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L’America può attendere
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L’America può attendere

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Pochi mesi dopo la fine della Seconda guerra mondiale, tre giovani partigiani, mentre stanno rientrando finalmente alle loro case a bordo di una corriera, rimangono vittime di un incidente causato da una mina. Solo uno di loro riesce a sopravvivere e viene ricoverato all’ospedale San Martino di Genova. Ha circa venticinque anni, fisicamente si riprende quasi subito, ma non ricorda nulla del suo passato. Il dottor Sessarego che lo ha in cura si interroga sulle motivazioni che potrebbero avere causato una tale amnesia, incuriosito anche da una certa confusione dimostrata dal paziente che a volte pare ricordare di chiamarsi Giovanni, altre Stefano. Grazie ai consigli di un collega psichiatra, lo guida in un difficile percorso che permetterà al ragazzo di recuperare la memoria.
Grato dell’aiuto ricevuto, comincia a raccontare a Sessarego di come scorreva la sua vita nel 1939. Sullo sfondo di un’Italia alle prese con una profonda crisi economica, narcotizzata dai proclami del Duce e dalla massiccia propaganda fascista, Giovanni, bello, fascinoso, di idee socialiste, vive la stagione dei suoi vent’anni tra lavoro, serate al bar del borgo e un amore profondo per Maria Pia. Poi, l’arrivo della cartolina precetto cambia tutto. E una rete delicata di bugie offusca la linea tra le ferite di guerra e quelle del cuore. Il romanzo di Antonio Vattuone è un ponte gettato oltre lo smarrimento che accomuna tutti, una garbata a tratti vivace e ironica partitura che ci sussurra come, contro ogni avversità, viviamo per amare.
LanguageItaliano
Release dateApr 1, 2020
ISBN9788832926521
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    L’America può attendere - Antonio Vattuone

    1

    Genova 1945

    Uno splendido sole troneggiava in mezzo al cielo azzurro terso, in quel mattino del due maggio 1945, quasi a voler presagire non solo l’arrivo della bella stagione ma la nascita di una nuova vita. Un cielo limpido e trasparente che tingeva d’azzurro anche i pensieri della gente e che rivestiva di nuova luce i dolori recenti. Finita la messa, molte donne del paese avevano formato il solito crocchio sul sagrato della chiesa ma quel giorno tralasciarono gli abituali discorsi, le quotidiane lamentele e avvertirono il bisogno di interrogarsi alla ricerca della notizia certa: pace, quella magica parola tanto auspicata e non ancora confermata da una autorità costituita.

    Si respirava un clima di attesa, qualcuno sosteneva che la guerra era finita, un’operaia della Biciclette Fiorelli di Novi Ligure affermava che da giorni non incontrava più nessun tedesco. Un’altra azzardò che i mezzi corazzati alleati stavano per attraversare il paese e avrebbero distribuito biscotti e cioccolatini, qualcuna per facilitare questo evento snocciolò il rosario in una serie ulteriore di Ave Maria. Improvviso si udì il rumore sordo di un camioncino Dodge telonato che si arrestò sulla piazzetta di fronte alla chiesa di San Giacomo.

    Ne scesero quattro ragazzotti sui vent’anni, disordinati, le pistole alla cintola, che trasudavano entusiasmo da tutti i pori.

    È finita, donne gioite. Da una settimana non si trova un tedesco a pagarlo a peso d’oro, hanno ucciso il duce, anche la Petacci. Il messaggio è stato diramato direttamente dal CLN. L’Italia è libera, finalmente! Quel comunicato, secco e stringato, sancì la conferma tanto auspicata.

