel processo, un pasticcio che non avrebbe notato finché non avrebbe cercato di prendere un foglio appiccicoso. Fece un tremendo rutto e quella che gli parve metà della linfa vitale di un energumeno alto due metri gli risalì in gola. Non fu piacevole.

    «Che fuccede, Ollie. A te no piace?» domandò Flug, un’espressione preoccupata sul volto (o avrebbe potuto essere costipata. Le espressioni facciali di Flug potevano essere un po’ difficili da comprendere dato che aveva l’aspetto di un incidente stradale ricucito malamente, perciò si trattava per lo più di tirare a indovinare. Per facilitare le cose, era meglio supporre che fosse confuso. Di solito ci si azzeccava).

    «No, era orribile», suggerì Sutura.

    Ollie si pulì la bocca con un fazzoletto di seta e poi lo gettò nel cestino. Se anche fosse stato lavato con l’acido solforico e messo ad

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