    La notizia vibrò nell’aria come uno schianto, colpì le campane della chiesa che suonarono a festa e l’onda d’urto dei loro rintocchi raggiunse quelle delle borgate circostanti con il risultato che, come in una magica reazione a catena, il loro suono si diffuse di vallata in vallata. Rintocchi che si perdevano nel tempo e nello spazio, erano il suono dolce e nostalgico della libertà. L’annuncio rimbalzò tra la gente con un’energia montante e nessuno poté rimanere insensibile al suo dilagante propagarsi. Poco dopo, se repentino era stato il suo arrivo, altrettanto repentina fu la partenza. Il Dodge si trascinò dietro il cigolio delle balestre e una nuvola di polvere che quel giorno non sembrò neppure fastidiosa. Pochi minuti di stupito silenzio, seguito da una confusione contagiosa. Una folla di donne, vecchi e bambini si stava assemblando nella piazzetta, che in quel momento pareva ancora più angusta a contenere tutti coloro che volevano partecipare all’evento. In questo tripudio di fazzoletti al vento, grida, abbracci e pianti, Gavi stava vivendo uno dei più bei giorni della sua storia, così come ogni città, paese o rione dell’Italia intera. C’era in tutti il desiderio di riscoprire il piacere di vivere e abbandonarsi a una esultanza da troppo tempo dimenticata. Sebbene l’essere sopravvissuti a quella insensata e dissoluta strage di genti procurasse loro emozioni contrapposte: un sentimento di incredulità perché qualcosa di troppo bello da immaginare stava avvenendo e anche di angoscia, dal momento che si sentivano dei miracolati in debito con la vita, con una responsabilità vincolante del proprio futuro.

    Nel bel mezzo di tanta euforia, Giovanni e i due compagni di viaggio Piero e Angelo entrarono in paese. Era passato da poco mezzogiorno. Avevano camminato tutta la notte tra boschi e radure, evitando i piccoli borghi abitati e godendo del chiarore della luna. Stava albeggiando quando i tre giovani scorsero la cittadina dall’alto di una collinetta che degradava amena verso i filari di vigna. L’abitudine a muoversi nell’ombra, guardinghi e silenziosi, suggeriva di mantenersi lontani dai paesi ma in quel momento avevano esaurito le loro esigue scorte alimentari, pertanto decisero di attendere la tarda mattinata per studiare se e quanto conveniva sostare nel borgo.

    Il tenente Amedeo, responsabile diretto del plotone cui appartenevano i tre ragazzi, aveva concesso loro di partire verso i rispettivi luoghi di origine già dalla sera del primo maggio. Impartì loro le solite raccomandazioni di prudenza, pur sapendo che i tedeschi, ormai oltre il Brennero non rappresentavano più un’insidia. Dopo la liberazione di Genova, Torino e Milano, compiuta da unità della Resistenza, i messaggi che arrivavano dalle altre brigate parlavano di calma relativa. Radio Londra continuava a ripetere che l’Italia era stata liberata e che presto sarebbe caduta anche la Germania. La cattura di Hitler era l’ultimo tassello per porre dunque la parola fine.

    Si ritrovarono sulla piazzetta antistante la chiesa parrocchiale di San Giacomo, circondati da una folla festante che, in disordine, arrivava dalle varie contrade. Chi abbracciava la persona accanto, chi agitava fazzoletti colorati, chi rideva, chi piangeva, chi pregava, si improvvisavano balli, si versavano bicchieri di vino. Lo gustarono anche loro, un bianco secco fruttato, caratteristico del luogo che nonostante la scarsa cura ricevuta negli ultimi anni, aveva conservato tutta la sua bontà e i suoi aromi, a significare il perpetuo miracolo della natura. Gradirono alcuni pezzetti di formaggio e pane nero, familiarizzarono con la gente del posto.

    I tre erano tutti originari della Liguria, uno di Recco, l’altro di Finale Ligure, infine Giovanni di Genova Pra’.

    Parteciparono con entusiasmo alla festa spontanea, socializzarono subito e vennero fatti oggetto di attenzioni e premure, quasi si volesse simboleggiare nelle loro figure di partigiani gran parte del risultato raggiunto.

    Si avvicinò il curato che fuori del sagrato chiese: Dove siete diretti figlioli? Di cosa avete bisogno? Poi rivolto alla folla: Il nostro paese sarà lieto di poter aiutare questi tre bravi giovani, lasciando trapelare le sue simpatie per il movimento partigiano.

    Chiediamo solamente tranquillità, reverendo. Stiamo tornando dalle parti del monte Tobbio e intendiamo raggiungere il passo del Turchino prima possibile per poi scendere sulla costa. Ci siamo mossi nella notte e non abbiamo incontrato anima viva.

    Tra non molto sarà l’ora di cena, consideratevi miei invitati. Aspettate un attimo… avverto la perpetua di mettere qualcosa in pentola e apparecchiare per tre nuovi amici. Così, se vi garba, mi racconterete la vostra storia. Breve pausa e poi: Facciamo un salto in chiesa, voglio ringraziare il Signore, venite pure, e senza attendere oltre entrò.

    I tre si sorpresero della sua richiesta ma non poterono esimersi dal seguirlo.

    La chiesa era un motivo di orgoglio per il prete che non perdeva mai l’occasione per descriverne qualche aspetto significativo e come sempre si lasciò trasportare.

    Cari figlioli, osservate l’impianto basilicale a croce latina e il magnifico organo in alto alle vostre spalle. Chiuse gli occhi, ebbe la sensazione, come per magia, di udire la melodia dello strumento diffondersi tutt’intorno, il suono nitido e chiaro, quasi solenne, come se l’organo desiderasse celebrare anch’esso l’evento, unendosi al ritmo festante delle campane. Nessuno fiatava. Il prete sembrava si fosse dimenticato di loro ma, subito dopo, si accorse che i tre ragazzi lo fissavano stupefatti.

    Accennò un sorriso. Scusate, oggi mi sembra di essere in paradiso, e riprese le sue spiegazioni.

    I giovani avevano rispetto per la sua figura e non osavano interromperlo però dal loro sguardo si coglieva un certo imbarazzo, in quel momento l’arte era l’ultimo dei loro interessi, facevano solo un cenno col capo per simulare attenzione ma in verità la partecipazione era decisamente passiva. Appena fuori del sagrato, il curato, con compiaciuta soddisfazione, prese a magnificare la torre dove alloggiava una enorme campana voluta secoli prima dalla Signoria dei Visconti.

    Questo prete è pure simpatico nella veste di guida ma speriamo non la tiri tanto per le lunghe, sussurrò Giovanni.

    Ancora più piano Angelo aggiunse: Non ho mai guardato così a lungo gli arredi di una chiesa, neppure quando facevo il chierichetto.

    Di seguito, passando sotto uno splendido porticato, scesero in un giardino da cui si poteva osservare il torrente Lemme in basso e di fronte un’ordinata successione di vigneti già verdognoli delle prime gemme.

    Sono il nostro orgoglio, aggiunse il don, e il nostro volano economico più importante. Se gradite possiamo mangiare qui fuori.

    Accettarono con entusiasmo.

    Una frugale minestra d’orzo e una fetta di pecorino. I ragazzi, avvezzi da troppo tempo a situazioni precarie ben peggiori, la considerarono grazia di Dio, apprezzando, insieme al cibo, la calma e la serenità che trasudava dalla figura del curato. Aspetti quasi dimenticati dai tre, che da anni vivevano nell’ombra, clandestini, costantemente in guardia, spesso soli con se stessi. La paura era sempre lì, con loro, palpabile, li tallonava come un’ombra e non riuscivano a scacciarla via in nessun modo, seppure col tempo fossero riusciti a gestirla.

    Quella serata, serena, rappresentava il preludio alla qualità di vita che li attendeva.

    Il curato, senza altro indugio, fece preparare tre posti letto di fortuna nella sua canonica questi bravi ragazzi partiranno domattina dopo una notte ristoratrice e senza troppa fatica li convinse a rimanere suoi ospiti. Davanti a una tisana preparata con erbe aromatiche, seduti, rilassati e stupiti, i giovani risposero con dovizia di particolari alle domande del prete che si dimostrò assai documentato sull’organizzazione dei nuclei di resistenza partigiana. Volle sapere precisamente dove avevano operato e nel corso della discussione rivelò d’aver conosciuto, prima della guerra, il comandante Amedeo che aveva esercitato la professione di medico presso l’ospedale di Tortona.

    Una gran persona, prese la parola Giovanni, ci ha sempre guidato con maestria e sagacia e ci ha fatto crescere come uomini.

    Il curato fece ampi cenni di assenso col capo e poi, senza più nascondere le sue simpatie per la Resistenza, disse: Quanti giovani ho confessato prima che partissero per la montagna. Ragazzi che, costretti a scegliere, hanno preferito la lotta partigiana. Per fortuna tutto è rimasto nel segreto della confessione. Nelle mie vesti di sacerdote avrei dovuto mantenere un atteggiamento neutro ma… ebbe un attimo di esitazione, tutti abbiamo una coscienza a cui dobbiamo rispondere. Cercare giustificazioni a eventi che si verificano attorno a noi e adagiarsi senza reagire è comodo e semplice ma ognuno ha una responsabilità nel proprio cammino di vita e deve prendere decisioni a volte difficili. Quasi mai è bianco o nero, giusto o sbagliato, ma è anche qualcosa che ha a che fare con la nostra dignità e non si può fingere di non vedere. Rassicuravo quei giovani perché se avevano fatto quella scelta significava che la consideravano necessaria per loro e per il proprio futuro e allora era come se la grata del confessionale scomparisse, cancellando qualsiasi percezione di colpevolezza per chi abbracciava la clandestinità.

    È una storia comune a molti di noi, padre, intervenne Giovanni. Quando si entrava nella resistenza si conoscevano solo in parte le difficoltà e i pericoli cui si andava incontro. Talvolta eri assalito da dubbi sulla scelta fatta, ma l’idea di un futuro di pace e di libertà aveva il potere di dissolverli, senza lasciare traccia. Ora tutto è finito, ci vorrà tempo per sanare le ferite che ci portiamo dentro ma siamo vivi, giovani e stiamo tornando a casa.

    Bravo, la vita è tornata a sorridervi, bisogna essere positivi e sempre confortati dalla presenza del Signore.

    Padre lasciamo perdere, dall’inizio della guerra non me ne va bene una... disse Angelo. Dopo quanto mi è successo in questi anni la mia fede quantomeno vacilla.

    Il curato si aprì in un sorriso bonario. Oh, pecorella di Dio, dove stai andando? Ti sei smarrita tra le rovine della guerra? Adesso puoi tornare all’ovile, coraggio!

    In verità, rispose Angelo assorto, per il solo fatto di essere sopravvissuto… forse ha ragione lei.

    La partenza è per domattina. Vi darò del pane, del formaggio e vi sposterete di giorno con la luce del sole. Basta muoversi di nascosto. Dicevate...

    Non volevano deludere il prete ma i tre erano spossati. La fatica e la tensione della lunga giornata stavano prendendo il sopravvento, erano solo attratti dalla prospettiva di un confortevole riposo. Signor curato, ci vorrà scusare, però siamo davvero stanchi, confessò Giovanni.

    Ma certo! Abbiamo tutti una gran voglia di dimenticare e, per quanto possibile, sognare. Domani è un altro giorno. Andate pure e cercate di riposare, buona notte a tutti. Alzò le braccia in segno di pace, sul viso un ampio sorriso rassicurante. Si versò l’ultimo calice di giornata che bevve d’un fiato poi, quasi a vergognarsi, fece il segno della croce.

    Quella notte Giovanni rimase sveglio a lungo, nel caldo delle coperte, al buio. Era eccitato, nella sua mente tutto mulinava, si sovrapponeva. Immagini del recente passato si confondevano con quelle del presente e l’ansia, dentro di lui, continuava a farla da padrona.

    Avvertiva i rumori e le grida festose provenienti da fuori che non si placavano. Solo a notte inoltrata fu sconfitto dal sonno.

    La luce del giorno che filtrava dalle persiane della canonica lo svegliò. Nonostante avesse dormito poche ore non si sentiva affatto stanco, anzi, pareva pervaso di nuova energia. Una sensazione piacevole e appagante.

    Latte e fette di pane nero erano disposti sul tavolo in bell’ordine. Mentre l’aroma dell’orzo tostato si diffondeva in tutto l’ambiente, cresceva il buon umore di tutti.

    Non voglio trattenervi oltre, disse il prete raggiante e abbracciandoli, buona fortuna ragazzi. Giovanni si persuase che ricominciava a vivere davvero. Gli si inumidirono gli occhi.

    Erano le undici del mattino, dall’alto del crinale, apparve loro Ovada, il duomo e la ciminiera della fonderia poco lontana, sorrisero nel vedere sventolare in ogni dove una miriade di bandiere tricolori. Alla loro sinistra non poterono non ammirare il maestoso castello di Tagliolo e il suo torrione millenario, mentre lungo le colline era tutto un rifiorire di vigneti.

    Quasi quasi mi farei un goccetto di vino! Prima della guerra i miei compravano la barbera da un commerciante di Ovada, aveva una vecchia balilla cassonata che spesso lo lasciava a piedi ma il vino era buono, propose Piero.

    Non se ne parla nemmeno, replicò deciso Giovanni. Niente distrazioni ragazzi, abbiamo già bevuto ieri sera nella casa del curato. D’ora in avanti serate così saranno all’ordine del giorno quindi proseguiamo. Ho una gran voglia di rivedere casa mia. Voi? Ma ce ne rendiamo conto? Ce l’abbiamo fatta, vacca boia!

    Aveva lanciato le braccia al cielo in segno di trionfo. Si sorprese a ridere per questo.

    Niente vino, Piero, sarà per un’altra volta, meno gente incontriamo meglio è, meno discorsi... meno spiegazioni… meno tempo perso.

    Stava crescendo la frenesia di arrivare a casa. Dopo tanti mesi alla macchia in cui si era reciso ogni contatto con il passato, erano stati tagliati tutti i ponti alle spalle e i legami con la vita di prima si erano frantumati, a Giovanni pareva di vivere un sogno.

    I suoi compagni, meno positivi di lui, alternavano stati d’animo di spavalda sicurezza ad altri di dubbi e inquietudine. Temevano di ritrovare un mondo diverso da quello che ricordavano: lutti, affetti smarriti, un futuro incerto. Ma l’ottimismo contagioso di Giovanni interveniva in questi momenti d’apprensione e fugava ogni loro incertezza.

    Il giovane si orientò rapidamente, individuò il monte Dente che si ergeva maestoso davanti a lui e la Gava in direzione ovest. Morbide nuvole bianche, sospinte da una brezza leggera, lasciavano intravedere sempre più nitide le cime dei monti.

    Una camminata agile e spedita, non sentivano neppure il peso degli zaini. L’energia che possedevano era tale che senza carico sulle spalle si sarebbero sollevati come gli uccellini che volteggiavano sopra di loro, liberi e leggeri nell’aria fresca.

    Impiegarono poco tempo a giungere sullo spartiacque: il sole aveva dissolto le nebbie residue dalle colline, il cielo, diventato terso, si era tinto di un azzurro brillante. Si intravedevano il mare, il golfo di Genova, più lontano a sinistra il promontorio di Portofino e a destra Capo Noli e l’isola di Bergeggi che assomigliava a una cupola verde e luccicante di una basilica sommersa.

    Le terre di Liguria si manifestarono in tutta la loro bellezza e provocarono un terremoto di emozioni.

    I tre giovani si bloccarono a rimirare quello spettacolo, quel quadro perfetto e superbo, che dava loro un senso di vertigini e comunicava una recondita sensazione di possesso, come se un artista misterioso lo avesse regalato loro in segno di benvenuto. Il futuro si stava svelando, vivo e colorato, non più avvolto nelle nebbie.

    Si abbracciarono commossi e lacrime di gioia pura, di vita, iniziarono a rigare le loro guance; era il pianto che lavava il loro cuore da ansie, dubbi e paure, un pianto liberatorio che si confondeva con il sorriso.

    Giovanni respirò a pieni polmoni, gli sembrò di percepire odori e profumi familiari: di sabbia, mare, olive, mimosa, lavanda.

    Qui mi sento già a casa. Vi porto diritti al mare.

    Poi l’euforia si impadronì anche della sua voce che salì di tono quasi che i compagni fossero distanti.

    Scendiamo a valle sulla sinistra. Altipiano del Faiallo, Acquasanta, Mele e ci siamo... Poi uno a levante, l’altro a ponente. Ma niente addii, ci saluteremo con una semplice stretta di mano perché ci rivedremo presto, in libertà. Come suona strana questa parola, eppure... è vera.

    Giunsero alla galleria del Turchino: udirono un vociare festoso, qualcuno cantava... un vecchio torpedone Fiat 626 stava per partire diretto a Voltri. Fecero in tempo a salire. In quei giorni pareva che la fortuna volesse ripagare a piene mani i tre ragazzi. Pareva...

    La Lancia Ardea attraversò viale Benedetto XV e si fermò davanti al pronto soccorso di San Martino. Due giovani volontari della Croce Rossa adagiarono su una lettiga il ferito, una gamba penzolante, macchie di sangue sparse su tutto il corpo, sguardo assente. Una scena raccapricciante destinata a ripetersi più volte. Di lì a poco arrivarono infatti altre ambulanze con il triste carico di feriti a bordo che, nonostante l’emergenza, ricevettero assistenza e cure di prima necessità. Arrivarono pure le prime notizie sull’incidente, purtroppo confuse e contraddittorie, fatte di conferme e smentite.

    Il torpedone partito dal Turchino dopo pochi chilometri aveva avuto un incidente: in una brutta curva si è ribaltato... no, l’autista è stato colto da malore... no, è entrato in collisione con un altro furgone... no. L’unico dato certo era l’incidente con la sua scia di sangue e vite umane spazzate via. Solo dopo alcune ore fu accertata la vera causa: il mezzo era salito sopra una mina in posa sul lato destro della carreggiata e l’esplosione che ne era seguita, devastante, aveva in gran parte distrutto il mezzo consegnando quattro morti, pochi illesi e un gran numero di feriti.

    Solo la cronaca locale seguì la vicenda per un paio di giorni, in particolare polarizzando l’attenzione sulla morte di un neonato e della sua giovane mamma. La drammaticità emotiva di questo particolare caso catturò l’attenzione della gente, che finì per sorvolare sulla sorte degli altri feriti. Seguì l’archiviazione dell’incidente, senza ulteriori approfondimenti, facendolo rientrare tra gli eventi funesti di una lotta fratricida che mostrava gli ultimi orrori.

    In quei giorni di esaltazione e di confusione, ogni testata giornalistica preferiva mettere in risalto le notizie provenienti da oltre Manica e da oltre oceano perché la popolazione ne era affascinata e le tirature dei giornali aumentavano. Dopo il bollettino di guerra sempre più circoscritto attorno a Berlino e il suo führer si menzionavano i marines che dai loro carri armati lanciavano sigarette e cioccolato, comparivano foto di Churchill con il suo sigaro o di Roosevelt con il suo sguardo sorridente e rassicurante. Dopo un decennio di regime autarchico, affascinava tutto ciò che proveniva dall’estero.

    Dei tre amici non ne parlò più nessuno, cosi come nessuno cercò di loro.

    Purtroppo Angelo, il giovane recchelino non avrebbe più rivisto il golfo di Punta Sant’Anna: era giunto in ospedale in condizioni drammatiche, spirò poche ore dopo. Piero presentava preoccupanti ustioni al tronco e in altre parti del corpo: prognosi riservatissima che si risolse in una agonia di quattro terribili giorni. Sopravvivere alla lotta partigiana per poi morire in un incidente a pochi chilometri da casa fu il colmo di un’ironia perversa.

    Forse il terzo aveva un quadro diagnostico migliore: una larga ferita nella gamba destra all’altezza del ginocchio e uno stato confusionale grave. Si trattava di Giovanni. Dopo le cure di primo soccorso venne trasferito nel padiglione quattro in una grossa camera con sei posti letto dove fu affidato a un giovane ortopedico, Giuseppe Sessarego. Nonostante un’inevitabile confusione e qualche disservizio, tutti i pochi medici disponibili, il personale infermieristico di ogni livello e volontari di ogni età e ceto, si adoperavano senza sosta e senza orario nell’assistenza dei malati. L’odore di alcool, di cloroformio e di varichina aleggiava nei corridoi e si confondeva talvolta con quello del sangue e delle urine. Ogni giorno la Croce Rossa e altre associazioni di volontariato riuscivano a distribuire una zuppa più o meno calda a tutti, personale ospedaliero e malati. In quel particolare momento storico di caos politico e sociale, in corsia si dimenticavano i contrasti ideologici, gli isterismi personalistici, le ristrettezze e le frustrazioni di ogni genere. In quei giorni la presa di coscienza che la guerra era finalmente finita si rivelò il vero motore trainante che aiutò a sanare le ferite di un popolo bastonato, ancor più all’interno degli ospedali.

    Il giovane medico seguì l’evoluzione della ferita di Giovanni senza nulla tralasciare. L’arto è compromesso per rottura della tibia con interessamento dei legamenti della caviglia destra, ma l’ingessatura di un mese e un congruo periodo di riabilitazione restituiranno il paziente alla sua normalità. Tutto questo pensava con assoluta convinzione. Quando lo visitava notava, soddisfatto, un lento miglioramento, non aveva versamenti attorno al ginocchio e l’edema alle dita del piede cominciava a riassorbirsi.

    Piuttosto, un problema d’altra natura stava emergendo: il paziente appariva spesso distratto, quasi assente e trascorreva le varie giornate di degenza in assoluto silenzio. Passava il suo tempo sdraiato a letto, di frequente assopito, senza alcuna partecipazione o forma di socializzazione con i compagni di camera, qualche volta guardava fuori della finestra ma non lasciava trapelare alcun interesse. Raramente pronunciava qualche parola, per lo più a caso e senza un filo conduttore, rifiutava ogni forma di dialogo, pareva prigioniero di se stesso e del suo passato.

    In tali condizioni appariva difficilissimo chiarire la sua posizione, la sua identità, la sua persona. Un signor Nessuno. Caso clinicamente difficile e stimolante.

    Il Sessarego si interrogò: Occorre un quadro clinico più ampio? È necessario monitorare le condizioni psico-fisiche del malato? Questo shock emotivo da cosa deriva? È una diretta conseguenza dell’incidente sul torpedone? Oppure un trauma che si sta trascinando da tempo che va ascritto ai recenti eventi bellici? Queste domande stavano diventando assillanti; il medico ne rimase coinvolto al punto da rifletterci anche quando era in pausa o a riposo. E in tal senso si attivò, cominciando a studiare, da una nuova ottica, il caso. Era un ortopedico, ma la condizione di quel giovane lo catturava a tal punto da farlo diventare un casus ad personam, il suo caso.

    Passarono settimane senza novità significative, una situazione di stallo, a esclusione della gamba che stava migliorando costantemente. Che ne sarebbe stato di questo paziente completamente svanito quando fosse stato dimesso? Aveva qualche parente? Qualche amico? L’assenza dei documenti o di una qualsiasi traccia che potesse condurre a un riconoscimento ufficiale, rappresentavano un problema. Situazioni che evolvevano generalmente verso un successivo ricovero presso un ospedale psichiatrico, con risultati incerti. Tali considerazioni stavano turbando il giovane medico: decise che gli sarebbe stato ancora più vicino in un percorso di riabilitazione psico-terapeutica ben sapendo che non aveva molto da offrire se non il suo normale buon senso.

    Primo obiettivo fu quello di scoprire la vera natura della malattia.

    Ciao Giorgio, sono Sessarego, da San Martino. Disturbo?

    Ciao Giuseppe, lieto di sentirti, nessun disturbo, aveva subito risposto il dottor Giorgio Canepa, psichiatra, coetaneo di Sessarego e suo compagno di studi all’università.

    Come stai? La famiglia? Tutto bene spero.

    Direi bene, mia moglie segue le bambine e cura la casa. E tu resisti? Ancora niente matrimonio?

    Con Federica ci stiamo pensando. Vedremo.

    Piuttosto… a cosa devo il piacere?

    Voglio chiederti un parere a proposito di un mio paziente. Rottura della tibia e lesione ai legamenti crociati ma fin qui nessun problema. È in via di guarigione.

    Bene, quindi?

    Si tratta di un giovane sui venticinque anni, sano, bello e robusto. Ma la testa non risponde. È arrivato qui dopo l’attentato alla corriera del Turchino. Circa venticinque giorni fa.

    Ne avevo sentito parlare.

    Si lamenta qualche volta per mal di testa, se sarà vero, perché in tutti questi giorni, avrà detto cinquanta parole, sconnesse tra loro. Dorme, osserva, tace, vegeta insomma e mi fa tanta pena. Voglio aiutarlo, per questo ti ho chiamato. Ho bisogno di qualche tuo suggerimento.

    "Bene, ascolta: la prima fase, in genere, è la più critica, non si conosce ancora il paziente, non si conoscono le sue stimolazioni emotive dunque si seguono le

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